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Lo dicono anche i fiscalisti: bisogna tassare le rendite

di Massimo Frattin - 29/11/2010


Ormai, secondo i commercialisti italiani, «in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare»


Garantire un quadro di regole certe per rilanciare la fiducia nel rapporto tra fisco e contribuente; accentuare la lotta all’evasione fiscale, ma in un contesto che ponga al centro l’amministrazione della giustizia tributaria, non soltanto l’accertamento e la riscossione; costruire un prelievo fiscale equo, efficiente e coerente rispetto al modello cui si ispira la nostra Costituzione e su cui si fonda la nostra società; correggere il tiro del federalismo fiscale verso una maggiore attenzione all’autonomia finanziaria, piuttosto che all’autonomia impositiva. Inoltre, per la gestione di questo fantomatico nuovo corso nel rapporto cittadino-fisco, bisogna creare un’Authority indipendente, simile ad altre realtà europee, che permetta anche una non rinviabile semplificazione del sistema.

Sono i punti nodali del “manifesto dei commercialisti italiani per la riforma del fisco”, approvato durante le riunioni del 16 e 17 novembre 2010 e pronto ad essere discusso al tavolo col ministro Tremonti. 

In sé si tratta di proposte così assennate da rendere perfino sorprendente che sia l’ordine dei commercialisti a farsene carico presso il Governo. Dal testo in questione emerge una realtà chiara per tutti fuorché – pare – per chi ci amministra. Il fisco, sottolinea il manifesto, opera in maniera diseguale ed iniqua, gravando per lo più sul lavoro (nulla di nuovo); il cittadino, laddove emergano dei contenziosi in materia fiscale, è perseguito come fossimo in uno stato di polizia (nulla di nuovo); c’è profonda disparità di trattamento tra i redditi da lavoro e le rendite da capitale (nulla di nuovo). L’esempio riportato è lampante: «Oggi, una persona che dichiara al fisco redditi di lavoro per 150.000 euro è tassata con una aliquota media del 38,45% (42,35%, se imprenditore o lavoratore autonomo), mentre chi consegue 150.000 euro annui come rendita patrimoniale al 3% derivanti da una ricchezza mobiliare di 5 milioni di euro di titoli è tassato al 12,5%. Il cristallino messaggio che viene dal nostro sistema di imposizione sui redditi è il seguente: in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare».

Peccato che alla fine, sul delicato problema della tassazione delle rendite patrimoniali, l’ordine dei commercialisti preferisca glissare limitandosi di fatto allo scontato auspicio di «diminuire la forbice tra il livello di tassazione dei redditi di derivazione patrimoniale ed il livello medio di tassazione dei redditi di derivazione produttiva». Sul come, e soprattutto sul quanto, non si forniscono lumi.

Ora, fa un po’ sorridere che la ricetta per il risanamento del fisco italiano arrivi da un comparto, quello dei commercialisti, spesso sotto accusa proprio per i consigli su come aggirarlo. Il problema che viene aperto tuttavia è concreto e non più derogabile. Con la crisi pesantissima in cui ci troviamo, anche nella società italiana si è aggravato il divario tra la maggior parte della popolazione che viene tartassata e una ristretta elite di privilegiati che si avvale dei benefici e delle scappatoie di un sistema fiscale iniquo. Da una parte chi lavora è sottoposto alla più elevata pressione fiscale d’Europa (secondo i dati Eurostat nel 2008 era al 42,8%, a fronte invece dei servizi peggiori d’Europa); dall’altra chi gode di ricchezze mobiliari e patrimoniali trae vantaggio anche dal gettito fiscale altrui. 

L’intero discorso non può inoltre prescindere da quello che risulta il dato di fatto più sconvolgente della specificità italiana: una macchina politica e una spesa pubblica senza fondo. 315 senatori e 630 deputati (gli USA ne hanno rispettivamente 100 e 445) formano il Parlamento più numeroso del mondo, per il quale spendiamo ogni anno 247.551.240 euro a fronte degli 82 milioni di dollari, pari a 68milioni di euro, del Parlamento americano. La spesa pubblica italiana nel 2009 ha sfiorato gli 800 miliardi di euro e ha superato, in percentuale, la metà del prodotto interno lordo. Il debito pubblico: a settembre 2010 era a quota 1.844,817 miliardi, in aumento dal 2005 –in soli cinque anni! – del 21,8%. 

Il problema è sempre lo stesso: al di là delle cifre complessive, in quale modo vengono spese queste montagne di denaro? A giudicare dalla tutela del patrimonio pubblico e dalla qualità dei servizi, non certo nell’interesse della moltitudine che paga regolarmente le imposte. Con la classe politica che ci ritroviamo, quindi, il pericolo è che anche di fronte ad un riassetto costruttivo e significativo del sistema fiscale nazionale, con tanto di recupero dell’evasione, ci sarebbero forse solo più soldi da sprecare e da spartire per chi amministra, non da destinare a chi è amministrato.

Che in fondo è quello che paventa anche l’ordine dei commercialisti nella parte introduttiva al proprio manifesto: «In particolare, troppo spesso è stata trasmessa nel cittadino la tutt’altro che immotivata sensazione di una assenza, da parte dell’amministrazione finanziaria, della consapevolezza di avere nel cittadino il fine ultimo della propria azione di tutela degli interessi collettivi e non invece una controparte da colpire anche in presenza di oggettive condizioni di incertezza»