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Europa e Occidente: una sfida a "Identità europea"?

di Franco Cardini - 25/05/2006

 
 

Cari Amici di “Identità Europea”,

a volte si rischia il peccato di superbia. Ma, leggendo il “Manifesto” Per l’ Occidente forza di civiltà redatto e diffuso dal febbraio 2006 a cura di un gruppo promosso dall’allora Presidente del Senato, Marcello Pera, e che continua a venir sottoscritto da politici e uomini di cultura appartenenti alle diverse componenti di quella che in Italia è indicata come la “destra”, verrebbe quasi da pensare che gli estensori di tale documento ce l’avessero soprattutto con “Identità Europea”. Il che è chiaramente impossibile: essi erano allora i padroni dell’Italia, e in parte lo sono rimasti, mentre l’Associazione Culturale che ha il suo centro in una piccola libreria di Rimini conta solo un pugno di persone di buona volontà. Ma, quando in apertura del “Manifesto” si propone una sorta di endiadi tra “l’Occidente in crisi” e “l’Europa ferma” che “nega la propria identità” e al tempo stesso “fa dell’antiamericanismo una bandiera”; quando si dichiara di voler contrastare “ogni tentativo di costruire un’Europa alternativa o contrapposta agli Stati Uniti”; quando si afferma l’impegno a “fondare un nuovo europeismo” che “ritrovi la sua vera identità”: ebbene, quando si legge tutto questo, un certo sospetto che almeno in filigrana chi ha redatto il “Manifesto” pensasse a quella piccola associazione che ha il monogramma costantiniano come suo simbolo onestamente si affaccia. Vale dunque la pena di leggere il “Manifesto” con attenzione e di meditare sulla strada che in Italia le forze che si proclamano “di destra” stanno prendendo.

Il Manifesto consta di un breve Preambolo e di undici brevi punti programmatico-asseverativi sigillati dal motto “L’Occidente è vita. L’Occidente è civiltà. L’Occidente è libertà”.

Una certa retorica, in documenti del genere, è inevitabile: anche, e forse soprattutto, quando e nella misura in cui essi scelgono la misura della stringatezza: né altro si può richiedere a un documento che vuol essere un impegno, una dichiarazione d’intenti. A partire dall’indomani della sua diffusione sia a stampa, sia in rete (www.perloccidente.it) non solo si sono ininterrottamente andate aggiungendo le firme d’adesione, ma si è altresì aperta sui periodici afferenti al centro-destra una lunga serie di articoli e di saggi che parrebbero tesi ad approfondire e a precisare la tematica del documento.

Il Preambolo, dopo un drammatico esordio – “L’Occidente è in crisi” - esamina le ragioni di tale crisi. “Attaccato dall’esterno dal fondamentalismo e dal terrorismo islamico, non è capace di rispondere alla sfida. Minato all’interno da una crisi morale e spirituale, non trova il coraggio di reagire. Ci sentiamo colpevoli del nostro benessere, proviamo vergogna delle nostre tradizioni, consideriamo il terrorismo come una reazione ai nostri errori. Il terrorismo, invece, è un’aggressione alla nostra civiltà e all’umanità intera.” Il testo prosegue poi deprecando l’immobilismo dell’Europa in termini di natalità, di competitività, di unità d’azione; essa “nasconde e nega la propria identità”, il che sarebbe causa del fallimento del suo progetto costituzionale; infine, essa “determina una frattura con gli Stati Uniti e fa dell’antiamericanismo una bandiera”. Infine, la crisi occidentale ed europea è collegata al fatto che “le nostre tradizioni sono messe in discussione” in quanto “il laicismo e il progressismo rinnegano i costumi millenari della nostra storia. Quindi “si avviliscono così i valori della vita, della persona, del matrimonio, della famiglia. Si predica l’uguale valore di tutte le culture. Si lascia senza guida e senza regola l’integrazione degli immigrati”. La chiusa del documento si affida a una citazione di Benedetto XVI, “l’Occidente non ama più se stesso”, e all’affermazione che “per superare questa crisi abbiamo bisogno di più impegno e di più coraggio sui temi della nostra civiltà”.

