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Afghanistan, viaggio nel paese dei papaveri

di Enrico Piovesana - 08/05/2006

La narcomafia dell'oppio coinvolge tutti: dai contadini poveri al presidente Karzai
 


I verdi campi afgani di papaveri d’oppio si tingono di rosa: è iniziata la fioritura. Presto sarà il momento del raccolto, che quest’anno si i preannuncia da record. In questi giorni il governo di Kabul, con il sostegno di cinquemila sodati britannici, sta avviando la campagna di sradicamento e distruzione delle piantagioni. Un’operazione tante volte annunciata ma mai realmente effettuata. Per il rischio della violenta reazione dei contadini spalleggiati dai talebani (che con i proventi dell’oppio finanziano la loro, sempre più aggressiva,
resistenza armata). Ma soprattutto perché nel business dell’oppio sono coinvolte le stesse autorità afgane che dovrebbero combatterlo. Un coinvolgimento a tutti i livelli: dalla polizia locale, ai comandanti militari distrettuali, ai governatori provinciali, su su fino ai responsabili governativi di Kabul. E’ di questi giorni la notizia (emersa dai dischi fissi dei pc trafugati dalla base Usa di Bagram e rintracciati nei bazaar locali dal Los Angeles Times) che tra i ‘trafficanti di primo livello’ figurano l’ex governatore della provincia di Helmand, Sher Mohammed Akhundzada, il capo della sezione antinarcotici generale Mohammed Daoud, il capo di stato maggiore della Difesa generale Abdul Rashid Dostum e il suo predecessore maresciallo Mohammed Fahim. Manca solo un nome, quello del boss più potente; il nome che tutti sanno ma che nessuno osa fare: quello di Walid Kazrai, fratello del presidente Hamid Karzai.
Papaveri dopo il raccolto (Foto E.Piovesana)In questo reportage, quel nome viene fuori. Come vengono fuori tutte le connivenze delle autorità, comprese quelle statunitensi. Ma soprattutto emerge la radice del problema oppio: l’estrema povertà dei contadini afgani, costretti a coltivare papaveri per dar da mangiare ai propri figli, data la mancanza di ogni reale alternativa economica di sopravvivenza. Per fortuna c’è anche chi sa dire la verità, come il coraggioso governatore di un distretto di Helmand: “Per estirpare la piaga dell’oppio non servono le ruspe nei campi e i fucili contro i contadini. Né bastano i sussidi e gli incentivi, che comunque non ci sono. Ci vuole uno sviluppo culturale ed economico che richiede anni, generazioni. Gli afgani smetteranno di coltivare oppio solo quando le autorità smetteranno di fare affari con i trafficanti e quando i contadini avranno delle reali fonti alternative di sussistenza. E’inutile strappare la pianta se si lasciano nella terra le radici: i papaveri continueranno a fiorire”.   

 
Prima parte 
Il polveroso e rumoroso bazar di Lashkargah, trafficato da motorette e motorisciò, carretti e calessi trainati da asini, trattori stracarichi di contadini e pick-up che trasportano nel cassone uomini armati di kalashnikov, è il centro di smistamento di tutto l’oppio afgano. In questi giorni, capannelli di curiosi – giovani e vecchi, contadini e poliziotti – si accalcano davanti ai cartelloni e ai manifesti che preannunciano la campagna antidroga del governo Karzai. Un disegno ritrae le ruspe e i soldati che distruggono un campo di papaveri mettendo in fuga il diavolo che dimora nella piantagione. Il messaggio è chiaro, anche per i molti analfabeti che non sanno leggere gli avvertimenti scritti che accompagnano le immagini. Qualcuno sorride, ma i più sembrano preoccupati. Per la gente di qui l’oppio non è il diavolo, il male, bensì l’unico bene, l’unica fonte di sopravvivenza. Chiunque possieda un appezzamento di terra fertile più grande di un orto lo coltiva a papaveri.
 
