Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Poteri forti, Italia debole

Poteri forti, Italia debole

di Paolo Madron - 08/05/2006


Prima Cuccia, Agnelli e i vecchi boiardi. Poi Bazoli e Geronzi. Ora reti senza volto, mutanti. E uomini, come Guido Rossi, che sanno aggregare nell'ombra realtà diverse come magistratura e giornali. Per mantenere il dominio in un Paese dove a comandare sono sempre i soliti noti. In totale autarchia.


 
Poteri forti. L'Italia cambia, i suoi protagonisti pure, ma il termine resta lì a evocare oscuri scenari di fronte ai quali si infrange ogni pretesa di intelligibilità. I poteri forti sono, in questo senso, la rinuncia della ragione e il comodo rimando a una realtà metafisica che di certo c'è e agisce, ma non si rivela mai con tratti nettamente definiti. I poteri forti sono il paradiso delle supposizioni, e insieme l'inferno delle certezze.
Tanto più la realtà è opaca, indefinibile, il tessuto politico-sociale debole, tanto più essi diventano un comodo rimando per spiegarla. Uno spettro da decenni condiziona le vicende dell'economia e della politica, il convitato di pietra che dall'analisi più seria alla chiacchiera da salotto attraversa qualsivoglia visione del mondo.

I poteri forti decidono, intessono, determinano successi e insuccessi, modificano la scena come fosse un variopinto ologramma. Diventano, nelle moderne democrazie di mercato, il dietro le quinte che vanifica ogni afflato alla trasparenza, qualcosa che esorcizza i limiti di una situazione complessa.
Oscuri nel loro ruolo, ma nettamente definibili nel significato. La più convincente definizione l'ha data in una recente intervista Ferdinando Targetti, uno dei ghost writer del programma economico dell'Ulivo: «Si tratta di centri di potere che detenevano il controllo dei processi di accumulazione e ne determinavano i principali assetti proprietari». Definizione marxista a tutto tondo, che dipinge i cardini su cui ha poggiato l'economia liberista.


Questo sondaggio è stato condotto dalla Simulation intelligence-Simera per Panorama nei giorni 21-25 aprile 2006, con 800 interviste telefoniche effettuate su un campione casuale, rappresentativo della popolazione italiana adulta. Documentazione completa sul sito www.agcom.it
Subito vengono in mente nomi e istituzioni: Enrico Cuccia e la sua Mediobanca, Giovanni Agnelli e la Fiat, la Montedison di Eugenio Cefis. Poteri forti e totalmente autoreferenziali, visto che rimandavano interamente a se stessi. Fino ad affermare il paradosso (ed è il caso del più famoso dei banchieri) dei controllati che comandavano sui controllori. Dando con ciò origine a un poderoso effetto di spiazzamento: la Mediobanca a proprietà statale che difende l'economia privata dall'invadenza della mano pubblica.

Eccola, di primo acchito, una prima grande differenza tra passato e presente: tanto monolitici i poteri forti di una volta, per nulla ambigui ma chiaramente identificabili per finalità e progetti, tanto liquidi e reticolari quelli di oggi. Dunque, dall'istituzione ieratica alla rete, dalla persona carismatica al gruppo trasversale e cangiante. Per intenderci, la fortunata definizione di «furbetti del quartierino» sarebbe stata un tempo inimmaginabile. Si agiva sull'impronta di logiche individuali, ben definite ancorché discutibili.

Il potere forte ai tempi di Enrico Cuccia, oltre all'autorevolezza, assumeva in politica come in economia i connotati della stanza di compensazione, di cui però uno solo deteneva la chiave. La Democrazia cristiana è stata in politica ciò che è stata la Mediobanca nella finanza, un formidabile modello di gestione delle complessità. Dal dopoguerra, attraversano insieme la storia italiana e insieme arrivano al capolinea agli inzi degli anni Novanta: la Dc con Tangentopoli, Mediobanca con al rottura dell'asse che la legava alla Fiat, il suo storico alleato.

Da lì, da quella che era stata una scena ingessata dai contorni molto netti, è cominciata una progressiva mobilità e confusione che ha finito con il cambiar pelle ai poteri forti, in una veloce quanto ineluttabile metamorfosi. Pietra miliare, alla fine degli anni '90, l'opa Telecom.
A fonte della grande industria in evidente crisi, un manipolo di provinciali ricchi e quais sconosciuti dà l'assalto ai palazzi del potere: Roberto Colaninno e Chicco Gnutti che conquistano il colosso dei telefoni sono la premessa che di lì a poco porterà Antonio D'Amato alla guida di Confindustria.