Di che tipo siano e in quale senso vadano diretti l’ “impegno” e il “coraggio” invocati, lo si comprende meglio esaminando gli undici punti programmatici: l’Occidente (“Noi siamo impegnati a riaffermare il valore della civiltà occidentale come fonte di principi universali e irrinunciabili, contrastando, in nome di una comune tradizione storica e culturale, ogni tentativo di costruire un’Europa alternativa o contrapposta agli Stati Uniti”), l’Europa (dove ci si riallaccia, senza meglio precisare, alla “ispirazione dei padri fondatori dell’unità europea” nella quale si troverebbe la sua “vera identità”), la sicurezza (nel cui àmbito si collega lotta contro il terrorismo e sostegno alle missioni militari all’estero), l’integrazione (sulla base dei valori condivisi e dei principi della Costituzione, “senza più accettare che il diritto delle comunità prevalga su quello degli individui che le compongono”), la sussidiarietà (nell’esaltazione del “principio cristiano e liberale della persona”), la famiglia (“quale società naturale fondata sul matrimonio”), la libertà (“siamo impegnati a diffondere la libertà e la democrazia quali valori universali validi ovunque”; ...”non è al prezzo della schiavitù di molti che possono vivere i privilegi dei pochi”), la religione (si riconferma la legittimità della distinzione tra Stato e Chiesa, “senza cedere al tentativo laicista di relegare la dimensione religiosa nella sfera del privato”), l’educazione (“piena equiparazione della scuola non statale con la scuola statale”), l’Italia (a proposito della quale si propone l’esaltazione dei valori del “conservatorismo liberale”).

Il confronto tra Preambolo e punti programmatici sembra evidenziare la vera natura del documento come un primo appunto attorno al quale potrebbe concretizzarsi il profilo “ideologico”-politico del futuro partito unico del centrodestra, con un’evidente confluenza di Forza Italia, di gran parte di Alleanza Nazionale (parrebbe problematico far accettare in tutto un programma del genere alla corrente della “Destra Sociale”: tuttavia il rappresentante più prestigioso di essa, Gianni Alemanno, figura terzo firmatario, dopo Pera e Adornato: si tratta solo d’una questione di ordina alfabetico?) e anche di personaggi di vari ambienti d’espirazione cattolica o che finora si sono indirizzati al mondo leghista.

La futura destra unitaria italiana sarà pertanto “liberal-conservatrice”, ma anche “cattolico-liberale”: anzi, sul piano squisitamente etico, respingerà – definendola come “laicista” – qualunque istanza vòlta a distanziarsi in qualche modo dal magistero della Chiesa cattolica (come si è visto nelle questioni relative al diritto alla vita, alla famiglia, alla polemica sui PACS), mentre sul piano sociale farà proprio il principio di sussidiarietà, tradizionalmente bandiera dei movimenti cattolici come Comunione e Liberazione.

A giudicare quindi dal tono del documento e dalle firme che lo corredano, si direbbe che ultimamente la “Via di Damasco” si sia popolata di folgorati dal Signore, di caduti da cavallo, al pari di Saulo di Tarso. Come cattolico, non posso che rallegrarmene, per quanto certe repentine conversioni dal laicismo più duro, addirittura anticlericale, al cattolicesimo intransigente almeno sul piano morale appaiano quanto meno sorprendenti, dato che non sembrano essere state accompagnate da un adeguato travaglio. Non voglio mancar di carità cristiana: ma mi sono sinceramente stupito, in occasione della campagna elettorale, della compatta ed entusiastica adesione alla dottrina cattolica e del sentire all’unisono con la Chiesa da parte di tante persone che in realtà conosco anche personalmente come da sempre lontana ed estranea rispetto al cattolicesimo. Un miracolo dello Spirito che soffia dove vuole? Me lo auguro: mi resta tuttavia il sospetto che sia abbastanza facile da un lato proclamar che la Chiesa ha ragione in materia di concepimento, di difesa della vita, di famiglia fondata sul matrimonio, e dall’altro continuar a vivere come prima e come niente fosse. Da alcuni leaders dello schieramento di centrodestra fino a molti casi che personalmente mi sono noti, la prassi seguita è stata proprio questa: e parlar di malafede e di strumentalizzazione politica della Chiesa è il meno che in questo caso si può fare.

