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Bob Dylan pittore

di Marco Iacona - 22/07/2010


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«Poeta, profeta, fuorilegge, imbroglione, star di elettricità…». Inizia con queste definizioni “Io non sono qui” il film del 2007 di Todd Haynes, il regista californiano che ama l’attrice Julianne Moore, completamente dedicato alla vita di Bob Dylan. Il poeta è Arthur Rimbaud al quale Dylan si è sempre ispirato; il profeta è il Dylan convertitosi al cristianesimo alla fine degli anni Settanta (ma anche il primo Dylan, quello folk); il fuorilegge è il Billy the Kid del film del ribelle di Hollywood, Sam Peckinpah, al quale Dylan partecipò e per il quale scrisse la colonna sonora (“Pat Garrett & Billy the Kid”); il riferimento all’imbroglione riguarda il suo “maestro” Woody Guthrie e alle “sparate grosse” dello stesso Dylan sulla proprie vicende biografiche; la “star” invece è lo stesso cantautore nel periodo del matrimonio e poi del divorzio da Sara Lownds (1965-1977). Un uomo così complicato, Bob Dylan, da richiedere un’intera squadra di stelle hollywoodiane per narrare le vicende di un solo personaggio, posto a metà fra la realtà e la finzione. Fra il consueto e l’immaginario.       
A ben vedere, nessuno dei cinque personaggi del film, sei se si considera anche la mascolina Cate Blanchett che veste i panni del Dylan della metà degli anni Sessanta – quelli della svolta rock – fa esplicito riferimento al Dylan pittore, all’autore di disegni, acquarelli e gouaches noti agi appassionati doc, ma non al grande pubblico a quello cioè che si è sempre limitato all’ascolto delle canzoni del menestrello di Duluth. Per pochi giorni, però, e precisamente dal 12 luglio fino al 29 luglio, i fans italiani di Dylan potranno vedere le opere del loro beniamino – per il pubblico italiano sarà la prima volta! – grazie alla mostra posta all’interno del torinese “Traffic free festival”, che è uno degli eventi estivi più noti e prestigiosi del nostro Paese. Come frutto della collaborazione fra l’organizzazione del festival e la galleria londinese Halcyon, l’Accademia albertina di Torino sta infatti ospitando 21 opere dell’artista universale, che deve il suo nome d’arte al poeta Dylan Thomas (in realtà, lo ricordiamo, si chiama Robert Allen Zimmerman); si tratta di opere scelte fra le circa 300 facenti parte della “Drawn blank series”, una raccolta di disegni pubblicati in volume già nel 1994 ma frutto dei tour dylaniani rigorosamente on the road, cominciati nel lontano giugno del 1988 (il cosiddetto “Never ending tour” ennesima sfida del musicista prossimo settantenne). Anche dal punto di vista dell’arte pittorica il curriculum dylaniano sembra così piuttosto ricco. Nel 2007 quelli nati come schizzi e “appunti di viaggio” furono poi riadattati per un’apposita mostra (la prima personale dylaniana) allestita per il “Kunstsammlungen” di Chemnitz (l’ex Karl Marx Stadt, in Germania), con 170 fra acquerelli e gouaches. Le stesse opere sono state in mostra anche a Londra, nel giugno dell’anno successivo.
Musicista (il più importante in assoluto dopo i Beatles), cantante, scrittore, poeta, uomo di cinema, intrattenitore radiofonico (davvero molto bravo!), infine Bob è diventato “ufficialmente” anche pittore. Pittore di talento a giudicare dai giudizi positivi che hanno fatto seguito alle sue esposizioni. Dylan è innamorato dell’arte del disegno praticamente da sempre, ma di tempo per mettersi alla prova ne ha sempre trovato ben poco, almeno non prima del famoso incidente motociclistico del luglio 1966, e per alcune copertine dei suoi dischi. Artista per (forse) “accidente”, come ogni vero fenomeno che si rispecchi, Bob è stato allievo quasi per caso di Norman Raeben pittore di origini russe che sarà tuttavia una delle persone più influenti nella sua vita e che aprirà a lui le porte di spazi creativi quasi del tutto sconosciuti, e del modernista Bruce Dorfman suo vicino di casa a Woodstock. Lui “fantasista” per eccellenza già negli anni Sessanta prenderà a modello i grandi pittori dell’Occidente: partendo da Jan Vermeer fino a Monet e Van Gogh. La sua idea di arte sarà tutt’uno con l’idea di “impegno” canoro, sofisticato e popolare a un tempo. Matto ma non… disperatissimo. Anni fa ha dichiarato: «I grandi quadri dovrebbero essere esposti nei luoghi frequentati comunemente dalle persone … le persone si sentirebbero meglio se potessero ammirare ogni giorno un quadro di Picasso nel luogo ove mangiano…». I risultati dei nudi dylaniani, dei paesaggi coloratissimi, dei ritratti e delle immagini di oggetti quotidiani, saranno più che discreti e gli daranno fiducia per un buon proseguimento.
