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Crociati prima delle Crociate

di Paolo Mieli - 16/11/2010





Nel 2005 Daniel Johnson ha pubblicato su Commentary, rivis t a de l l ’ Americ a n Jewish Committee, un saggio sulle Crociate assai critico nei confronti della tradizionale descrizione demonizzante — da Edward Gibbon a Steven Runciman — di quelle spedizioni. Interpretazione che in tempi più recenti si è condensata in un celebre articolo pubblicato sul New York Times il 20 giugno del 1999, nel quale, per ricordare l’impresa a novecento anni dalla conquista di Gerusalemme, la si metteva sullo stesso piano dei misfatti hitleriani e di altri genocidi. Nel saggio su Commentary Johnson denunciava il fatto che quelle spedizioni militari avessero lasciato un’immagine di sé così negativa nonostante fossero state assai meno distruttive per la civiltà musulmana di quella mongola del XIV secolo. Secondo l’autore quel pregiudizio ostile non ha ragion d’essere tanto più che quell’esperienza, al di là degli elementi negativi presenti in quella come in tutte le guerre, provocò una vera e propria rivoluzione culturale di cui ha poi beneficiato il mondo intero (compreso quello islamico). In virtù di alcune argomentate considerazioni, Johnson sosteneva che quando gli studiosi di oggi deprecano i crociati, al di là delle loro legittime opinioni, intendono mandare un messaggio in codice sia a Israele sia al mondo islamico; e il messaggio dice che come occidentali non «siamo» disposti a difendere né il mondo cristiano né lo Stato ebraico.
In coincidenza con l’uscita di quel saggio (in realtà la cosa era iniziata già da qualche tempo) sono comparsi in libreria studi di rivalutazione delle Crociate, il più recente dei quali — Gli eserciti di Dio di Rodney Stark (Lindau) — capovolge per intero i luoghi comuni su quei due secoli di confronto non solo militare tra il mondo cristiano e quello musulmano. Di impianto simile — anche se mai inquinato da intenti apologetici — è il nuovo volume di Conor Kostick, L’assedio di Gerusalemme (Il Mulino). La parte più interessante del libro di Kostick, dedicato alla prima crociata, è quella che riguarda la genesi dell’impresa. Quando nel novembre del 1095, al concilio di Clermont, papa Urbano II mise in movimento un esercito di popolo destinato a marciavitandoli a deporre le armi e poi massacrandoli senza pietà. L’imperatore bizantino Alessio Comneno ridusse al minimo i danni del passaggio di quei soldati da Costantinopoli (ma ce ne furono), si rivelò più astuto e concordò con i crociati che le città già appartenutegli, una volta conquistate ai turchi, venissero restituite all’impero senza essere saccheggiate. Ma quando, nel giugno 1097, questo accadde per Nicea, i crociati si domandarono a che pro avevano combattuto senza averne avuto poi alcun compenso. E venne il momento delle «piccole scissioni». Nel settembre 1097, Tancredi e Baldovino (in contrasto tra loro, il secondo con più uomini del primo) si separarono dalla spedizione e marciarono alla conquista di Tarso. Tancredi la conquistò, ma Baldovino ottenne che, sia pur malvolentieri, gliela cedesse. I due, racconta Kostick, erano nobili di incerta posizione, non erano ancora al comando di forze cospicue e servivano sotto signori di maggior rilievo; pertanto erano alla disperata ricerca di quel flusso di entrate che solo il controllo di una città assicurava, così da promuoverli allo stesso livello dei più grandi principi.
Baldovino dunque riuscì a subentrare a Tancredi alla guida della città di Nicea. Ma quando trecento normanni chiesero di entrare in città, Baldovino, non fidandosene, li tenne fuori dalle mura lasciandoli massacrare dai turchi (il che provocò quasi una rivolta anche tra i suoi). Così in ottobre, quando Tancredi conquistò Mamistra e Baldovino gli chiese anche stavolta di cedergliela, i due non trovarono l’accordo e i loro eserciti si scontrarono. Problemi diversi — che però provocarono ugualmente scontri tra cristiani — si ebbero anche al momento della conquire nel nome di Dio, non era neanche pensabile che l’esito sarebbe stato così fruttuoso.
Il tragitto da Parigi a Gerusalemme superava i tremila chilometri, di cui più della metà erano in terre nemiche; le persone che partirono nel 1096 furono all’incirca centomila e quelle che tre anni dopo giunsero ad assediare la città non superavano le ventimila, un quinto di quelle iniziali. Eppure nel volgere di tre anni i crociati cristiani erano riusciti a stabilire un principato cristiano ad Antiochia, un nuovo regno a Gerusalemme e si erano sostituiti al controllo armeno su Edessa. Avevano inoltre sconfitto il potente esercito del califfato selgiuchide di Bagdad e quello pressoché imbattibile del califfato fatimide del Cairo. Molto più di quello che Urbano II avrebbe mai potuto immaginare nei giorni di Clermont.