Ma, al di là dello iato tra principii affermati e prassi morale seguita, anche sul piano delle idee qualcosa suona piuttosto falso. Il successo dei modelli prima neocon e poi addirittura teocon in alcune aree della destra italiana, accompagnato da sbrigative denunzie del “giacobinismo” ereditato dalla Rivoluzione francese che sarebbe alla base del “laicismo” italiano ed europeo in alternativa al quale si indicherebbe secondo il modello di Edmund Burke i valori liberali e antiegalitari della rivoluzione americana, parrebbe addirittura venir proposto quale chiave interpretativa per superare allegramente il trauma del 1789-1792, accantonare o ignorare la condanna espressa dal Sillabo nei confronti del liberalismo e del liberismo, saltar a piè pari la tradizione severamente laica dello stesso “conservatorismo liberale” – quanto meno di quello dal Cavour al Croce, per restar in Italia – e insomma giungere a sposar senza riserve e senza contraddizioni cattolicesimo e liberalismo. Francamente, siamo dinanzi a un po’ troppo disinvolto funambolismo., che tra l’altro proclama “libertà della persona umana” quel che in effetti, nella tradizione liberal-liberistica affermatasi in Europa e divenuta un carattere specifico negli USA, è piuttosto uno sfrenato individualismo.

Lasciamo da canto per ora il fatto che buona parte dei cattolici sarà più che scettica dinanzi a tali frettolose nozze. Limitiamoci a osservare che quel che pare proposto dal “Manifesto” Per l’Occidente è una sorta di versione un po’ caricaturale dell’unione – che negli USA ha un’altra storia, altri soggetti e altri connotati – tra integrismo religioso sotto il profilo morale (il che implica un’accettazione dei parametri etici proposti dalla Chiesa cattolica un po’ troppo acritica e frettolosa per apparire credibile, soprattutto da parte di personaggi molti dei quali, fino a poco tempo fa, erano laicisti e anticlericali, e alcuni dei quali ancora si professano “”cristianisti” più che cristiani, e magari perfino “atei devoti”) e liberal-liberismo.

Quanto a quest’ultimo, anche nella visione socioeconomica proposta dal documento qualcosa non torna. Il rapporto tra un modo d’intendere il principio di solidarietà che sembra aprirsi totalmente al liberismo e il vero solidarismo cristiano richiederebbe almeno qualche chiarimento. Uno, soprattutto: che sarebbe per esempio giunto qualora il documento avesse affrontato anche, in un suo eventuale dodicesimo auspicabile punto programmatico, il problema della globalizzazione e delle dure, pesanti, inaccettabili sperequazioni che caratterizzano il pianeta: nel quale, a meno di 20% di persone che gestiscono oltre l’80% delle ricchezze e delle risorse (ma all’interno di tale minoranza la ricchezza si va ulteriormente concentrando e le sacche d’indigenza aumentano) corrisponde oltre un 80% (vale a dire quasi cinque miliardi di persone) minacciate dalla fame e che vivono appena al di sopra o addirittura al di sotto del limite di una decorosa sopravvivenza. Invece, il manifesto Per l’Occidente sembra non rilevare nulla di tutto ciò; parla sì dell’impegno a diffondere la libertà e la democrazia “ovunque, tanto in Occidente quanto in Oriente, a Nord come a Sud”: e con ciò ribadisce il convincimento dei suoi estensori che quella occidentale, in quanto la sola a poter produrre valori universali, sarebbe una “civiltà superiore”, il che la dice lunga su come assi considerino il problema dell’integrazione con quelle, evidentemente, “inferiori”. Ma quel che si deve soprattutto notare è che non si spende neppure una parola sulla necessità di ristabilire un giusto equilibrio socioeconomico, di restituire le risorse naturali ai popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina che attualmente se le vedono espropriate dalle multinazionali europee e statunitensi (“occidentali”, appunto), e che dalle scelte di quelle Corporations sono state ridotte alla miseria e alla sostanziale schiavitù (a parte le “libertà civili” che, in certi contesti afrasiatici o americo-meridionali, sono pure fictiones iuris che mascherano lo strapotere dei ceti dirigenti e dei governi che ne sono comitati d’affari). “Non è al prezzo della schiavitù dei molti che possono vivere i privilegi di pochi”. Appunto. Ricordiamolo agli africani ridotti a subire continue carestie a causa dei sistemi delle monocolture agricole introdotti e imposti dalle multinazionali a esclusivo profitto di queste ultime; ripetiamolo ai nigeriani costretti a “rubare” dagli oleodotti gestiti da stranieri il petrolio del loro sottosuolo; ribadiamolo ai venezuelani e ai boliviani, che solo da poco sembrano incamminati sulla via della liberazione da un colossale sistema di sfruttamento internazionale organizzato nel nome del mercato e della libertà d’iniziativa.