È nel visionario Marc Chagall tuttavia – uno di quegli artisti che in tempi disgraziatissimi fu etichettato come “degenerato” – che l’autore di “Blood on the Tracks” trova la forma e soprattutto la sostanza che cerca. Così lo ricorda infatti il maestro Dorfman: «Quello funzionò. Era perfetto, perché c’erano tutte queste immagini a più strati: cose volanti, oggetti che camminano, orologi volanti, conigli col muso verde. C’era di tutto. Chagall era quello giusto: era il pittore in cui Bob si riconosceva di più». In seguito canzoni come “Alla long the Watchtower” e il film del 1978 “Renaldo and Clara” furono chiaramente ispirati dall’uso dei colori e dallo stile degli artisti del pennello cari al cantautore. A Torino si potranno vedere ancora le illuminazioni “impressionistiche” di Bob Dylan, le citazioni di Van Gogh e perfino quelle del più “attuale” Warhol, oltreché le lezioni senza tempo della parentesi espressionista. Dylan non ha mai amato essere etichettato o classificato in un modo piuttosto che in un altro, ma è ovvio che i più avvezzi alle sue espressioni cercheranno di fare raffronti fra l’arte musicale e quella pittorica, e i più maliziosi guarderanno ai modelli ispiratori con non poca nostalgia... È certo comunque che l’abilità dylaniana che riprende in pieno lo stile moderno con una tecnica e un utilizzo del colore che ricorda Chagall in versione “semplificata” e  talvolta pop non passerà mai inosservata.
Quest’anno, a parte alcuni appuntamenti di grande fascino e prestigio (si pensi al programma vario di musica africana, a Paul Weller, agli Specials e al concerto di Charlotte Gainsbourg del 15 luglio; una Gainsbourg che curiosamente era stata protagonista anche della pellicola di Todd Haynes dedicata al maestro di Duluth), il festival torinese ruota tutt’attorno alla figura di Bob Dylan. In parallelo con le manifestazioni artistiche e canore si è svolta infatti una “quattro giorni” dedicata ai protagonisti in musica del “Traffic free festival” in versione cinematografica (stavolta in collaborazione col Museo nazionale del cinema). Così oltre che una retrospettiva “modernista” e una sulla figlia del celebre cantautore Serge Gainsbourg con, fra le altre, la proiezione del bellissimo “Nuovomondo” di Emanuele Crialese, verranno proiettate ben tre pellicole dedicate ancora a Bob Dylan. “No direction home” (2005) di Martin Scorsese, ritratto-documentario del cantautore dal 1961 al 1966, con fra gli altri Joan Baez e Allen Ginsberg (artisti “gemellati” al nostro protagonista); l’assai meno recente “Dont look back” (1967) di D. A. Pennebacker specialista nelle pellicole sulla musica rock, film sulle tournée di concerti di Dylan in Gran Bretagna nel 1965, che è in assoluto uno dei primi documentari che si ricordino su un artista rock; per passare infine al già citato “Io non sono qui”, presentato alla 64° mostra di Venezia e premiato con il riconoscimento speciale della giuria e con la Coppa Volpi alla Blanchett.
Quello di Haynes è un film che per trama, fotografia e montaggio può essere definito come non convenzionale (è un intreccio di episodi e rimandi un po’ ermetici), sul quale Natalia Aspesi ha anche scritto: «”Io non sono qui” fa parte di quella categoria di film ammirevoli che hanno tutte le virtù per vincere un festival, per entusiasmare cinefili del tipo più visionario, e per far fuggire strepitando il pubblico definito normale». Insomma un film “alla Bob Dylan, artista non solo da ascoltare ma da vedere. Come le sue stravaganze, le sue multiple espressioni e i suoi quadri con le lunghe rotaie, che guideranno il pensiero dello spettatore del “Traffic” verso un futuro pop ancora tutto da scoprire.