È una nuova temperie che avanza, rivoluzionaria nel suo dichiarato intento di scardinare i salotti buoni. Piccoli padroni, determinati quanto ricchi, con robusti agganci nel mondo della politica, non faranno molta strada ma almeno evidenziano l'obsolescenza dei vecchi poteri e la voglia di rappresentatività del popolo delle partite Iva.

Secondo atto, la morte di Cuccia e il tentativo da parte di Antonio Fazio di prendere il suo posto nella cabina di regia del capitalismo. Esecutori e complici: Giampiero Fiorani, l'immancabile Gnutti, Giovanni Consorte come epigono della finanza rossa più sofisticata, la schiera dei «nouveaux entraprenurs» costitutita da quegli immobiliaristi di cui Stefano Ricucci è l'emblema. Il piano concepito è la prima vera rappresentazione di un potere forte a geometria reticolare, non importa se i suoi esiti prefigurano una sorta di sistema autarchico. Coinvolge, oltre agli interessati, la politica intesa come lobby trasversale, e ha nella Banca d'Italia la sua principale fonte strategica.

A quel potere, si oppone un contropotere che ha le medesime caratteristiche di pervasività. Il punto di conflitto è il Corriere della Sera: per Fiorani e soci una raccoforte dalla cui conquista ottenere una formidabile copertura mediatica ai propri piani di espansione, ma anche un fiore all'occhiello da offrire agli appetiti della politica. Per i suoi azionisti, un insuperabile argine al loro dilagare.

La battaglia attorno al quotidiano di via Solferino segna un altro salto di qualità nella fenomenologia dei poteri forti, che diventano tali nel momento in cui sanno coagulare attorno a sè più poteri, in primis quelli della magistrature e dell'informazione. La loro forza si connota dunque per la capacità di interdizione, meccanismo fin qui sconosciuto. Cuccia infatti decideva, in modo brusco e sovente doloroso, ma non interdiva.

Un avvocato coi fiocchi, Guido Rossi, fa da trait d'union nell'organizzazione della controffensiva: la sua discesa in campo convince settori della magistratura a fronteggiare il disinvolto attivismo dei furbetti. Un banchiere accorto, Giovanni Bazoli, si incarica di compattare un azionariato fragile. I grandi giornali fanno il resto offrendo un costante supporto a livello di opinione pubblica. Paolo Mieli, il direttore del Corriere, si erge a difesa dell'autonomia minacciata facendosi addirittura garante della tenuta dei suoi azionisti.

«Il potere» osserva Franceso Micheli, finanziere di lungo corso «nei gruppi e negli interessi che salvaguarda si fa raffinato gioco di élites». Un connubio che, per un politico accorto come Bruno Tabacci, dà origine a un fenomeno inquietante: «Quando il professionista fa fronte comune con il magistrato e con il direttore di giornale, si introduce una distorsione nella normale dialettica tra componenti della società. Il che non preoccuperebbe, se ci fosse un'azione politica in grado di governare e armonizzare i singoli interessi. Purtroppo, da tempo la politica ha abdicato a questa inestimabile funzione».

 


L'ex governatore de Bankitalia Antonio Fazio. A destra, Paolo Mieli

In tempi di vuoto della politica, l'alleanza con la magistratura è un requisito fondamentale nella lotta per il dominio. Ne sa qualcosa Cesare Geronzi, inopinatamente interdetto dal tribunale proprio nel momento in cui la sua Capitalia diventa una possibile preda del risiko bancario. Da gran burattinaio, in altri tempi quintessenza del potere forte, il banchiere romano si scopre improvvisamente burattino.
La rapidità con cui cambiano scenari e alleanze fa venir meno la sua proverbiale capacità di volgere a suoi favore le situazione sfavorevoli. Non gli resta che toccare con mano, come recita un comunicato della sua banca in risposta al risarcimento danni chiesto dalla Parmalat, di come le motivazioni dell'azienda ricalchino quasi alla lettera il giudizio dei magistrati. Ecco uno dei frutti più evidenti della perversa alleanza.

I nuovi poteri forti sono però cangianti, perciò estemporanei. Così interessi che si coagulano attorno un obiettivo, possono poi diventare fieramente antagonisti. Geronzi e Bazoli che si alleano per fermare Fiorani e Ricucci si trovano l'un contro l'altro quando in gioco è il destino delle loro banche. Ma non sempre i protagonisti sono identificabili, hanno facce e legami conosciuti. A differenza di un tempo, i nuovi poteri forti spesso sono senza volto. Si chiamano autorità di controllo, il cui incedere burocratico è in grado di condizionare le sorti di uomini e aziende (e che costringe, ad esempio, Marco Tronchetti Provera a riempire paginate di giornali per ricordare che la Telecom è un bene del paese).