Mancando anche il minimo accenno, nel “Manifesto” berlusconista, a problematiche di questo tipo, se ne deve inferire che la futura destra italiana sarà nei fatti – in politica interna e soprattutto in politica internazionale - non solo rigorosamente atlantista e costantemente, strettamente legata alla politica statunitense, ma anche favorevole a quelle forme di “esportazione della democrazia” che nella pratica – come hanno dimostrato gli infelici esempi afghano e irakeno – puntano a presidiare le aree geopoliticamente a rischio, a sostenere l’azione egemonica delle multinazionali e a contrastare lo sviluppo dei paesi che in Asia, in Africa e in America latina sembrano cominciar a creare, sia pur ancora in modo incerto e contraddittorio, le premesse per un loro futuro sviluppo che si liberi dalle ipoteche dell’egemonia statunitense, dal ricatto di una finanza internazionale dominata da un dollaro che dopo la denunzia dei patti di Bretton Woods fluttua incontrollabile costituendo una continua minaccia e da una situazione di sfruttamento intensivo e di rigoroso controllo delle fonti energetiche da parte delle multinazionali legate alla superpotenza e che della sua forza militare si fanno costantemente scudo. L’ “europeismo” della futura destra italiana sarà programmaticamente limitato dalla sua subordinazione alla politica statunitense (con aspetti di vero e proprio servilismo: come si è visto e si sta vedendo nelle affaires Cermis e di Calipari): e, dal momento che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione – e legittimamente, dal loro punto di vista di superpotenza – di consentire la crescita, tra Atlantico, Mediterraneo e Oriente asiatico, di un’altra superpotenza che pur essendo loro “amica” e “alleata” farebbe loro obiettivamente e fatalmente concorrenza; e sarebbe quindi non necessariamente sua “nemica” forse, bensì comunque sua “avversaria”. Ne consegue che il futuro partito unico della destra sarà costantemente, coerentemente e sistematicamente antieuropeista, così come sarà avversario dell’ONU e propenderà costantemente invece per le “alleanze internazionali flessibili”, le “coalizioni” funzionali sempre alla volontà e agli interessi dei governi statunitensi.

Ma i firmatari del “Manifesto”, preoccupati della crisi dell’Occidente, ne vedono i segni nella sua incapacità a reagire al fondamentalismo e soprattutto al terrorismo, che non avrebbe nulla a che fare con quel che i paesi occidentali hanno fatto nel resto del mondo negli ultimi cinque secoli ma sarebbe invece un “Male assoluto”, un’aggressione “diretta” – ma evidentemente immotivata – alla nostra civiltà e a tutta l’umanità insieme con essa. Rifuggendo da qualunque analisi storica e politica, gli estensori del “Manifesto” si rifugiano nell’identificazione del Nemico metafisico, quello che secondo Hannah Arendt sarebbe necessario ai totalitarismi.

