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Armi strategiche e diritti dei lavoratori

di Marco Della Luna - 02/09/2010


Che si prenderà le ultime scorte di petrolio, nickel, rame etc.? Chi resterà senza queste commodities e dovrà rinunciare al proprio benessere? Le risorse naturali, e alcuni metalli specialmente, si avviano rapidamente all’esaurimento, anche a causa del forte consumo da parte dell’esplosiva economia cinese, che guida la corsa all’accaparramento anche di terre agricole e di fonti d’acqua. La riserve calano, la competizione per assicurarsele si accende, e le potenze dotate di armi nucleari strategiche, quindi in grado di imporsi in questa competizione togliendo le risorse alle altre, sono tre: USA, Russia e Cina. Le altre, tutte le altre, non avendo vettori nucleari intercontinentali, non possono eseguire rappresaglie, quindi  possono essere fermate con la minaccia o l’attuazione di un attacco nucleare o anche convenzionale da parte di USA o Russia o Cina, o un’occupazione finalizzata all’impianto della democrazia quando si vuole vendere materie prime e petrolio in particolare senza passare per il Dollaro. Gli altri paesi nucleari, ossia Francia, Gran Bretagna, Israele, India, Pakistan, Corea del Nord, hanno vettori nucleari difensivi, incapaci di colpire un eventuale aggressore lontano migliaia di chilometri, quindi inutili come deterrente contro di esso. La Nato ha armi strategiche intercontinentali, ma le controllano gli americani, quindi non sono certo al servizio degli interessi europei. Se esistesse una federazione europea capace di una sua politica di autotutela, si doterebbe, come prima priorità, di missili balistici intercontinentali con testate da 20 megatoni e di sottomarini nucleari con altri analoghi vettori strategici. Sarebbe la più grande potenza economico-industriale, con 600 milioni di abitanti, e potrebbe ‘partecipare alla spartizione delle risorse planetarie. Invece non lo farà.

La Cina ha un sistema monetario che le consente di finanziare la spesa pubblica e gli investimenti sia interni che all’estero senza contrarre debito, sicché riesce non solo a crescere vertiginosamente, ma anche a fare incetta delle risorse planetarie, dalle miniere africane ai ristoranti di Venezia, togliendole praticamente a costo zero a paesi come l’Italia che invece affondano in un indebitamento pubblico e privato che oramai si riconosce essere irredimibile, inestinguibile. Inoltre la Cina ha un esercito di un miliardo – ripetesi: un miliardo – di lavoratori disciplinati e zelanti, con pochi diritti e poche pretese, senza scioperi, e con la loro smisurata forza produttiva invade settori di mercato globale occidentali, compresi molti di quelli tradizionalmente italiani. Inoltre, anche in fatto di ricerca e innovazione tecnologica è in grado di raggiungere o surclassare la maggior parte dei competitori sul mercato globale in molti settori, mentre l’Italia da vent’anni perde posizioni in fatto di produttività, infrastrutture, quote di mercato, ricerca e innovazione, efficacia della sua scuola. Non parliamo del confronto con altre potenze emergenti quali India, Russia, Brasile. Nello scacchiere mondiale, l’Italia, come soggetto politico, conta zero. Conta come area di conquista e sfruttamento di altri.

Poiché queste cose non vengono (per ora) dette né capite a livello di opinione pubblica, si può ancora esaltarsi coi sindacalisti, con Bagnasco e compagnia bella per il reinserimento forzato nel posto di lavoro degli operai della Fiat di Melfi e raccontare  alla gente  che oggi c’è da combattere contro la logica della globalizzazione finanziaria per preservare i diritti salariali e non conquistati dai lavoratori italiani in decenni di lotte sindacali democratiche. Quei diritti possono essere giustissimi – non si discute – ma sono finiti, finiti senza ritorno,  poiché l’evoluzione geostrategica e geoeconomica (assieme all’involuzione e stagnazione del sistema-paese italiano) ha eliminato il loro presupposto, che era il fatto che l’Italia era una potenza economica e tecnologica in crescita, con un reddito e una produttività pro capite comparativamente elevati. L’Italia dei decenni scorsi poteva viver bene e dedicarsi al contempo ai grandi obiettivi sociali e ideali, ai diritti dei lavoratori senza pari doveri, al 27 politico per tutti gli studenti, all’assistenzialismo a pioggia, perché la generazione precedente aveva lavorato sodo e con poche pretese; e perché i giganti asiatici non si erano ancora svegliati; e anche perché allora l’indebitamento pubblico era basso e c’era molto spazio per spendere a deficit e indebitare le generazioni future.  Ora la pacchia è finita, arriva lo scontro con la realtà, e l’Italia è un paese vecchio e ristagnante, sempre più ingessato dai suoi debiti e simultaneamente schiacciato da sistemi-paese concorrenti molto più produttivi, dinamici, innovativi,  nonché in grado di prendersi con la forza le risorse di cui hanno bisogno, e – nel caso della Cina – addirittura di finanziare senza indebitarsi la propria espansione economica e il lavoro per il suo sterminato esercito di lavoratori e consumatori.