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Germania e Italia, storia di un amore impossibile

di Francesco Lamendola - 03/11/2010



Come osservava il grande storico Ferdinand Gregorovius, autore di una monumentale - e anche letterariamente pregevolissima - «Storia della città di Roma nel Medioevo» - il popolo tedesco e quello italiano, che insieme sono giunti all’unità e all’indipendenza nazionale, hanno condiviso, nel bene come nel male, gran parte della loro storia, tenuti uniti da un legame ideale tenace, che travalica le contingenze e sembra racchiudere qualcosa di perenne.
L’idea dell’Impero, in particolare, passata da Roma alla Germania, ha rappresentato un legame ideale così forte e durevole, che ha praticamente costretto le due nazioni a rimanere strette l’una al destino dell’altra: con gli imperatori tedeschi, da Ottone il Grande ad Arrigo VII di Lussemburgo, che trascurano gli affari di casa loro per inseguire il miraggio italiano e con i Comuni italiani che lottano per l’autonomia contro l’imperatore, ma senza mai rinnegarne la suprema autorità e senza mai aspirare alla completa indipendenza; come se, appunto, una forza misteriosa e fatale avesse così deciso, a dispetto di tutto e anche della formidabile barriera alpina.
Pertanto, mentre nel resto d’Europa sorgevano le monarchie nazionali, la Germania e l’Italia, tenute strette dal comune ricordo del sogno universalistico dell’Impero, sono giunte in ritardo nel perseguire le rispettive unità nazionali e sono state a lungo campo di battaglia delle altre potenze, toccando il punto più basso l’una - l’Italia - con le guerre tra Francesi e Spagnoli del XVI secolo, l’altra - la Germania - con la rovinosa Guerra dei Trent’Anni, un secolo dopo, quando essa fu corsa in ogni senso da eserciti spagnoli, svedesi, francesi e di altre nazioni.
Dicevamo del notevole ritardo con cui la Germania e l’Italia hanno conosciuto la creazione dello Stato moderno, su base nazionale, nel corso dell’Ottocento; ritardo che si è ripercosso nella loro collocazione sulla scena internazionale, ivi compreso il fenomeno del colonialismo (quando, cioè, gran parte della spartizione coloniale era già stata fatta e la parte del leone era toccata alla Gran Bretagna e alla Francia), cosa che può aver svolto il suo ruolo nella nascita della Triplice Alleanza e, quindi, nello scoppio delle due guerre mondiali.
Uno storico di formazione marxista, abituato a far dipendere gli orientamenti spirituali di una data società dal suo modo di produzione, sarebbe portato ad attribuire il “ritardo” italiano e tedesco al più lento sviluppo di un ceto borghese “moderno”, ossia spiccatamente imprenditoriale; e, di conseguenza, a un ritardo nello sviluppo del capitalismo. Ma una tale conclusione urta con la semplice constatazione che già nel 1914 la borghesia tedesca aveva surclassato non solo quella francese, ma anche la britannica, e che l’espansione dell’economia capitalista in Germania era in grado di porre la candidatura di quest’ultima al dominio mondiale.
Conviene perciò ammettere che vi era qualcosa, nello spirito nazionale tedesco - e, per altri versi, in quello italiano - che configgeva con la cultura della modernità, così come essa si era venuta formando ed elaborando in Europa, soprattutto a partire dall’Empirismo inglese e dall’Illuminismo francese.
Tanto per fare un esempio, sia nella letteratura tedesca che in quella italiana si trova un consistente filone della narrativa e della poesia che guarda con malinconia, disorientamento e pessimismo all’avanzata del “progresso”, mito fondante dell’ideologia della modernità: basterebbe fare i nomi, pur tra loro diversissimi, di Nietzsche, di Kafka, di Musil, di Roth, di Wiechert; ma anche degli Scapigliati, di Verga, dello stesso Carducci maturo (quello de «Il comune rustico», per intenderci, e non già quello dell’«Inno a Satana»), di Pirandello, di Svevo, di Tozzi, e poi avanti, fino a quello di Cassola e oltre. Niente di simile si trova, in eguali proporzioni e con pari intensità, nella letteratura inglese o in quella francese.
Se tale fu l’incrociarsi dei destini italiani e tedeschi sul piano politico, dagli ultimi anni di vita dell’Impero Romano d’Occidente e dai regni barbarici degli Ostrogoti e dei Longobardi, su su fino al compimento delle rispettive unità nazionali, nella seconda metà del XIX secolo, e poi alla terrificante e disastrosa avventura dell’Asse per l’egemonia planetaria, nella seconda guerra mondiale, non meno intenso e sofferto è stato il legame culturale e spirituale fra i due popoli, particolarmente sentito all’epoca del Romanticismo.
Da Goethe e da Winckelmann in poi, l’Italia era la Terra Promessa degli intellettuali tedeschi, dei poeti, degli artisti, degli scrittori, il cui numero è legione: da von Platen al già citato Gregorovius, passando per quel Roeseler Franz che ci ha dato, attraverso i suoi acquarelli, l’ultimo ritratto della vecchia Roma, prima che la ristrutturazione urbanistica portata dalla modernità la facesse scomparire per sempre.