È interessante ripercorrere il viaggio dell’armata penitenziale guidata da Pietro l’Eremita, il suo braccio destro Gualtieri Senza Averi, il prete tedesco Godescalco, e molti grandi cavalieri, tra cui spiccavano Goffredo di Buglione e suo fratello Baldovino. Anche per comprendere di che natura fu il gorgo che — stenti e malattie a parte — inghiottì i quattro quinti di quell’armata penitenziale. Dapprincipio quel disordinato esercito se la prese con le comunità ebraiche a Colonia, Spira, Worms, Magonza (dove pure gli israeliti furono protetti dal vescovo Rutardo). Questo diede loro un’immagine da predoni che ebbe conseguenze assai nocive. Già nel luglio del 1096, quando i seguaci di Pietro avevano provato ad espugnare la cittadina di Naisso (in Serbia), il governatore della Bulgaria, Niceta, li aveva contrastati e debellati, infliggendo loro grandi perdite. Lo stesso aveva fatto, preventivamente al transito sulle sue terre, Colomanno, re di Ungheria, insta di Antiochia. Boemondo e Baldovino decisero infine di fermarsi ad Antiochia e a Edessa, ciascuno trattenendo con sé la gran parte dei propri uomini. La via per Gerusalemme fu costellata da «scismi e fazioni» che, secondo Kostick, indebolirono l’armata per la liberazione del Santo Sepolcro assai più delle pestilenze. Ma, secondo l’autore, tutto ciò ci dice qualcosa anche della forza ideologica di quell’esercito. «È degno di nota», scrive, «il fatto che gli assedianti si separassero in due fazioni antagoniste; e il fatto che dovettero far fronte a profonde rivalità non soltanto tra principi secolari, ma anche tra i grandi signori e il clero, implica che la condotta dell’esercito crociato fu assai inconsueta per l’epoca». E ancora «la presenza di un colossale numero di non combattenti fu cosa rara negli eserciti assedianti del Medioevo». Ma vinsero ugualmente, dal momento che la caratteristica distintiva dell’assedio di Gerusalemme stette «nella mentalità degli attaccanti». E quella mentalità produsse la rivoluzione culturale di cui si è detto all’inizio.
La gestazione di tale mentalità non fu qualcosa di improvvisato, prodottosi nel giro di pochi mesi o di qualche anno. Essa fu dovuta a secoli di Fede e guerre nella formazione della Cristianità occidentale, come recita il sottotitolo di L’Europa prima delle Crociate (Edizioni Ares) il nuovo libro di Alberto Leoni, già autore dei fortunati La croce e la mezzaluna (Ares) e Storia militare del Cristianesimo (Piemme). Secondo Leoni può essere tenuta nel conto di una precrociata quella dell’imperatore bizantino Eraclio, che, poco meno di cinquecento anni prima del proclama di Urbano II, reagì con una spedizione militare alla conquista di Gerusalemme da parte dei persiani (614) e in particolare al furto della reliquia più sacra del modo cristiano: il legno della Vera Croce. Cosa fu il trauma del 614 lo ha ben sintetizzato Judith Herrin nel suo Bisanzio (Corbaccio): Gerusalemme fu selvaggiamente saccheggiata; dopo il massacro della popolazione locale, il patriarca e i restanti cristiani che custodivano le reliquie della Vera Croce furono avviati alla prigionia in Persia, che essi paragonarono alla cattività babilonese degli ebrei; nel 619 i persiani giunsero ad occupare Alessandria, interrompendo i rifornimenti di grano a Costantinopoli. Non ci fosse stato Eraclio, avrebbe potuto essere la fine della civiltà bizantina.
Eraclio era stato incoronato imperatore nel 610 con l’aiuto del patriarca Sergio, come successore dello spietato Foca, che era stato il primo imperatore orientale ad andare al potere nel 602 con la violenza. Eraclio dedicò i suoi primi anni di comando alla riorganizzazione dell’esercito, poi, con la benedizione dell’autorità religiosa, nel 621 lanciò una controffensiva — efficace come era stata nove secoli prima tra il 331 e il 326 a.C. quella di Alessandro Magno — che lo spinse fin dentro la Persia, dove nel 628 sconfisse Cosroe II, il re dei re, e recuperò la Vera Croce. Nel 630 la reliquia tornò a Gerusalemme. Grande, strepitosa vittoria. Ma paradossalmente quella vittoria, fino a qualche anno prima impensabile, sortì l’effetto di rompere gli equilibri del tempo e consentì a Maometto (che proprio in quegli anni lanciava la sua offensiva) di conquistare una vastissima area. E i successori di Maometto nel 638, pochi anni appena dopo la vittoria di Eraclio, riuscirono ad impadronirsi di Gerusalemme. Il che spiega perché — anche se alla storia della Vera Croce è dedicato il celeberrimo affresco di Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo — alla vicenda sia stato dato tradizionalmente minor risalto di quel che avrebbe meritato.
