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Scacco al Re

di Giacomo Gabellini - 27/10/2010



Come già sottolineato a tempo debito da quella vecchia volpe di Gennadij Zjuganov, la Guerra Fredda è stata in primo luogo un conflitto geopolitico e solo secondariamente ideologico. Uno dei primi (forse "il" primo) a guardare al confronto da questa specifica angolazione fu senza dubbio quell'abile stratega di Zbigniew Brzezinski, ovvero colui che assestò il colpo definitivo all'agonizzante Unione Sovietica, spingendola ad intervenire in quel terribile pantano dell'Afghanistan, teatro bellico dimostratosi insormontabile anche per le agguerritissime armate macedoni guidate da Alessandro Magno.

Le ripercussioni sortite sull'economia sovietica dall'intervento si rivelarono infatti, proprio come previsto da Brzezinski, tali da indurre l'incerto e superficiale Mikhail Gorbaciov ad innescare una profonda e altrettanto sciagurata opera di "ristrutturazione" (perestroijka) improntata alla "trasparenza" (glasnost), che indebolì ulteriormente l'assetto statale e portò all'inevitabile tracollo dell'intero carrozzone. Tuttavia il temibile e concretissimo fantasma dello smembramento (o "balcanizzazione") fu parzialmente sventato, e si tradusse nella formazione di una piccola costellazione di nuovi staterelli che non sono tuttavia andati ad intaccare la sostanziale unità ed omogeneità del "cuore della terra" (heartland), corrispondente alla zona settentrionale della vecchia URSS. Brzezinski, da straordinario e lungimirante stratega quale è sempre stato, prese atto della vittoria, ma evitò di adagiarsi sugli allori, invitando i suoi colleghi a guardarsi bene dal considerare chiusa la partita e di tenere sempre a mente che solo chi ha accesso al "cuore della terra" potrà controllare i destini dell'intero pianeta. In ogni caso, si trattava di sfruttare i vantaggi derivanti da una situazione inedita nella storia, che vedeva un unico attore marittimo nelle condizioni di orchestrare a proprio piacimento i destini dell'intero continente eurasiatico. Uno dei principali fattori su cui puntare per far pendere l'ago della bilancia dalla propria parte per una potenza marittima è indubbiamente quello di fomentare i dissidi interni ai vari paesi eurasiatici, in modo da evitare un loro possibile e altrettanto pericoloso compattamento, dando luogo a una sorta di "caos controllato" decisamente funzionale al mantenimento dello status quo. Brzezinski considera quindi la massa continentale eurasiatica come la "grande scacchiera" (grand chessboard) entro cui contendere i destini del mondo. Egli seziona l'Eurasia in due parti distinte, che sono l'heartland (cuore della terra), corrispondente all'attuale Russia settentrionale e il rimland (terra di contorno), che suddivide in tre ulteriori sottogruppi: il primo corrispondente all'appendice occidentale dell'Eurasia (Europa), il secondo a quella meridionale (vicino e medio oriente) e il terzo a quella orientale (Cina e Giappone). Il compito principale degli USA è quindi quello di penetrare nell'heartland dalle due appendici, orientale ed occidentale, del rimland. Questa condizione si realizzerebbe in tutta la sua pienezza solo qualora gli USA riuscissero a scongiurare i pericoli derivanti da un'eventuale alleanza Russia - Cina, da un'ipotetica inversione di tendenza del Giappone e da una remota ma possibile riaffermazione politica dell'Europa. Per fare in modo che ciò non avvenga occorre, secondo Brzezinski, occuparsi seriamente di cinque attori geopolitici dotati di requisiti economici, politici e militari tali da poter efficacemente condizionare i precari equilibri internazionali, e di cinque "paesi perno", che potrebbero invece far leva sulla propria posizione geografica o sul controllo di determinate risorse strategiche per andare ad influenzare altrettanto pesantemente suddetti equilibri. Gli attori geopolitici in questione sono Germania, Francia, Russia, Cina e India, mentre i "paesi perno" Corea del Sud, Iran, Turchia, Ucraina e Azerbaigian. La Germania è storicamente molto influente sull'Europa orientale mentre la Francia, anche in virtù del suo ammirevole passato gaullista, ha mire egemoniche sull'intero Mediterraneo. Un'eventuale intesa tra i due potrebbe compattare