Per dire la verità, bisogna constatare che questo amore è stato per lo più, se non proprio a senso unico, prevalentemente degli uomini di cultura tedeschi verso l’Italia, che non di quelli italiani verso la Germania. Il grande Teodorico lo avrebbe trovato perfettamente naturale, dato che nelle sue leggi egli disse di considerare normale che un Goto volesse assomigliare a un Latino, ma riprovevole che un Latino volesse assomigliare ad un Goto; riconoscendo, così, l’indiscutibilità della supremazia culturale di Roma ed il suo eterno fascino verso il mondo germanico.
Anche il caso di Dante é stato sovente strumentalizzato o mal compreso: perché non di amore verso la Germania si trattava per il grande fiorentino, ma di fede nella necessità storica dell’Impero. Il fatto che gli imperatori del XIV secolo fossero tedeschi era, per Dante, del tutto irrilevante, tanto universalistica e sovra-nazionale era la sua concezione politica; ben diversa, in questo senso, da quella esplicitamente nazionale e anti-tedesca di Petrarca.
Eppure, fino alla metà del XIX secolo e forse ancora oltre, anche da parte italiana esisteva una sia pure più contenuta simpatia nei confronti della Germania (non dell’Austria, per le note ragioni politiche): non aveva forse il Manzoni dedicato proprio la più patriottica delle sue liriche, «Marzo 1821», alla memoria del poeta-soldato tedesco Theodor Körner, caduto combattendo contro le armate napoleoniche per la libertà della sua patria?
Ma, nel complesso, nulla di paragonabile, da parte italiana, al trasporto entusiastico che manifestavano verso l’Italia gli intellettuali tedeschi.
C’è un quadro di Friedrich Overbeck, «Germania e Italia», che bene raffigura questo amore bruciante dell’anima tedesca verso l’anima italiana: amore incompreso e spesso indesiderato, talvolta frainteso, mai pienamente ricambiato; amore impossibile, insomma.
Il quadro è del 1828 e raffigura due fanciulle, allegorie dei due popoli, che siedono l’una accanto all’altra, tenendosi per mano, sullo sfondo dei due rispettivi paesaggi “tipici”, il nordico e il mediterraneo. Ebbene, osservandole anche solo di sfuggita, non si può non notare al volo quale delle due sia l’amante e quale l’amata: ardente e volitivo lo sguardo della bionda fanciulla tedesca, languido e abbandonato quello della bruna ragazza italiana coronata di alloro, che sembra quasi in cerca di protezione e di conforto alle sue pene segrete.
Un amore precario, quindi: cementato, a ben guardare, più dalla comune reazione all’Illuminismo di matrice francese, ma di diversissima origine nei due casi - romantica la tedesca, classicista l’italiana - che ha fatto della cultura di queste due nazioni, a ben guardare, una sorta di prolungamento dei valori premoderni fin nel cuore della modernità; se è vero - come è vero - che la modernità è figlia di Cartesio prima, di Voltaire e di Rousseau poi. Ed è così che si spiega anche la convergenza tra l’idealismo filosofico tedesco e quello italiano; tra Fichte, Schelling ed Hegel da una parte, e Gioberti, Rosmini e, poi, Croce, dall’altra.
Ancora.
Se la modernità è rappresentata, economicamente e politicamente, dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, è altrettanto vero che sia il fascismo, sia il nazismo (così diversi per tanti altri aspetti, giova ricordarlo sempre) si possono entrambi considerare come aspetti di una comune reazione, o come parti di una comune reazione, all’urbanesimo, al materialismo, all’utilitarismo, insomma alle due grandi manifestazioni politico-economiche della tarda modernità: il capitalismo speculativo e il bolscevismo; in nome di un mito ruralista che voleva riproporre, quasi in chiave virgiliana, la sanità morale della vita dei campi e del ritorno ai valori patrii, alla corruzione e alla decadenza tipiche della borghesia urbana cosmopolita, affarista, cinica e infettata dalla “malattia” del giudaismo.
In questo senso, non si può considerare casuale il fatto che la Germania e l’Italia abbiano finito per stringersi l’una all’altra in una alleanza politica e militare - quella dell’Asse prima, del Patto d’Acciaio poi - in vista di una resa dei conti con il mondo del denaro e della macchina, rappresentato dalle potenze plutocratiche occidentali nonché dalla sua versione in chiave rivoluzionaria, ossia lo stalinismo in Unione Sovietica (cfr. il nostro precedente articolo «Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/0//2008).
Schematizzando alquanto, ma forse non travisando una sostanziale verità di fondo, potremmo quindi considerare la storia europea dell’ultimo secolo come il luogo dello scontro, ideale e materiale, fra due opposte e inconciliabili visioni del mondo: quella materialista e razionalista dell’Inghilterra e della Francia (le cui radici sono, oltre che in Cartesio e Spinoza, in Francis Bacon, Hobbes, Newton, Locke e Hume) e quella spiritualista e idealista della Germania e dell’Italia (che parte da Paracelso, Bruno, Campanella e arriva fino a Heidegger e Gentile, passando per Vico).