A proposito della storia della Vera Croce, una nota, a parer nostro, stonata del libro di Leoni è nel modo con cui in più occasioni fa riferimento al ruolo svolto all’epoca dagli ebrei. Ad esempio, nel trattare della conquista di Gerusalemme da parte dei persiani, l’autore scrive: «Per tre giorni e tre notti la città fu abbandonata agli invasori che compirono misfatti inauditi; gli ebrei, in particolare, erano così assetati di sangue per i lunghi anni di servaggio e di persecuzione, che arrivarono a comprare dai persiani i prigionieri cristiani per avere la gioia di sgozzarli di propria mano». E cita come unica fonte un libro del 1905 del cattolico tradizionalista Angelo Pernice, L’imperatore Eraclio (Galletti&Cocci). Ora è accertato che gli israeliti collaborarono dapprima con i persiani e poi anche con i musulmani, per reazione alle vessazioni bizantine che avevano fatto seguito all’accusa ad un ebreo di Antiochia di aver profanato un’icona della Vergine (592) e in particolare, ai tempi di Foca, dopo l’assassinio del patriarca Anastasio di cui furono ingiustamente accusati. Ma tali circostanze non legittimano in alcun modo l’uso di una tale terminologia. Anche in considerazione del fatto che l’argomento è oggetto da decenni di analisi più attente alle sfaccettature, caratterizzate dal ricorso ad un linguaggio assai più sobrio. Una per tutte quella contenuta nel volume Bisanzio di Alain Ducellier pubblicato nel 1988 da Einaudi.
Seconda vicenda storica che Leoni prende in considerazione come una precrociata è quella che indusse addirittura un pontefice, Leone IV, a mettersi, nell’849, alla testa di un’armata per sconfiggere i musulmani che dal 652 erano sbarcati in Sicilia, nell’830 avevano attaccato Roma e nell’849 si accingevano a prenderla e devastarla una volta per tutte. Già nell’830 erano state raggiunte le basiliche di San Paolo e di San Pietro, che si trovavano fuori dalle mura aureliane. Scrive Rinaldo Panetta in un libro pubblicato da Mursia qualche tempo fa, I saraceni in Italia, che, in quella occasione, nella difesa di Roma ebbero un ruolo decisivo gruppi di Longobardi, di Frisoni e di Franchi. Ma ciò non impedì ai saraceni di fare razzia di un immenso bottino (censito con grande accuratezza alla metà dell’Ottocento da Gregorovius nella Storia della città di Roma) e li indusse a preparare una seconda impresa che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto essere quella definitiva. Impresa che, osserva Leoni, sarebbe stata resa possibile dalla crisi dell’impero carolingio e dalle difficoltà di quello bizantino.
I veneziani inviarono una flotta per difendere Roma dai saraceni, ma furono travolti al largo di Taranto nell’839. Da quel momento furono scorrerie lungo tutta la costa adriatica: nell’840 fu devastata e incendiata Ancona. In Sicilia, dove già Palermo era caduta nell’831 in mano musulmana, «la resistenza bizantina crollò di schianto»: Messina capitolò nell’843, Ragusa nell’845. In Puglia avevano ceduto sia Bari che Taranto. Il 23 agosto dell’846 una grande flotta di 73 navi con undicimila uomini a bordo approdò a Ostia. Il borgo, racconta Leoni, venne saccheggiato, la guarnigione di mercenari Sassoni e Frisoni travolta a dispetto di una resistenza pari a quella di sedici anni prima. Gli invasori giunsero ai Campi di Nerone, isolando la Basilica di San Pietro dal resto della città: «La chiesa più augusta e sacra della Cristianità fu saccheggiata e profanata come mai fino a quel momento nessuno, né barbaro né eretico, aveva osato fare; i tesori accumulati per secoli furono depredati e perduti per sempre, furono asportate persino le lamine d’oro delle porte». Dopodiché i predoni, che sicuramente avrebbero di lì a breve portato a termine la loro opera, eseguirono come era nei loro principi tattici, una brillante ritirata. Ma in mare li colse una furiosa tempesta di fine estate che colò a picco l’intera flotta. Per questa ragione furono costretti a ritentare l’impresa, anziché dopo qualche settimana, soltanto nell’849.