Ma che cos’è, poi, quest’Occidente che avrebbe “vergogna” delle “sue tradizioni” (quali?), e che viene disinvoltamente identificato con l’Europa senza che si spenda una parola per delimitarne i caratteri e i confini? Le “nostre tradizioni” sono messe in discussione, ci viene detto, da “laicismo” e “progressismo”, che “negano i costumi millenari della nostra storia”. Ma un ragionamento del genere dovrebbe appunto portare, semmai, a una cirtica radicale dell’Occidente inteso come Modernità, nerbo della quale è stato il “processo di laicizzazione”: che non è affatto cominciato da oggi o da ieri sera, è frutto lentamente maturato di un processo dialettico molto lungo che passa attraverso la fondazione delle monarchie superiorem non recognoscentes, la Riforma protestante, l’illuminismo nelle sue varie forme. E’ una contraddizione in termini il ritenere ad esempio che la critica alle tradizioni e l’assalto corrosivo contro di esse siano la sostanza di un recente attacco alla civiltà occidentale: essi fanno parte a pieno titolo di tale civiltà, sono profondamente connaturati ad esso. L’Occidente moderno si è affermato uscendo dalla Cristianità medievale e al tempo stesso fondando l’economia-mondo e imponendo alle altre culture la propria volontà di potenza; ha eliminato nel corso del Settecento quei “corpi intermedi” che gli estensori del documento sembrano rimpiangere, fingendo di non rendersi conto che l’individualismo è maturato proprio a costo del sacrificio di quei corpi intermedi. Il “Manifesto” chiama i valori della Tradizione cattolica a sostegno di quell’Occidente moderno che è nato proprio contro di essa, e ha l’aria di non riuscir a veder l’evidenza, che cioè è stato proprio superando e cancellando le tradizioni e i “millenari costumi” che la civiltà occidentale da una parte ha fondato la filosofia dei “Diritti dell’Uomo”, ma dall’altra li ha immediatamente disattesi fuori d’Europa, dove ha affermato soltanto la propria Volontà di Potenza. Questa contraddizione di fondo tra Diritti dell’Uomo e Volontà di Potenza, ch’è proprio quel che nel mondo musulmano – e non solo – ci viene rimproverato (abbiamo costantemente predicato i diritti, ma praticato la rapina), non viene minimamente rilevata. Eppure è proprio in questa contraddizione che l’Occidente radica la sua storia. Allo stesso modo, il “Manifesto” sembra non rendersi conto che elementi distruttivi di quella che a suo dire è la “civiltà occidentale” sono proprio quei caratteri di edonismo, d’individualismo sfrenato, di consumismo e di arrivismo sociale insofferente di freni etici che sono tratti ad essa caratteristici: e che sono stati appunto protagonisti nel minare quei “valori”, quelle “tradizioni”, quei “millenari costumi” che secondo il documento sarebbero minacciati invece dal fondamentalismo islamico al di fuori e dal laicismo e dal progressismo al di dentro. Come poi si farà a salvare insieme la capra dei “millenari costumi” e i cavoli d’un mondo di yuppies amoralmente scatenati all’assalto del potere, del danaro, del successo, dell’affermazione individualista come appaiono certi giovani e meno giovani leoni berlusconisti, resta un mistero.

Ma il “Manifesto” si cura poco delle contraddizioni. Esso ha uno scopo primario e urgente: vuol legittimare un’idea di “Occidente” come identità tra Stati Uniti ed Europa, che vada al di là delle radici dei primi in una parte della seconda (la tradizione inglese; e, già in minor misura, anche olandese e francese) e che unisca gli uni e l’altra in quella che qualche conservatore all’antica (non neocons, dunque) ha a suo tempo definito magna Europa: mentre i motivi di differenza, di attrito, di rivalità – a cominciare dalla “dichiarazione Monroe” del 1823, espressione di un’antieuropeismo assoluto e mai disatteso – vengono nascosti e fatti surrettiziamente scomparire.

Sappiamo tutti che la realtà è complessa. E che, per comprendere ogni realtà complessa, esiste sempre una risposta semplice. Ch’è anche regolarmente quella sbagliata. Appunto: la “semplicità” del documento della nuova destra berlusconista non risolve alcun problema. Si limita a ignorarli e a negarli.

Il testo parla dell’Occidente come fonte di principi universali: ma non ci dice che cosa esso sia.

Ebbene: Oswald Spengler, Arnold Toynbee e il nostro Santo Mazzarino, che nella prima metà del XX secolo hanno tentato di definire l’Occidente e la sua storia – sulla scia di quella ch’era stata una celebre definizione di Hegel, “l’Occidente come grande sera della giornata dello Spirito” – potevano ancor avvertire tra la dimensione occidentale e quella europea il senso e la coscienza di un’assoluta identità.

Identificato a lungo tout court con l’Europa, l’Occidente è d’altrondeessenzialmente il logos, la ragione, la volontà di avere e di fare: Emanuele Severino ha sostenuto che la sua anima profonda è la techne. In tal senso l’Occidente è radicato senza dubbio nel mondo greco, ma si persenta altresì come Modernità: come impero del fare, del costruire, del dominare, del realizzare, del guadagnare, dell’avere. I suoi Padri Fondatori sono il mitico Prometeo e lo storico-leggendario dottor Faust.. E ciò non toglie che avesse anche molte ragioni Carl Schmitt quando, in polemica con Ernst Jünger, vedeva nell’Occidente il Leviatano dominatore di un sistema composto e integrato di terraferma e di oceani, contrapposto all’Oriente-Behemoth, terra continentale. In tal senso, autentiche forze occidentali nell’età moderna erano i due grandi imperi oceanici contrapposti, il Commonwealth britannico e la “Monarchia di Spagna”. Ad essi si sarebbero poi aggiunte la Civiltà dei Lumi, la Rivoluzione francese e l’insorgere della questione sociale, e tutto ciò sarebbe vissuto in simbiosi con il colonialismo e la decolonizzazione.