Se nel quadro che stiamo delineando vi è una plausibilità di fondo, allora bisogna riconoscere che il “Nuovo ordine europeo” propagandato dai pubblicisti dell’Asse negli anni della seconda guerra mondiale non nasceva dal fortuito incrociarsi delle mire di potenza della Germania nazista con quelle dell’Italia fascista, ma nasceva da una intima logica che aveva condotto le due nazioni all’appuntamento con la storia nell’ora della contesa per il potere mondiale.
Del resto, il fatto che scrittori e poeti come il norvegese Knut Hamsun, come i francesi Céline e Drieu La Rochelle, come l’americano Ezra Pound o come il romeno Mircea Eliade, per non parlare di uomini politici come Quisling, Pétain, Léon Degrelle, Mosley, abbiano, sia pure in tempi e modi diversi, aderito a quel progetto o si siano riconosciuti in quei valori (“il sangue contro l’oro”), dimostra che si è trattato di fenomeni e tendenze culturali e spirituali che, pur facendo perno su due realtà nazionali ben delimitate, possedevano nondimeno una certa carica espansionista e perfino potenzialmente universalistica (basterebbe pensare alla diffusione delle ideologie naziste e fasciste in Sud America, nel Medio Oriente arabo e in altre aree del mondo).
Anche nella reazione così rabbiosa di Hitler al tradimento del re e di Badoglio dell’8 settembre 1943, non è difficile scorgere i tratti dell’amore deluso; perché di vera fascinazione si era trattata, da parte del dittatore tedesco, nei confronti di Mussolini: su questo punto, tutti gli storici sono ormai d’accordo. Così come sono d’accordo sul fatto che la liberazione del Duce dal Gran Sasso non fu soltanto dettata da ragioni di Realpolitik, ma anche da un autentico sentimento di amicizia e devozione del Führer per il suo antico “maestro” italiano: sissignori, proprio lui, Hitler, l’uomo dal tenebroso cuore di ghiaccio. Amicizia e devozione, peraltro, che non furono mai ricambiate: sempre Mussolini ebbe nei suoi confronti sentimenti di diffidenza e scarsa simpatia.
Dopo il 1945 le strade dei due popoli, per la prima volta dai tempi di Tacito e di Odoacre, si sono parzialmente separate: in un’Europa costretta a ripartire da zero, con la Gran Bretagna sempre più arroccata nel ruolo di sentinella avanzata degli Stati Uniti e con la Francia costretta a cercare ovunque, perfino verso l’Unione Sovietica («L’Europa va dall’Atlantico agli Urali», diceva De Gaulle), una “sponda” per recuperare margini di autonomia nei confronti della strapotenza dell’alleato d’Oltreoceano, i secolari legami italo-tedeschi si sono allentati e, in parte, addirittura sciolti, forse per sempre.
Pesa, nella memoria collettiva degli Italiani, il terribile periodo del 1943-45, con le sue stragi e le sue barbariche violenze; e pesa del pari, nel ricordo dei Tedeschi, il “tradimento” di Badoglio, nel bel mezzo di una lotta durissima per la vita e per la morte contro la più ampia coalizione di popoli che si fosse mai vista.
Rimangono la sincera ammirazione dei Tedeschi per l’arte italiana, nonché la loro predilezione per le belle (un tempo) e relativamente economiche spiagge italiane; e rimane, permeata di invidia, l’ammirazione degli Italiani per l’efficienza tedesca, per la buona amministrazione tedesca, per i risultati dell’industria e dell’economia d’Oltralpe, con un operaio della Wolkswagen che guadagna almeno una volta e mezzo lo stipendio di un operaio della FIAT, a fronte di un costo della vita che non è poi tanto più alto rispetto al nostro.
Si ritroveranno, un giorno, queste due amanti ritrose e conflittuali?
Per ora, quello che si può vedere è che la Germania ha subito, più dell’Italia (e questa è stata per molti una sorpresa), il rullo compressore dell’americanizzazione, entrando a vele spiegate in quella tarda modernità post-industriale cui l’Italia, invece, offre ancora qualche sia pur debole resistenza. Il fatto stesso che, in Italia, siano ancora molte le persone che non conoscono l’inglese, o che lo parlano poco e male, dimostra che l’Italia è stata, finora, meno pesantemente americanizzata della Germania; ma che, per la stessa ragione, non è entrata a pieno regime, anche a livello psicologico, nei processi della modernità avanzata: ciò che, da un punto di vista materiale, appare certamente come un ritardo.
Una cosa possiamo immaginare, comunque, con relativa sicurezza.
Se mai verrà il tempo in cui l’Europa deciderà di ritrovare se stessa; se tornerà a porsi con fierezza verso la propria cultura e la propria civiltà, e si libererà dai suoi assurdi complessi di inferiorità verso l’America: allora sia la Germania che l’Italia torneranno a svolgere un ruolo centrale nella rinascita spirituale di questo continente.
E si ritroveranno: come due vecchi innamorati che, pur dopo mille litigi e incomprensioni, non hanno mai smesso, nel loro intimo, di volersi bene.