Stavolta però ad affrontarli c’era una flotta agguerrita, alla cui guida si era messo lo stesso pontefice, Leone IV. Che, a seguito di uno scontro il cui esito non fu chiaro fino all’ultimo momento, riuscì ad annientare le navi saracene. «Per la prima volta», scrive Leoni, «un esercito composto da italici aveva vinto una grande battaglia e l’aveva fatto sotto la guida del Pontefice in una guerra a difesa della Cristianità occidentale; in effetti si può dire che la storia militare della Chiesa nasce quel giorno, così importante da essere celebrato negli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane». E non finì lì. Nell’871 su sollecitazione della Chiesa fu riconquistata Bari. Nell’878 fu emessa una bolla per chiamare alle armi tutti i cristiani a difendere il patrimonio di Pietro (si tratta della «prima assegnazione di un’indulgenza concessa a combattenti per la fede»). I monaci benedettini si armarono a difesa di San Vincenzo al Volturno, ma nell’882 furono sopraffatti dai saraceni. Riuscirono a prevalere invece i frati di San Martino in Marsico. E nel 915 papa Giovanni X si pose alla testa di una coalizione di italici per annientare i saraceni del Garigliano «in una delle prime guerre sante della storia». La campagna durò mesi e si concluse con una strepitosa vittoria della Chiesa. Giovanni X fu in seguito assai criticato per essersi messo alla testa di quelle truppe e per aver sterminato i nemici che aveva sconfitto. Ma, gli riconosce oggi Panetta nel libro già citato sui saraceni in Italia, quel genere di nemici non avrebbe di certo potuto essere vinto «con preghiere, con bolle e con scomuniche, né quella crociata avrebbe avuto esito se i combattenti non fossero stati incoraggiati dalla presenza del Papa e sospinti al combattimento dalla sua tenacia».
In quegli stessi anni si ebbe un’epopea cristiana in Irlanda, Scozia e Galles. E cristiana fu la vittoria di Alfredo di Wessex contro il re vichingo Guthrum nella battaglia di Edington (879). Vittoria che venne dopo innumerevoli peripezie e sconfitte, ma che, proprio per questo, fu assai significativa. Alfredo chiese e ottenne che lo sconfitto Guthrum e 29 suoi vassalli si battezzassero. Quel battesimo è di enorme importanza. La grandezza di Alfredo, per cui ancor oggi è venerato come santo, scrive Leoni, «non risiede solo nella sua capacità militare, per quanto si sia rivelato come un genio tattico e strategico come pochi nella storia; la sua capacità si rivela straordinaria nel saper fare la pace con il proprio nemico, legarlo a sé come alleato e far nascere un popolo da una turba confusa e barbarica».
Da quegli eventi degli ultimi secoli del primo millennio trasse alimento lo spirito della Riconquista in Spagna. Leoni mette in luce l’importanza del 1063, l’anno in cui il re di Castiglia Ferdinando I ristabilì l’unità dei regni cristiani e fu ripresa agli arabi la città di Coimbra. Quello stesso anno, papa Alessandro II emise l’enciclica Eos qui in Hispaniam, che concedeva la remissione dei peccati a tutti coloro che avessero partecipato alla guerra contro i musulmani. Fissa l’attenzione sul 1085, l’anno in cui, forte di quell’enciclica, Alfonso VI di Castiglia riuscì a prendere Toledo. E ripercorre la vicenda di Rodrigo Diaz, passato alla storia come il Cid Campeador, che riuscì a compiere le sue conquiste e ad ampliarle fino al dì della sua morte, il 10 luglio del 1099, cinque giorni prima che Goffredo di Buglione riuscisse a mettere piede sugli spalti di Gerusalemme.
Il fine di questo libro, scrive Leoni, e quello di ricostruire la strada lunga, sanguinosa e drammatica che «portò l’Europa cristiana a proiettarsi fuori dai propri confini» nel corso di secoli «nei quali tutto sembrò perduto dopo la fine dell’Impero romano d’occidente». Anni in cui i cristiani salvarono l’Europa per ben due volte, «sperando contro ogni speranza». L’attenzione, più ancora che ai pontefici che seppero impugnare la spada, è dedicata a uomini politici dell’epoca (oggi alquanto trascurati dai libri di storia), come Eraclio o Alfredo di Wessex, che, ispirati dalla fede, diedero un contributo determinante alla costruzione della civiltà occidentale. E in ciò anticiparono le Crociate.