Ma, ritenendosi realizzatore del migliore dei mondi possibili e scopritore-inventore della formula costitutiva di un inscindibile insieme di libertà, verità, giustizia, ragione, tolleranza e ricerca della felicità, l’Occidente moderno non è praticamente disposto a tollerare in alcun modo “l’Altro da Sé”; esso non può accettare alcuna forma di civiltà che sia diversa dalla sua ma di pari dignità rispetto ad essa, a ritenere possibile che possano esistere alternative (e, meno ancora, ch’esso possa essere in torto). Gli apologeti dell’Occidente, confondendo tra relativismo etico e relativismo antropologico, mostrano d’ignorare la grande lezione lévistraussiana secondo la quale ciascuna civiltà va giudicata nel suo complesso e non c’è nulla di più improponibile di isolarne i singoli componenti per esaminarli alla luce di principii che non sono i suoi.

Ne consegue che l’Occidente moderno è affetto dall’infezione totalitaria espressa dal suo “pensiero unico” che lo conduce a concepire un unico modello di sviluppo per tutta l’umanità. Esso è, inoltre, vittima d’una schizofrenia irremissibile tra la tolleranza e i diritti dell’uomo, valori che ritiene fondanti della sua identità, venera a parole e sostiene di difendere, e il nucleo duro e profondo della sua realtà fondata sull’avere e sul fare anziché sull’essere: la Volontà di Potenza. La neoideologia dell’”esportazione della democrazia” proposta dal gruppo dei neoconservative ispiratori almeno in parte della della politica del presidente George W. Bush jr., il gruppo dei Wolfowitz, dei Perle, del Kagan, si fonda sulla vertigine di questa persuasione di eccellenza e di superiorità, sulla convinzione di un “destino manifesto” in grado e in diritto di estendere a tutto il mondo quel “cortile di casa” che, nella tesi isolazionista di Monroe formulata nel 1823, coincideva con l’intero continente americano. Che poi la sconfinata volontà di potenza, questa ineusaribile ricerca del benessere, della sicurezza, della felicità, finisca in realtà col render chi cada in questo vortice eternamente insicuro, infelice e inappagato, è un altro discorso: ma nasce proprio da qui il rischio della “guerra infinita” nella quale i cantori del nuovo Occidente rischiano di trascinarci.

Ma, sul piano delle definizioni, siamo dinanzi a un disperante equivoco. L’Occidente sembra oggi una “cosa” reale, un termine chiaro che indica un soggetto preciso: quella “civiltà occidentale che, secondo Samuel P.Huntington, corre il rischio di venire assalita da altre civiltà, compatte e ben delineate come la sua ma ad essa ostili. Peccato che si tratti soltanto, al contrario, di nomina nuda. “Occidente” non è una cosa, una realtà geostorica o geoculturale: è una parola equivoca, che ha subito nel tempo una serie di slittamenti semantici e il cui attuale significato è tanto recente quanto equivocamente e perversamente diverso da come lo intendono molti europei convinti che esso ed Europa siano quasi sinonimi.

Il che, intendiamoci, è peraltro etimologicamente vero. Giovanni Semerano ha dimostrato che la parola “Europa” nasce da una radica accadica passata poi nel greco erebos e indicante, appunto, il luogo dell’orizzonte nel quale il sole tramonta, laddove la parola “Asia”, al contrario, deriva da un altro termine accadico indicante l’alba. Se ci si potesse limitare ai semplici valori etimologici, l’identità tra Europa e Occidente (e tra Asia e Oriente) sarebbe perfetta. Ma questo non è, purtroppo, un lusso che ci si possa permettere quando si vuol evitare di cadere in trappole grossolane.

Al di là dell’antica contrapposizione tra Asia ed Europa, celebrata in un passo immortale de I Persiani di Eschilo, l’atrazione e la fusione dei valori “orientali” (asiatici) e di quelli “occidentali” (ellenici e poi romani) è passata attraverso le grande sintesi ellenistica, avviata da Alessandro Magno e perfezionata da Cesare – erede del grande pensiero maturato attraverso il “circolo degli Scipioni” – e dalla cristianizzazione dell’impero. I termini “Oriente” e “Occidente”, nel mondo tardoantico e medievale, sono stati certo utilizzati: ma nella prospettiva del rapporto tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’impero romano uscito dalla spartizione imposta dal testamento di Teodosio, alla fine del IV secolo. Ai primi del XII secolo un cronista della prima crociata, Fulcherio di Chartres, celebrando il fatto che “franchi” e “italici” dopo la conquista della Terrasanta si fossero impiantati in Palestina, sosteneva che di “occidentali” essi si erano fatti “orientali”. Ma non si andava neppure con ciò al di là della distinzione d’origine teodosiana.

