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Gli ultimi indios arrivano in città: adottateci

di Carla Reschia - 12/05/2006

 
COLOMBIA CACCIATI DALLA FORESTA DAI GUERRIGLIERI, SI PRESENTANO A SAN JOSÉ


La storia della resa degli «ultimi selvaggi» non copre nemmeno vent’anni. 1988: un gruppo di Nukak arriva a Calamar, una città strappata alla jungla nel cuore della Colombia. I cittadini contemplano smarriti quel gruppo di indigeni nudi armati di cerbottane sbucati dal nulla, i Nukak ricambiano lo sguardo, più sorpresi di loro. Sono l’ultima tribù nomade della Colombia, non se ne conosceva nemmeno l’esistenza; 1993: la spedizione Humana della Pontificia Universidad Javeriana di Bogotà li avvicina per studiarli e scrive di loro: «sono gli esseri umani più belli e autentici che si possa immaginare. Da secoli vivono nella selva colombiana in armonia con la natura». 1997: grazie a una campagna organizzata da Survival international le terre tradizionali della tribù, comprese tra i fiumi Inírida e Guaviare, vengono tutelate come riserva. Il Nukak National Park, grande come circa metà del New Yersey, dovrebbe permettere alla piccola popolazione di vivere in pace secondo i propri costumi; 2003: gli antropologi denunciano il rischio di estinzione dell’etnia: sterminati, come già i loro antenati al primo apparire dell’uomo bianco, da morbillo, influenza e rosolia, incalzati dalla deforestazione e dalla perenne guerra civile del Paese, sarebbero ridotti a poche centinaia di individui, costretti negli angoli più remoti della foresta amazzonica. 2006: 150 Nukak, forse gli ultimi al mondo, stremati e decimati, dopo una marcia di 200 chilometri, arrivano con donne incinte, bambini in collo e scimmie addomesticate a San Josè. «Non vogliamo tornare indietro, lasciateci stare qui», chiede il capo, Ma-be.

«Hanno scelto la civiltà», titolano i giornali. In effetti cercano scampo dalla devastazione del loro territorio, occupato dalle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, ribelli marxisti, nell’eterno Risiko che divide il territorio colombiano fra esercito regolare, guerriglieri di sinistra, paramilitari di destra e/o coltivatori di coca.

Eventi che i Nukak subiscono senza capire: non conoscono neppure l’esistenza di uno stato chiamato Colombia, non risultano ad alcuna anagrafe e, come gli indigeni delle barzellette, guardano dietro le radio per vedere chi c’è nascosto. Finora il loro livello di sviluppo era quello che gli antropologi fissano all’epoca più remota: cacciatori-raccoglitori. Persino la coltivazione del terreno è un concetto avveniristico per un popolo che sembra fatto apposta per incarnare le aspettative dei ricercatori appassionati di tribù amazzoniche. I Nukak vivono in piccoli gruppi famigliari, ai fiumi preferiscono le aree più remote della foresta e si spostano in continuazione, portando con sè tutto il necessario: amache di fibre vegetali e pochi recipienti. I loro improvvisati villaggi sono tettoie a cui appendere le amache intorno a un focolare. Per allontanare le zanzare e gli altri insetti nocivi bruciano erbe, per nutrirsi attingono, con parsimonia, all’ambiente circostante: pesce, scimmie, tartarughe, frutta, verdura, noci, insetti e miele. Gli uomini cacciano con lance e cerbottane, le punte intinte nel curaro. Tutti vanno in giro nudi.

Ma forse bisognerebbe volgere l’intero periodo al tempo passato. Ora i Nukak che hanno «scelto la civiltà» abitano in un accampamento ad Aguabonita, uno spiazzo in mezzo alla jungla. Non lontano, in un luogo simile, a Barrancón, è stato stipato un altro drappello di Nukak, arrivato nel 2003. Il confronto fra i due stili di vita è già eloquente. Il gruppo di Barrancón dalla civiltà ha già mututato quello che secondo alcuni ne è il vero lusso, ovvero l’ozio. Come i loro «colleghi» di tanti altri campi profughi, vivacchiano di aiuti e di carità, senza saper più che fare di se stessi, avidi di magliette, collanine, cibi pronti, nè di qua nè di là, sospesi fra due mondi, uno perduto l’altro irraggiungibile.

«Sono una delle maggiori ricchezze culturali di un Paese che ha il vizio di dimenticare il passato e di non riconoscere le proprie particolarità», diceva il rapporto della missione universitaria.