Luca di Montezemolo, presidente di Fiat e Confindustria

O come i tribunali amministrativi, vedi il Tar del Lazio, depositari in ultima istanza di un inusitato potere di veto. Ma anche globalizzazione, vorticoso flusso dei capitali, lobby e corporazioni che fanno della trasversalità il loro punto di forza. Questi sì che spesso agiscono più per interdizione, che non per rispondere a un determinato progetto strategico.
In assenza di un sistema di regole in grado di contenerli, dilagano diventando strumento della pura difesa di interessi costituiti. In questo, rivelano però tutta la loro debolezza: «Si muovono in un contesto domestico» spiega Micheli «quasi sempre a difesa di privilegi e rendite di posizione personali».

Insomma, non hanno respiro al di fuori delle mura domestiche perchè mai la loro azione si tranuta in un beneficio per il sistema paese. L'Italia, se mai, è solo il terreno dello scontro, il teatro di logiche asfittiche, da quartierino, come direbbe Ricucci, che spesso producono risultati contraddittori.
Fino a toccare paradossi impensabili. Si è mai visto un potere forte, o quello che è ritenuto comunque tale, procedere dall'interno alla sua delegittimazione?
È successo a Vicenza, nella famosa assise pre elettorale di Confindustria cornice dello show di Silvio Berlusconi, con i peones dell'organizzazioneguidata da Luca di Montezemolo che contestavano i propri vertici. Può capitare che se ci si astrae troppo dal contesto, che se il gioco delle istanze diventa troppo fine a se stesso, il potere forte nella sua rappresentazione simbolica finisce per rivelarsi al primo bagno di realtà drammaticamente debole.

È una nuova temperie che avanza, rivoluzionaria nel suo dichiarato intento di scardinare i salotti buoni. Piccoli padroni, determinati quanto ricchi, con robusti agganci nel mondo della politica, non faranno molta strada ma almeno evidenziano l'obsolescenza dei vecchi poteri e la voglia di rappresentatività del popolo delle partite Iva.

Secondo atto, la morte di Cuccia e il tentativo da parte di Antonio Fazio di prendere il suo posto nella cabina di regia del capitalismo. Esecutori e complici: Giampiero Fiorani, l'immancabile Gnutti, Giovanni Consorte come epigono della finanza rossa più sofisticata, la schiera dei «nouveaux entraprenurs» costitutita da quegli immobiliaristi di cui Stefano Ricucci è l'emblema. Il piano concepito è la prima vera rappresentazione di un potere forte a geometria reticolare, non importa se i suoi esiti prefigurano una sorta di sistema autarchico. Coinvolge, oltre agli interessati, la politica intesa come lobby trasversale, e ha nella Banca d'Italia la sua principale fonte strategica.

A quel potere, si oppone un contropotere che ha le medesime caratteristiche di pervasività. Il punto di conflitto è il Corriere della Sera: per Fiorani e soci una raccoforte dalla cui conquista ottenere una formidabile copertura mediatica ai propri piani di espansione, ma anche un fiore all'occhiello da offrire agli appetiti della politica. Per i suoi azionisti, un insuperabile argine al loro dilagare.

La battaglia attorno al quotidiano di via Solferino segna un altro salto di qualità nella fenomenologia dei poteri forti, che diventano tali nel momento in cui sanno coagulare attorno a sè più poteri, in primis quelli della magistrature e dell'informazione. La loro forza si connota dunque per la capacità di interdizione, meccanismo fin qui sconosciuto. Cuccia infatti decideva, in modo brusco e sovente doloroso, ma non interdiva.

Un avvocato coi fiocchi, Guido Rossi, fa da trait d'union nell'organizzazione della controffensiva: la sua discesa in campo convince settori della magistratura a fronteggiare il disinvolto attivismo dei furbetti. Un banchiere accorto, Giovanni Bazoli, si incarica di compattare un azionariato fragile. I grandi giornali fanno il resto offrendo un costante supporto a livello di opinione pubblica. Paolo Mieli, il direttore del Corriere, si erge a difesa dell'autonomia minacciata facendosi addirittura garante della tenuta dei suoi azionisti.

«Il potere» osserva Franceso Micheli, finanziere di lungo corso «nei gruppi e negli interessi che salvaguarda si fa raffinato gioco di élites». Un connubio che, per un politico accorto come Bruno Tabacci, dà origine a un fenomeno inquietante: «Quando il professionista fa fronte comune con il magistrato e con il direttore di giornale, si introduce una distorsione nella normale dialettica tra componenti della società. Il che non preoccuperebbe, se ci fosse un'azione politica in grado di governare e armonizzare i singoli interessi. Purtroppo, da tempo la politica ha abdicato a questa inestimabile funzione».