l'intera Europa in chiave antiatlantica e mettere a repentaglio la permanenza di forze armate statunitensi sul suolo del Vecchio Continente. Russia, Cina ed India sono tre giganti che stanno rapidamente e altrettanto prepotentemente risalendo la china dopo anni di vacche magrissime. Da una loro potenziale alleanza scaturirebbe indubbiamente un mastodontico colosso in grado di coprire esigenze tecnologiche (in cui primeggia l'India), energetiche (in cui primeggia la Russia), produttive ed economicamente strategiche (in cui primeggia la Cina). Alcuni passi in questa direzione sono stati fatti, specie in occasione della fondazione dell'Organizzazione di Shangai per la Cooperazione, che impegna Cina, Russia, Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan e Kirghizistan (oltre agli "osservatori", che prima o poi si trasformeranno in regolari membri, India, Pakistan, Mongolia ed Iran) ad intensificare i rapporti commerciali, energetici, militari e politici. Non è certo un caso che gli USA guardino con orrore a questa organizzazione, e stiano facendo di tutto per sabotarne i meccanismi che la rendono così efficiente. L'Ucraina, con l'elezione di Viktor Yanukovich, si è invece riavvicinata a Mosca dopo gli anni bui vissuti sotto il governo retto dall'atlantista Viktor Jushenko, salito al potere all'indomani della cosiddetta "Rivoluzione arancione" e protagonista assoluto delle tante contese con Putin sulle royalties per il transito del gas, che hanno fatto aleggiare sull'Europa lo spettro della chiusura dei rubinetti. L'Iran e la Turchia sono invece i "paesi cuscinetto" in grado di sbarrare la strada all'espansione russa sulle aree strategiche del Golfo Persico (tramite l'Iran) e sul Caucaso (tramite la Turchia). In Iran, la riconferma plebiscitaria di Ahmadinejad ha ridimensionato drasticamente i malriposti entusiasmi statunitensi (e di qualche uomo politico europeo loro servo) in Mousavi, nel suo ricchissimo sponsor Rafsanjani e nei grotteschi "rivoluzionari verdi" che protestavano per le strade di Teheran agitando manifesti scritti rigorosamente in lingua inglese (chissà a chi si riferivano...), mentre il giro di vite ottenuto in seguito al discusso e altrettanto trionfale esito del referendum, finalizzato a contenere i dolori di pancia dell'inquieto esercito turco, non è che l'ultimo dei tanti segnali di congedo inviati da Erdogan ai facinorosi strateghi del Pentagono. L'Azerbaigian è il paese che rappresenta invece il punto di raccordo tra Europa ed Asia centrale, ed è l'unico a disporre delle risorse energetiche tali (gas in primis) da sganciare, seppur parzialmente, l'Europa dalla totale dipendenza dalla Russia. La costruzione del gasdotto Nabucco, cavallo di battaglia dell'amministrazione USA, si colloca perfettamente in questo contesto, e va letta come una mossa per sottrarre "clienti" all'avviatissimo South Stream, che chiama invece direttamente in causa, tra gli altri, Eni e Gazprom (oltre a qualche compagnia tedesca). Tuttavia l'avversità nei confronti di Washington di paesi che giocano un ruolo cruciale (Iran su tutti) nella sua realizzazione, fanno apparire la messa a punto del Nabucco poco più che un miraggio. Dal canto suo, la Corea del Sud, attualmente zeppa di forze armate statunitensi, da un lato fa da schermo all'espansionismo russo ad est, dall'altro consente a Washington di monitorare (ed eventualmente "correggere") la situazione politica in Giappone. Al momento non si può certo affermare che gli USA stiano mettendo a segno colpi vincenti sulla via indicata da Brzezinski, mentre la Russia sta inanellando una serie di successi (Organizzazione di Shangai per la Cooperazione, intensificazione dei rapporti con Germania ed Italia, riaffermazione dei rapporti di forza sul Caucaso in occasione della crisi georgiana, stabilizzazione dei rapporti con l'Ucraina) che stanno facendo rimpiangere a Washington i "bei tempi" vissuto sotto i mandati di Bill Clinton. Tuttavia gli USA rimangono, al momento, ancora i più forti, ma sul medio e lungo periodo sono condannati inesorabilmente a cedere il passo alle nuove potenze emergenti (Cina) e (soprattutto) riemergenti (Russia). Ad ogni modo, la partita sulla "grande scacchiera" si sta ancora disputando, e non se ne intravedono i vincenti. Per ora.