Nizab, coltivatore e padre di famiglia.  Basta fare un giro per la provincia di Helmand per rendersene conto: tutti i campi, ma proprio tutti, sono stati seminati a oppio. Anche quello di Nizab, quarant’anni, magro come un chiodo, intento a strappare con il falcetto le erbacce che infestano i germogli dei papaveri. “In famiglia siamo venti persone. Con quello che ricavo dalla vendita dell’oppio riesco appena a sfamare i miei figli. Guardate qui – dice sfilando una scarpa di gomma tutta rotta a uno dei bambini che gli stanno intorno – non ho nemmeno i soldi per vestirli! Se non fosse per l’oppio moriremmo di fame, perché non c’è altro: non potremmo certo campare con quel che danno al mercato per il grano o il cotone, un decimo di quello che pagano per l’oppio”.
Un altro disegno dei cartelloni ritrae giovani afgani che si drogano fumando oppio. Ormai l’Afghanistan sta diventando paese consumatore, oltre che produttore. “Lo so che l’oppio uccide la gente – dice Nizab – e non solo nei vostri paesi, ora anche qui da noi. Non è colpa mia se ci sono persone che hanno i soldi per drogarsi: io di soldi non ne ho e per dar da mangiare ai miei figli sono costretto a coltivare questa roba. Magari potessi riuscirci facendo altro! Se il cotone e il grano rendessero come l’oppio, cambierei subito coltura. Se ci fossero altri lavori da poter fare per vivere, non ci penserei due volte. Ma qui non c’è niente altro che questo: tariak, oppio”, dice Nizab indicando il campo attorno a sé e oltre.
“Ho visto i manifesti in città e ho sentito dire in giro che arriveranno i poliziotti e anche i soldati inglesi a distruggere i nostri campi: che vengano pure, noi li aspettiamo! Difenderemo a costo della vita i nostri campi, perché tanto se ci tolgono anche questo, moriremo lo stesso: di fame! Se con i soldi dell’oppio i talebani ci si comprano le armi per me va bene, perché sono loro che difenderanno i nostri campi. Adesso è meglio che ve ne andiate prima che qualche…guardiano vi spari dalle colline laggiù”.
 
Karim, commerciante d’oppio al bazaar. Tra la folla di persone che al bazar di Lashkargah osservano i nuovi manifesti c’è anche Karim, un uomo sulla quarantina, uno dei tanti piccoli commercianti d’oppio della città. Come tutti i suoi colleghi, ufficialmente fa il cambiavalute, ma nel retro della sua piccola e buia bottega vende tariak. “Io lo compro dai contadini a un centinaio di dollari al chilo e lo rivendo a circa 150”, ammette Karim dopo aver negato per mezz’ora di avere a che fare con l’oppio. “I prezzi sono crollati rispetto agli anni scorsi per colpa della sovrapproduzione: nel 2000 i coltivatori vendevano a 400 dollari al chilo perché i talebani avevano fermato la produzione l’anno precedente, proprio per far salire il prezzo”. Karim racconta che i suoi clienti sono iraniani e pakistani, e anche qualche russo e qualche turco. Ma pure gente del posto e perfino soldati americani “Vengono a fare scorta a fine missione per portarselo a casa come souvenir”.
Karim è un pesce piccolo nella catena del business dell’oppio, solo un gradino sopra ai contadini che lo coltivano.
I veri signori della droga, i trafficanti, vivono in pacchiane ville fortificate, girano con lussuosi fuoristrada e con l’orologio d’oro al polso.
 
