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“Velvet Revolution”, atto secondo.

di Manfredi Mangano - 12/07/2010


 
“Velvet Revolution”, atto secondo.

Dopo l’era Klaus la Repubblica Ceca torna alle origini: gli eredi di Vaclav Havel tornano alla ribalta, king-makers di una pressochè certa coalizione di centrodestra. Duramente sconfitta la prospettiva socialdemocratica, la sinistra è chiusa nell’angolo. E cambia anche la politica estera: atlantisti eccome, ma la strada per Washington passa per Berlino.

Le scorse elezioni politiche in Repubblica Ceca, tenutesi sabato 29 maggio, hanno consegnato al Paese una geografia politica completamente stravolta: i due partiti perno della democrazia centroeuropea, la socialdemocratica CSSD e la conservatrice-liberista ODS, sono infatti crollati dal loro usuale “mercato potenziale” del 65% a poco più del 40. E a beneficiarne, con grande sorpresa degli analisti, sono stati due partiti, il populista VV (Affari Pubblici, guidato da un giornalista investigativo di tendenze libertarie e democratico-direttiste) e il liberalconservatore TOP09 (Tradizione-Responsabilità-Prosperità, fondato dal carismatico Principe von Schwarzenberg), molto chiari su cosa intendono chiedere al popolo ceco: lacrime e sangue. Il paese veniva da un prolungato periodo di instabilità politica, generato dalla rissosità della vecchia maggioranza ODS- KDU/CSL (un partito cristiano democratico di tendenze europeiste)-Verdi, e dalla non facile personalità dell’ex primo ministro Topolanek, noto in Italia per le sue foto in costume adamitico a Villa Berlusconi e nel suo Paese per una infuocata intervista con giudizi poco lusinghieri su ebrei e omosessuali.

A questi fattori e a una serie di difficoltà economiche, si era andato a saldare anche un certo isolamento internazionale: il presidente Vaclav Klaus, leader dell’ODS, aveva spinto con forza per l’adesione del Paese al progetto di scudo missilistico USA e, coerente con le posizioni anti-stataliste e “sovraniste” che l’avevano spinto a concordare lo smembramento della Cecoslovacchia e la mancata formalizzazione del Gruppo di Visegrad con Polonia e Ungheria in una organizzazione regionale, aveva fatto fronte comune col controverso Presidente polacco Lech Kasczinsky per bloccare il Trattato di Lisbona. Sul piccolo Paese mitteleuropeo si erano quindi addensate le ire di Bruxelles (e del potente vicino tedesco, considerato che Klaus aveva vincolato la sua firma a una modifica al Trattato contro eventuali rivendicazioni immobiliari da parte degli esuli dei Sudeti), nonchè quelle di Mosca; l’elezione di Obama e il congelamento dello scudo avevano non a torto gettato nell’ansia la dirigenza ceca. In questo contesto, una vittoria elettorale alle elezioni regionali del 2008 e il collasso del governo Topolanek, rimpiazzato da un governo tecnico, sembravano il miglior viatico per una vittoria della CSSD di Jiri Paroubek, ex primo ministro. Tanto più che uno dei partiti della maggioranza, la KDU, aveva subìto una devastante scissione a opera del carismatico principe Karel von Schwarzenberg, ministro degli Esteri di Tusk, che prometteva di rubare parecchi voti all’ODS. L’unico problema sembrava il dover scegliere i partners della futura coalizione di governo: la prima opzione di Paroubek, convinto europeista e sostenitore di una rapida integrazione nella zona Euro, sarebbe probabilmente stata proprio il TOP09, uscito dalla maggioranza in aspra polemica con il fortemente euroscettico Klaus. Di fronte alla sua apparente indisponibilità, tuttavia, Paroubek era più che pronto a giocarsi la carta di un possibile appoggio esterno del Partito Comunista Ceco, il più forte d’Europa e tuttora convinto della bontà dell’esperienza 1948-1989: nonostante lo Statuto della CSSD, uno dei pochi partiti socialdemocratici est-europei a non venire dall’ex partito filosovietico al potere, impedisse alleanze organiche, le proposte socialdemocratiche di tassare i ricchi, bloccare definitivamente i progetti di scudo e ritirarsi dall’Afghanistan avrebbero verosimilmente ottenuto il sostegno della battagliera estrema sinistra. Una simile possibilità aveva gettato nello sconforto i commentatori dei grandi giornali liberisti d’Occidente, e con loro anche le Borse; un analista, Robert Kron, si era spinto al punto di immaginare per il Paese una politica estera post-atlantica e opportunista che avrebbe messo in soffitta l’inclinazione americanista e predominante nel paese dai tempi della presidenza Havel.

