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Il summit che porta al Fondo

di Michele Paris - 29/06/2010




Il primo dei due summit annuali del G-20, andato in scena nel fine settimana a Toronto, ha messo in luce in maniera drammatica le profonde divisioni che attraversano i paesi più industrializzati all’indomani della gravissima crisi economica planetaria. Alla ricerca di un impossibile compromesso tra maggiore spesa pubblica per stimolare l’economia e misure di austerity per ridurre il deficit, i leader di governo riuniti in Canada hanno finito per accordarsi su una dichiarazione finale inconsistente e contraddittoria. Allo stesso tempo, i sia pur deboli provvedimenti previsti per regolare il sistema bancario internazionale, sono stati ancora una volta messi da parte.

Ad anticipare il principale conflitto che ha messo di fronte la Germania e i paesi europei agli Stati Uniti, era stata una lettera indirizzata alla vigilia del vertice dal presidente Obama agli altri membri del G-20. Nella missiva, Washington metteva in guardia dagli effetti negativi sulla ripresa economica prodotti dalle misure di riduzione del debito, adottate da fin troppi governi da questa parte dell’oceano. Per incoraggiare le esportazioni americane, la casa Bianca invitava in particolare Germania e Cina - i due maggiori paesi esportatori - ad incrementare la propria domanda interna.

Con lo spettro della Grecia e il diktat delle grandi banche e dei mercati finanziari, in Europa si è però ormai scelta la strada dei tagli alla spesa pubblica e del “consolidamento” del debito sovrano. Con Berlino e Londra a guidare la febbre del deficit - entrambi i governi conservatori hanno recentemente introdotto tagli indiscriminati alla loro spesa - la maggioranza dei venti paesi più avanzati ha finito allora per convergere sostanzialmente sulla proposta del primo ministro canadese, Stephen Harper. Il comunicato ufficiale ha così sancito il ritorno alle misure di austerità dopo il breve periodo di “deficit spending” seguito all’esplosione della bolla finanziaria dell’autunno del 2008.

Gli obiettivi ufficialmente fissati dal G-20 sono il dimezzamento del passivo di bilancio dei paesi membri entro il 2013 e la stabilizzazione del loro rapporto tra debito e PIL entro il 2016. Di fronte alle perplessità di Stati Uniti, Brasile, India, Giappone e altri paesi, tali obiettivi non saranno però vincolanti ed ogni governo sarà libero di intraprendere provvedimenti su misura per ridurre i rispettivi deficit. Ogni governo, in definitiva, sceglierà autonomamente il proprio percorso per uscire dalla crisi, con buona pace della necessità di stabilire regole in maniera condivisa per scongiurare nuovi rovesci dell’economia mondiale.

Ancora a sottolineare le divisioni e il tentativo di conciliare due visioni opposte, nel documento finale del summit, su richiesta americana, è stato inserito un passaggio che evidenzia come ci sia “il rischio che una serie di aggiustamenti finanziari [tagli] sincronizzati messi in atto dalle maggiori economie possano mettere a repentaglio la ripresa”. Ciò riflette l’ammonimento del Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, il quale aveva chiesto un approccio misurato alla riduzione del debito, così da non ostacolare la ripresa e gettare l’economia mondiale in una nuova fase di recessione. Nonostante i proclami, tuttavia, gli scrupoli di Washington sono rivolti agli altri paesi, dal momento che proprio la scorsa settimana al Congresso è stato bocciato un nuovo pacchetto di stimolo all’economia e di sostegno alla disoccupazione.

Se il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha elogiato l’esito del G-20, rassicurando che i tagli che stanno per abbattersi sui lavoratori e la classe media in Europa e negli Stati Uniti non provocheranno una nuova recessione, sembra essere precisamente quest’ultimo scenario ad attenderci nel prossimo futuro. Il taglio della spesa pubblica in un periodo di crisi non fa altro che indebolire ulteriormente un’economia già fragile, comprimere gli investimenti e ridurre le entrate fiscali dei vari paesi.

Oggi, insomma, si stanno ripetendo i medesimi errori che portarono ad un aggravamento della crisi economica nei primi anni successivi al crollo del 1929, come ha ricordato il premio Nobel Joseph Stiglitz in un’intervista al giornale inglese The Independent. Ma si stanno ripercorrendo anche le orme del FMI quando, tra gli anni Ottanta e Novanta, impose pesanti politiche restrittive all’Argentina, all’Indonesia e a molti altri paesi in via di sviluppo causando più danni che benefici. Una politica dettata principalmente dal rigore ideologico di un’élite dirigente incapace di vedere le conseguenze devastanti prodotte dalla compressione della spesa, dal taglio dei servizi e dal ridimensionamento dell’intervento pubblico nell’economia su decine di milioni di persone.

I fantasmi della Grande Depressione sono stati rievocati sul New York Times anche da un altro Nobel per l’economia, Paul Krugman, il quale, dopo aver criticato l’esito “profondamente scoraggiante” del G-20 canadese, ha preannunciato una imminente terza depressione, dopo quelle del cosiddetto “Panico del 1873” e appunto quella degli anni Trenta del secolo scorso. L’ossessione per un inesistente pericolo inflazione e per misure di contenimento del deficit, quando il vero problema è in realtà un livello inadeguato di spesa pubblica, non potranno che condurre ad un prolungato periodo di stagnazione, disoccupazione di massa e gravi sofferenze per i redditi più bassi.

Sul fronte della regolamentazione del sistema bancario, infine, tutto è stato rinviato al prossimo summit che si terrà a Seoul, in Corea del Sud, a novembre. I temi all’ordine del giorno comprendevano in particolare una nuova tassa da applicare alle transazioni finanziarie per ripagare i costi dei programmi di salvataggio delle banche degli ultimi anni e, allo stesso tempo, l’aumento del capitale che queste ultime dovrebbero garantirsi per fronteggiare eventuali perdite in periodi di crisi. Anche in questo caso, l’esito dei negoziati ha smascherato le spaccature all’interno del G-20.

Da un lato gli USA spingevano per un’implementazione relativamente rapida delle nuove norme; dall’altro in Europa si chiedeva di rimandarne l’entrata in vigore in attesa di una piena ripresa economica. In realtà, queste divergenze nascondono un’aspra competizione tra gli istituti bancari europei ed americani. Infatti, mentre le banche americane sono state stabilizzate grazie ad una serie di fusioni e soprattutto agli ingenti fondi pubblici stanziati dopo il crollo del settembre 2008, quelle europee appaiono tuttora in condizioni estremamente precarie. Se le nuove regole dovessero essere applicate a breve, la debolezza delle banche europee consentirebbe a quelle americane di conquistare nuove quote di mercato nel vecchio continente.