Mister Tariak, il trafficante internazionale. Uno di loro, dopo lunghe trattative, accetta di parlarci, ma senza nome e senza foto. All’apparenza è una persona normalissima. Dopo aver capito di non avere a che fare con spie americane diventa perfino gentile. Sorseggiando tè verde e spizzicando il vassoio delle uvette secche, inizia a spiegare il suo lavoro. “Attraverso intermediari che trattano direttamente con i contadini, compro oppio che viene prodotto in Helmand e anche nelle altre province afgane. Con convogli di camion scortati dalle mie guardie lo porto a sud, nel deserto, fino all’oasi di Baranchà. Non cercatelo sulle cartine, tanto non c’è. Lì i nomadi delle tribù baluce prendono in consegna il carico e con carovane di cammelli lo portano oltre il confine iraniano. Altri usano strade diverse, altre oasi nel deserto. Ce ne sono centinaia, anche se Baranchà è la via più battuta. Ma la destinazione è sempre l’Iran. Lì l’oppio viene raffinato e trasformato in eroina, che poi raggiunge i mercati occidentali via Turchia”.
‘Mister Tariak’ non vuole dire quanto guadagna e svia la domanda. “Non ci guadagno solo io, ci guadagnano tutti: i contadini che altrimenti farebbero la fame, i poliziotti e i soldati che arrotondano i magri salari (40 dollari al mese, ndr) prendendo mazzette per chiudere un occhio o addirittura scortando le spedizioni verso l’Iran. Su su fino ai loro comandanti e ai governanti provinciali e ai loro amici che stanno a Kabul”. Il trafficante, ormai a suo agio, traccia lo sconsolante quadro di una narcomafia che pervade ogni livello sociale e istituzionale di questo paese, di un business attorno al quale ruota tutto l’Afghanistan: la sua economia, la sua politica, perfino la sua guerra. 
Mohammed, l’ambiguo capo della polizia. Mohammed Ansari è il comandante della polizia di Lashkargah. Arriviamo nel suo ufficio senza preavviso interrompendo una riunione con due loschi signori, turbante nero, barba lunga e camicia slacciata sul petto – che qui è segno distintivo dei ‘poco di buono’. Loro nemmeno salutano. Il comandante, visibilmente imbarazzato, ci dice che adesso ha da fare: “Tornate domani”. Il giorno ci riceve, assai più rilassato. “Questa provincia è sempre più insicura, come del resto tutto il meridione afgano. I talebani, alleati dei narcotrafficanti, sono sempre più forti. Con i soldi dell’oppio si sono comprati fucili, lanciarazzi, detonatori telecomandati, apparecchiature radio, visori notturni. Solo l’anno scorso ho perso circa novanta dei miei uomini, uccisi in combattimento e in attentati. Gli americani non ci aiutano mai, è come se non ci fossero, fanno tutto da soli. Ogni volta che chiediamo il loro intervento, il loro appoggio, loro rispondono che non possono. Speriamo che con l’arrivo degli inglesi qui in Helmand le cose cambino. Dicono che distruggeranno le piantagioni d’oppio: se davvero lo faranno non sarà certo una passeggiata, perché a difesa dei campi troveranno i contadini armati e i talebani, che senza oppio non avrebbero più fondi per la loro jihad”.
Gli americani, pur conoscendo bene – per averlo inventato negli anni di Reagan – il sistema del finanziamento ‘oppio per armi’, per quattro anni non hanno mosso un dito per cambiare questo stato di cose. Anzi, lo hanno incoraggiato con il consumo di oppio da parte dei propri soldati stanchi di fumare hashish. Una leggerezza fatale, che ha permesso alla resistenza talebana di rafforzarsi di raccolto in raccolto. Come dimostra l’escalation degli attentati e l’aumento del numero di soldati americani uccisi: un centinaio nel 2005, vale a dire il doppio rispetto agli anni precedenti. Molti di più secondo le gente di qui – tra cui anche giornalisti locali – pronta a giurare sul Corano che il reale numero delle perdite Usa viene tenuto nascosto dai comandi americani e dalle autorità afgane.
 
 Daud, il mercenario al servizio degli americani. Grishk, sulla strada tra Kandahar e Herat, è zona talebana. Scontri a fuoco e agguati sono quasi all’ordine del giorno. Pochi giorni fa tre soldati americani sono stati feriti in un combattimento. La gente dice che sono morti. Una delle scuole del villaggio è state bruciata una mese fa dai talebani e non ha più riaperto: le aule annerite sono vuote e i 1.200 bambini che la frequentavano sono costretti a stare a casa. Per i talebani, i trafficanti e i loro amici è meglio che la gente rimanga ignorante e povera: l’istruzione potrebbe emancipare i contadini dalla schiavitù dell’oppio, renderli consapevoli della situazione in cui vivono e quindi meno sfruttabili e sottomettibili.
Appena fuori da Grishk c’è la base degli americani: un fortino in mezzo al deserto, dominato da una torre di legno su cui sventola la bandiera a stelle e strisce. La base ospita una delle tante prigioni Usa ‘non ufficiali’ dove vengono interrogati, e torturati, i sospetti membri dei talebani o di al Qaeda, prima di essere spediti a Kandahar, Bagram e poi a Guantanamo. A difendere la base non ci sono militari americani, ma mercenari afgani. La gente del posto li chiama khakhprush, venduti al nemico. Sono ragazzi dei villaggi vicini. Non indossano nessuna divisa. Quando non escono in missione per gli americani o con gli americani, se ne stanno sui tappeti stesi davanti alle baracche che circondano le mura della base. Passano la giornata bevendo tè, fumando hashish e facendo manutenzione del loro arsenale: fucili, mitragliatrici e lanciarazzi. Il loro comandante è mullah Daud. Ci riceve nella sua piccola e buia baracca. Se ne sta seduto a terra a parlare con uno dei suoi ufficiali. Dietro a lui, appoggiato al muro, il suo Ak-47; accanto a lui un frasario d’inglese. “Gli americani ci pagano bene, ma non è per quello che lavoriamo per loro: lo facciamo perché sono gli unici che possono salvare questo paese. Il governo afgano, l’esercito afgano, la polizia, sono tutti corrotti. Pensano solo ai soldi e per farli non esitano ad allearsi con talebani e trafficanti d’oppio. Loro non fanno nulla, mentre noi combattiamo i talebani: i miei centocinquanta uomini ne hanno uccisi e arrestati a decine, e saremmo in grado di combattere anche i trafficanti d’oppio se ce lo chiedessero. Ma finora gli americani non ci hanno mai ordinato di farlo. Un mese fa è arrivato un ufficiale britannico: mi ha chiesto una lista di nomi di trafficanti. Gliene ho dati cinquanta, poi non l’ho più rivisto”.
Risaliti in macchina, l’interprete ci dice: “Daud li conosce veramente i trafficanti d’oppio: uno di loro era seduto adesso accanto a lui, quello grasso con il pakul in testa”.
Viene da pensare che non ci sia proprio nessuna speranza.
 