I Risultati

Cosa ha portato a un risultato tanto diverso dalle aspettative, con i socialdemocratici gabbati da una vittoria in termini di voti ma lontanissimi dal poter creare attorno al loro tutto sommato magro 22,1% una maggioranza di governo? A favore di Paroubek non hanno certo giocato l’esplicita possibilità di un’alleanza con i comunisti, in un Paese che sente ancora forte l’eredità simbolica della Primavera di Praga e di Charta 77, e il suo ruolo come ex dirigente del Partito Socialista (una formazione fantoccio del vecchio regime). Ma l’aspetto più importante è stato sicuramente l’esplodere della crisi greca, che ha acceso nel piccolo e virtuoso Paese una forte ansia e ha spinto gli indecisi lontano dalle posizioni di Paroubek, a suo tempo congedatosi dal governo con un forte incremento del debito pubblico.

Il fattore economico si è andato poi a combinare al forte rigetto, da parte del Paese e sopratutto delle sue fasce più giovani e urbanizzate, dell’attuale sistema politico: sia Klaus che Paroubek sono visti, pur essendo non più vecchi di molti loro colleghi occidentali, come “dinosauri”, e la scarsa popolarità del Presidente non ha beneficiato il suo concorrente, considerato un arrogante “barone delle tessere”, specialmente dopo il “pensionamento forzato” del popolare ex primo ministro Milos Zeman, che ha corso alle elezioni con una sua lista il cui risultato, pur di poco più basso dell’asticella del quorum, ha escluso i socialdemocratici dalla premiership. Il leader socialdemocratico si era ulteriormente alienato i favori dell’elettorato orchestrando, con il sostegno di alcuni transfughi della maggioranza, una mozione di sfiducia contro il suo vecchio e odiato avversario Topolanek proprio durante il semestre ceco di presidenza dell’UE, in cui il Paese sperava di riscattarsi dell’aura di “pariah” procuratagli dalle intemerate di Klaus. Solo il 13% dei giovani cechi ha votato per la CSSD e il KSCM, oramai sempre più accomunate da un elettorato di pensionati e lavoratori rurali, consegnando una netta maggioranza a TOP09 e VV, i due “piccoli partiti irresponsabili” tanto in uggia a Klaus ma che combinati hanno preso un terzo dei voti in più del suo ODS: circa la metà dei 200 deputati uscenti non è riuscita a tornare in Parlamento, abbassando l’età media dei deputati in un paese che, all’inizio degli anni 2000, aveva brevemente avuto un primo ministro trentaduenne.

E proprio tra i giovani Karel von Schwarzenberg è oramai diventato un personaggio quasi cult: l’aristocratico, legato a un gran numero di famiglie nobiliari boeme, austriache e polacche, incarna in pieno le loro aspettative di modernizzazione e dinamismo, mescolando retorica da libera impresa, europeismo e un americanismo in salsa obamiana. Lui e il nuovo leader dell’ODS Petr Necas sono visti come figure concilianti in grado di portare la Repubblica fuori dalle secche della contrapposizione reciproca, e nonostante le trattative siano ancora in corso, è chiaro che il nuovo governo taglierà fortemente il deficit, ora al 5,9% del PIL, e muoverà, con quale velocità è da vedere, verso l’adozione dell’Euro. Resta da vedere anche se il partito populista VV, in cui statutariamente le decisioni più importanti devono passare per il voto degli iscritti, sarà realmente un partner affidabile per i due partiti di centrodestra che, senza di lui, non hanno la maggioranza assoluta e sono relativamente appaiati a un blocco socialcomunista che, sommato alla lista di Zeman, mantiene comunque un insediamento attorno al 40%, mentre non è certo una novità, nella tumultuosa politica ceca, l’emergere di partiti conservatori d’opinione, magari implosi nell’arco di una o due legislature. Con le dimissioni di Paroubek e una stagione di austerità durissima in arrivo, i socialdemocratici potrebbero avere una chance di rilanciare un’immagine di partito del cambiamento, anche se la grande incognita è l’evoluzione dello scenario politico che, ad oggi, è talmente spostato a destra da obbligarli a cercare una intesa con i comunisti, reduci addirittura da un tentativo di bandirne l’organizzazione giovanile per “contrarietà al principio costituzionalmente garantito di tutela della proprietà privata”. Lo stesso KSCM è attraversato da un duro dibattito interno sulla possibilità di aprire ai socialdemocratici in maniera stabile e moderare le proprie posizioni, con alcuni che si spingono fino a ipotizzare scissioni fino ad oggi impensabili in un partito che ha largamente mantenuto stabile la sua base elettorale nel corso degli ultimi 20 anni.

