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Politica estera confusa e felice

di Roberto Zavaglia - 01/10/2010

Forse è già tanto che Berlusconi, nel suo discorso di mercoledì scorso alla Camera, abbia fatto qualche accenno alla politica estera. Che le relazioni internazionali non fossero inserite fra i cinque punti essenziali, selezionati dal presidente del Consiglio, era prevedibile, ma è pure il sintomo di un governo che non crede davvero al ruolo significativo nelle dinamiche mondiali, pur rivendicato a parole in ogni occasione. La politica estera italiana non può essere ridotta ai rapporti con Montecarlo e Santa Lucia…

  Berlusconi, in ogni caso, ha fatto un riferimento all’Afghanistan dove “i nostri soldati stanno tenendo alta con grande professionalità la nostra bandiera e la bandiera di tutti i popoli che vogliono vivere in pace e in democrazia”. Il capo del governo è poi passato alla necessità di “rafforzare l’unità politica dell’Europa, a partire da una politica economica comune, da una politica estera comune e da una comune politica della difesa europea”. L’Italia, secondo Berlusconi, avrebbe oggi “un ruolo da protagonista sulla scena internazionale”. Il governo, senza rinunciare a una “diplomazia commerciale” in sostegno delle nostre aziende, sarebbe riuscito a migliorare le relazioni fra Stati Uniti e Russia “pericolosamente affievolite negli ultimi mesi dell’Amministrazione repubblicana”.

  Si tratta per lo più di affermazioni retoriche che non forniscono veri chiarimenti. Sull’Afghanistan Berlusconi non ha detto niente circa lo scopo della missione italiana, che è cambiata in seguito all’intensificarsi della guerra. In particolare, piacerebbe sapere se il governo è al corrente delle trattative tra Karzai e i rappresentanti di una parte dei talebani, di cui parla la stampa internazionale. Dal momento che i nostri militari versano il proprio sangue, anche l’Italia dovrebbe potere dire la sua, senza rimanere in attesa di ordini da Washington. Parlare, poi, di rafforzamento dell’unità europea vuole dire niente se non si specificano le proposte concrete, in quanto tutti dicono la stessa cosa, salvo poi comportarsi in modo opposto.

  Per quanto riguarda la Ue, c’è comunque un argomento di incalzante attualità su cui si attende di conoscere le mosse del governo. La Commissione sta discutendo una riforma del Patto di Stabilità che prevede pesanti sanzioni per gli Stati incapaci di rispettare i parametri finanziari. Già nel corso della prossima settimana dovrebbero essere presentate le nuove misure. Si tratta di una questione che potrebbe produrre effetti devastanti. La Germania, appoggiata dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet e da altri Paesi, chiede provvedimenti draconiani. Se fossero approvati, anche gli Stati che mantengono il deficit entro il 3% del pil, ma hanno un debito pubblico superiore al 60%, dovrebbero pagare pesanti multe e rischierebbero di perdere i diritti di voto.

  Per rendere l’idea del “pericolo”, il nostro governo dovrebbe ridurre il debito, oggi intorno 118%, di otto punti in tre anni, dando vita a una macelleria sociale di tagli in ogni settore. Tremonti aveva giustamente proposto di inserire nella valutazione del debito complessivo anche i debiti privati, poiché, come è stato dimostrato dalla crisi finanziaria, i debiti dei cittadini, delle aziende e delle banche pesano eccome nel dissestare l’economia di una Stato. Pare, ma non ci sono ancora dichiarazioni ufficiali, che questa richiesta sia stata bocciata, con conseguente declassamento del nostro Paese rispetto agli altri soci comunitari. Sarebbe il caso di fare sapere agli italiani come si intende difendere il nostro stato sociale.   

  I riconoscimenti internazionali che l’Italia avrebbe raccolto, se esistono, non ci sono stati concessi dall’Europa. Nel nuovo corpo diplomatico della Ue, gli italiani sono solo due, nelle “prestigiose” sedi di Tirana e Kampala, mentre i piccoli Portogallo e Austria manderanno i propri diplomatici, rispettivamente, a Washington e a Tokyo. Non è comunque sul “prestigio” che la politica estera italiana deve, in questa fase, affrontare la sua più importante battaglia. C’è un’altra, poderosa questione che è il convitato di pietra del dibattito politico e dell’informazione italiani. Si parla infatti ben poco del fatto che, attualmente, i rapporti fra Roma e Washington non sono così sereni come si vorrebbe fare credere. L’Amministrazione Usa, per usare un eufemismo, non apprezza gli stretti rapporti che l’Italia ha instaurato con alcuni Paesi.

   E’ soprattutto l’ “amicizia” tra Berlusconi e Putin che non va giù agli “alleati” d’oltre atlantico. In ballo c’è, in particolare, la questione del gas che Mosca vuole vendere in quantità maggiore agli europei, grazie alla costruzione di nuove pipeline. Gli Usa, non a torto, vedono in questa situazione i prodromi di un avvicinamento politico fra la Russia e l’Europa, con una conseguente perdita dell’influenza di Washington nel Vecchio Continente. L’Eni, che possiede il 50% del futuro gasdotto South Stream al pari della russa Gazprom (in attesa di nuovi soci su cui non hanno trovato ancora l’accordo) ha visto, negli mesi scorsi, intensificarsi gli attacchi di ambienti “ultraoccidentalisti” nei suoi confronti. Il fondo Knight Vinke (1% in Eni) e il Financial Times hanno più volte invocato la divisione delle attività del “Cane a sei zampe”, nella dichiarata ottica speculativa di una maggiorazione di valore per gli azionisti e con l’implicito scopo di indebolire la forza globale dell’azienda.

  Lo stesso amministratore delegato Paolo Scaroni è stato più volte “convocato” negli Usa dal Dipartimento di Stato (!) per “spiegare” i rapporti dell’Eni con Russia e Iran, senza che in Italia nessuno protestasse per questa indebita ingerenza nelle nostre attività economiche strategiche. Il pur filoamericano Berlusconi (sono d’accordo con Washington prima di sapere come la pensa…) ha, per ora, tenuto il punto, perché la sua visione di una “diplomazia commerciale” gli ha fatto comprendere che la Russia è un partner strategico. Il governo oggi è però più debole ed è  costretto a trattare con i finiani dei quali, da tempo, si vocifera di una particolare consonanza con l’ambasciata Usa. Lo stesso Italo Bocchino, in una trasmissione televisiva, ha detto di condividere la preoccupazione di Washington per una eccessiva vicinanza di Berlusconi a Putin e Gheddafi.

  Non sappiamo quanto vere siano le voci dell’appoggio statunitense alla semi scissione di Futuro e Libertà, ma sarebbe preoccupante se Fini, il quale ama dipingersi come il più coerente degli atlantisti, riuscisse a mettere i bastoni fra le ruote a Berlusconi in quella che, a nostro giudizio, è fra le sue poche scelte politiche azzeccate. Per chiarire servirebbe ora un dibattito parlamentare, con la richiesta di fiducia, sulla politica estera, nel quale il capo del governo dichiarasse, tra l’altro, che i rapporti con la Russia non possono essere messi in discussione nemmeno dalle critiche dell’alleato Usa. Per avere la certezza che quello dei futuristi non è un partito-taxi.