Nonostante quanto oggi si crede, l’uso corrente d’identificare la “nostra” con la “civiltà occidentale” è recente. I veri fondatori del concetto di Occidente moderno, e di Occidente come Modernità, sono il Montesquieu delle Lettres persanes e il Goethe del West-östlicher Diwan. Il nascere dell’orientalismo come corrente estetico-letteraria, certo, postulava una forte distinzione Oriente-Occidente o magli tra l’ Occidente e gli Orienti; tuttavia il termine “Occidente” restava sinonimo di Europa; e ancora di essa si parlava ai primi del XX secolo. Oswald Spengler, parlando di un Tramonto dell’Occidente, pensava soprattutto all’Europa. Anche gli storici che hanno usato con sicurezza i termini di “Occidente” e di “civiltà occidentale”, come Christofer Dawson e Elijahu Ashtor, non sono andati al di là d’una distinzione che implica diversità ma non appare come contrapposizione. Si potrebbe comunque, tra Cinque e Novecento, seguire l’itinerario di un costante collegamento tra l’idea di sviluppo, di dominio tecnologico, di razionalità-ragione, di progresso, all’Occidente inteso come appunto l’Europa, in crescente contrasto con un “Oriente” (o con più “Orienti”) luogo (luoghi) della tradizione, dell’immobilità, del sogno, della magia, del favoloso-irrazionale. La civiltà europea sentita da Hegel come “la grande sera” del giorno della civiltà umana è forse il punto d’arrivo del maturare di questa concezione.

Il mutamento importante che riguarda i nostri giorni ha radice però nella pubblicistica statunitense. Come dimostra Romolo Gobbi nel suo America contro Europa (MB Publishing) è nel XIX secolo che scrittori e politici statunitensi guardano al loro continente e agli States come a quell’Occidente di libertà contrapposto al quale c’è un “Oriente” che gli europei non si aspetterebbero: l’Europa, appunto (del resto ineccepibilmente e obiettivamente a est dell’America), terra dell’autoritarismo, della tradizione, degli infiniti ceppi teologici e giuridici che imbrigliano la libertà.

Quest’identità statunitense di Occidente e libertà è tornata, dopo Yalta, a sostanziare di sé la nuova dicotomia del potere sull’ecumène, distinta ormai fra un “Mondo libero” e un “Mondo socialista”: due mondi che appunto s’incontravano e confinavano nella Cortina di Ferro che tagliava in due l’Europa; e che convergevano nel far sparire il concetto stesso di Europa. La fine del tempo dell’equilibrio tra le due superpotenze (guerra fredda sì, ma anche spartizione e sotto molti aspetti complicità) ha condotto con chiarezza a una nuova situazione, definita appunto da Samuel P. Huntington: l’Occidente come cultura unitaria e compatta, ma caratterizzata dalla leadership della volontà politica e dei valori elaborati dagli Stati Uniti, cui la “vecchia Europa” è chiamata in molti modi a uniformarsi e rimproverata di non uniformarsi abbastanza. Dinanzi a questo nuovo “Occidente”, l’Europa – conforme del resto anche alla realtà geografica del globo – dovrebbe forse rintracciare la sua vocazione di civiltà nata e cresciuta in stretto contatto con il Mediterraneo, l’Asia e l’Africa, e alla luce di ciò rivendicare un ruolo di cerniera con gli “Orienti”. Essere occidentali ed essere europei non è obiettivamente più sinonimo, per quanto possa esserlo stato. E le differenze passano proprio attraverso il rivendicare, da parte degli Stati Uniti, la leadership sull’ Occidente come “Mondo libero” mentre però negli stessi States, oltre alla “minaccia” latinoamericana – che ha spinto proprio nel maggio del 2006 il governo statunitense a dichiarare per la prima volta l’inglese “lingua nazionale”, minacciata dallo spagnolo – si va facendo sempre più strada una dimensione asioamericana che trionfa anche in certi settori del ceto dirigente e degli ambienti tecnologici avanzati (con l’informatica e la nanotecnologia in mano a statunitensi d’origine indiana, cinese, giapponese); e attraverso il progressivo volgersi dell’asse europeo al mediterraneo e all’Oriente “slavo”, turco e perfino eurasiatico. Ungheresi, polacchi, rumeni, turchi e perfino ucraini e bielorussi (forse alcuni russi stessi) non hanno difficoltà a definirsi “europei” ma, nonostante il loro filoamericanismo in politica, non si definirebbero mai “occidentali”; e ciò vale anche per la Mitteleuropa.