La politica estera

A questo punto, cosa cambia nella politica estera del Paese? Si può rispondere moltissimo o quasi nulla, a seconda dei punti di vista. Quasi nulla dal punto di vista dei più ampi orientamenti geopolitici del Paese: Vaclav Klaus e i suoi univano a un determinato euroscetticismo una fedeltà incontestabile all’Alleanza Atlantica in generale, ma agli USA in particolare, e la Repubblica Ceca non aveva fatto mancare il suo supporto né nelle campagne per i diritti umani in Tibet, Birmania etc., né in momenti più drammatici come lo scudo missilistico, la guerra in Afghanistan, dove è tuttora presente un contingente ceco, o quella in Iraq, dove il Paese ha mantenuto truppe dal 2003 al 2008. Paroubek aveva impostato la sua campagna anche su una deviazione di rotta, che si basasse più su un riapprocciarsi con Bruxelles, i cui Fondi Strutturali sono una grande opportunità di modernizzazione per il Paese, e con Mosca, magari tramite i buoni uffici della Slovacchia del vicino Robert Fico. Ed è proprio Mosca la grande sconfitta “geopolitica” di queste elezioni ceche: il king-maker Schwarzenberg aveva già a suo tempo spinto fortemente per lo scudo missilistico, e definito Putin, in una intervista allo Spiegel, un governante autoritario, rifiutando l’idea di una zona di influenza o interessa russa in Europa orientale e il sovrano diritto del suo Paese a scelte di questo genere. Schwarzenberg è inoltre stato uno dei collaboratori dell’ex Presidente Havel, che con lui torna a influenzare la politica del Paese dopo che, all’inizio degli anni ’90, Vaclav Klaus aveva portato il suo ODS fuori dalla coalizione civica di Havel e lo aveva poi rimpiazzato alla Presidenza, “chiudendo” la Cecoslovacchia. E’ quindi chiaro che, qualora le attuali relazioni complessivamente rilassate tra USA e Russia dovrebbero avviarsi a nuove fasi di crisi, la Repubblica Ceca farà una chiara scelta di campo.

Tuttavia, cambia moltissimo da un altro punto di vista: se Klaus aveva sempre privilegiato il legame transatlantico diretto, Schwarzenberg e Havel provengono da un altro filone di pensiero, che considera fondamentale l’integrazione (o, sarebbe meglio dire, la re-integrazione) anche politica della Repubblica Ceca con una Europa Occidentale di cui ci si sente l’estremo avamposto davanti a una Russia “asiatica”, e che viene naturalmente vista in un rapporto di parità e stretta amicizia con gli Stati Uniti. I legami politici, e anche familiari, di Schwarzenberg, confrontati con le chiare reazioni di alcuni grandi giornali tedeschi, fanno quindi pensare che un fronte fondamentale di politica estera del nuovo governo sarà quello di fare da ponte tra Berlino e Washington, la “coppia d’oro” dell’Occidente a lungo divisa, poi riapprocciatasi, e oggi di nuovo ai ferri corti sulla crisi finanziaria. Con la vittoria del centrodestra ceco e slovacco, la recente affermazione di Komorowski in Polonia e l’imprevedibile ma fiscalmente ortodosso governo di FIDESZ in Ungheria, la Germania ha ora dalla sua un formidabile blocco di sostenitori del rigore economico che, se si dovesse saldare con la nuova Inghilterra liberalconservatrice di Cameron (come auspicato da Mario Monti in un recente dibattito alla LUISS sul rilancio del mercato unico), garantirebbe alle sue ricette un peso fortissimo sulle future scelte dell’Unione Europea.

*Manfredi Mangano è dottore in Scienze Politiche (Università degli Studi di Camerino)