Mr. Ibrahim, il governatore solitario. Ma un raggio di luce arriva, inaspettato, da una visita a casa del governatore distrettuale di Grishk. Haji Mohammed Ibrahim vive con il suo assistente Farid in una vecchia casa appena fuori dal bazar. E’ una persona colta e dai modi eleganti. “La gente di qui odia i mercenari di Daud più degli stessi americani. Con la scusa della lotta ai talebani e con le spalle coperte dai loro padroni, questi criminali vanno in giro a uccidere e derubare la gente facendo irruzione nelle case, terrorizzando la persone per farsi dare soldi. Chi non paga viene rapito e portato agli americani e spacciato per talebano, terrorista di al Qaeda o coltivatore d’oppio. Ma il vero problema, qui e in tutto l’Afghanistan, è la corruzione, la connivenza mafiosa che c’è tra trafficanti, talebani, polizia, esercito e governanti, locali e nazionali. Non ho paura a dirlo: purtroppo le cose stanno così. Di persone oneste e pulite ce ne sono poche e quelle poche hanno le mani legate. Non possono fare nulla, perché chi ci prova, paga con la vita. Tutti i miei fratelli erano in polizia o nell’esercito: tutte persone per bene che credevano nella legge. Negli ultimi anni sono stati uccisi tutti, uno ad uno. Non dai talebani, ma da gente del governo, dagli scagnozzi dell’ex governatore di Helmand. L’ultimo dei fratelli, che era capo della sicurezza a Lashkargah, è stato ucciso poche settimane fa. Forse toccherà anche a me questa sorte. Il mio potere qui è di fatto inesistente perché nessuno mi sostiene, tranne il mio fido Farid”, dice Haji Mohammed guardando con benevolenza il suo assistente intento a versare il tè. “Non posso fare niente. Ma almeno, finché non mi mettono sotto terra, posso parlare. Posso dire quello che so, quello che sanno tutti. In questo paese non cambierà niente finché comanderanno persone disoneste che pensano solo ai propri affari e che in virtù di questi sono disposte a scendere a patti con chiunque. Tutti sanno, anche se nessuno ne parla mai, che perfino il clan familiare del  nostro presidente, Hamid Karzai, fa parte di questa cerchia. Suo fratello, Ahmad Wali, è uno dei più grandi trafficanti d’oppio del paese. Fa i suoi affari a Kandahar - città d’origine dei Karzai - con l’aiuto del capo della polizia locale comandata da Abdul Ghani: ai checkpoint i suoi uomini sequestrano i carichi d’oppio che arrivano da tutto l’Afghanistan e li consegnano a Karzai, che rivendendoli ci guadagna cifre enormi, non avendoli nemmeno pagati. Questo è l’Afghanistan. E questo sarà finché la gente sarà volutamente mantenuta nella povertà e nell’ignoranza. Per estirpare la piaga dell’oppio non servono le ruspe nei campi e i fucili contro i contadini. Né bastano i sussidi e gli incentivi, che comunque non ci sono. Ci vuole uno sviluppo culturale ed economico che richiede anni, generazioni. Gli afgani smetteranno di coltivare oppio solo quando le autorità smetteranno di fare affari con i trafficanti e quando i contadini avranno delle reali fonti alternative di sussistenza. E’inutile strappare la pianta se si lasciano nella terra le radici: i papaveri continueranno a fiorire”.