Ma vi sono poi caratteri davvero divergenti tra la “giovane” America e la “vecchia” Europa? Le radici sono senza dubbio comuni, molti tratti storici anche: ma è appunto la storia, sancendo la “gioventù” della prima e la “vecchiaia” della seconda, che segna la differenza fondamentale. Nonostante gli States siano passati attraverso due spaventose guerre, quella d’Indipendenza e quella di Successione, essi sono riusciti in qualche modo a costituirsi in nazione – magari col sacrificio dei “diversi”, i native Americans, e con le sofferenze dei neri, dei cinesi e delle altre minoranze – mantenendo fede a una dimensione fondamentale, quella della libertà individuale intesa come affermazione assoluta di un individualismo storicamente suscettibile di affermarsi anche a spese delle libertà altrui. Tale individualismo, per quanto sia conosciuto come valore filosofico, è sostanzialmente estraneo alla storia dell’Europa: che non è “nazione” perchè resterà sempre “arcipelago”, è stata lacerata tra Cinque e Novecento da continue guerre fratricide, ha vissuto e sofferto aspramente le vicissitudini della questione sociale e ha per questo compreso tardi ma appieno il valore della socialità e del rifiuto della guerra d’aggressione come soluzione dei problemi internazionali. In Europa i diritti di quanti sono socialmente più fragili sono riconosciuti come tali, non derubricati a “bisogni” ai quali lo stato non è tenuto a rispondere e i ceti privilegiati possono, se vogliono, rispondere con una volontaria “beneficenza” deducibile dalle imposte. Gli Stati Uniti dichiarano che il loro interesse nazionale e il loro tenore di vita non sono negoziabili e sono pronti a difenderli con le armi; l’Europa, che non rinunzia al primato della sua dimensione sociale, si propone come cerniera tra il ricco e opulento Occidente e il resto del mondo, desideroso di giustizia.

Per questo oggi c’è bisogno d’Europa nel mondo. Per questo bisogna riprendere il discorso della Costituzione, che ha subìto una battuta d’arresto dopo i voti negativi francese e olandese, e puntare verso la costituzione di una compagine federale o confederale che sia, ma dalla quale emergano una politica estera, una diplomazia, una politica di difesa unitarie. Ciò costerà per forza ai singoli stati nazionali un qualche “cedimento di sovranità”; ciò comporterà forse l’attraversamento di un periodo durante il quale l’Europa marcerà “a due velocità”: e alcuni stati accederanno prima di altri a passi ulteriori sulla via dell’unità, e altri si aggregheranno. L’Eurolandia era forse necessaria, ma insufficiente; e, se continuirà a restar da sola, sarà deleteria. Averla costruita per prima, in assenza di un edificio istituzionale politico, diplomatico, militare, ha equivalso a voler edificare una casa partendo dal tetto. Risentiremo per lunghissimo tempo di quest’errore, come del fatto che gli Stati Uniti non cesseranno mai di mettere ogni sorta di bastone tra le ruote della nostra compagine e di far di tutto per adottare, nei confronti dei singoli stati europei, l’antica tattica del divide et impera. D’altronde, finché l’Europa resterà irta di basi militari statunitensi, i discorsi unitari resteranno accademia. Persuadiamoci di ciò e continuiamo a lottare: perché una vera unione europea è una causa disperata, ma la sua attuazione è indispensabile. E impariamo che chi afferma “Noi siamo impegnati a riaffermare il valore della civiltà occidentale...contrastando, in nome di una comune tradizione storica e culturale, ogni tentativo di costruire un’Europa alternativa o contrapposta agli Stati Uniti” è un irreversibile e irriconciliabile nemico.

Su tutti questi temi inviterei gli Amici di “Identità Europea” a una franca e serena riflessione