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Soffia il vento autonomista: intervista a Massimo Fini

di Carlo Passra - 25/05/2006

 
Massimo Fini, Podgorica dice addio alla Serbia, il referendum ha sancito l’indipendenza del Montenegro. È un bel giorno per l’autonomismo?
«È certamente positivo se ragioniamo in termini teorici, se pensiamo al recupero delle identità locali come risposta forte a un mondo globalizzato».
Tanto più che questo accade, pacificamente, in un’area problematica e inquieta come quella balcanica.
«La consultazione è stata tranquilla perché la Serbia è ormai ridotta ai minimi termini».
C’è però un dato che inquieta. Un Montenegro indipendente rischia di diventare una sorta di “Stato canaglia”.
«Lo smembramento dei Balcani senza una nazione forte di riferimento fa sì che in quella regione nascano le organizzazioni criminali più pericolose. Ma questo è un altro discorso».
Affrontiamolo pure. Lo stesso primo ministro montenegrino Djukanovic, “padre” dell’indipendenza, è stato indagato dalla Dda di Bari nel 2002 per associazione mafiosa finalizzata al traffico di sigarette di contrabbando, in collegamento con la criminalità organizzata pugliese e campana... Un brutto biglietto da visita, non trovi?
«Lasciamo perdere la Jugoslavia di Tito, che è troppo lontana nel tempo; ma anche solo quella di Milosevic rappresentava un fattore di stabilità nei Balcani e impediva che queste organizzazioni criminali potessero fare il bello e il cattivo tempo. Ora invece la regione è frantumata, è chiaro che in Macedonia, Kosovo, Bosnia e anche in Montenegro le varie mafie non hanno più alcun reale freno. Per non parlare dell’Albania!».
Insomma, temi che un Montenegro senza Belgrado sia ancor meno controllabile?
«Senz’altro. Queste organizzazioni malavitose sono composte in larga misura da albanesi e musulmani, non a caso assai favorevoli a ipotesi autonomistiche come quella che ha prevalso a Podgorica. Sia chiaro, questa è la conseguenza pratica del solo singolo caso montenegrino. Abbiamo però premesso la questione teorica, l’affermarsi dei valori identitari, che a mio giudizio è complessivamente molto più importante».
Vengono ancora una volta chiamate in causa le scelte occidentali - e italiane in particolari - nella zona. La guerra alla Serbia ha determinato nuovi equilibri, che difficilmente possono essere considerati migliori di quelli precedenti.
«Siamo andati nei Balcani favorendo di fatto la nascita di una “Grande Albania” criminale».
L’errore fu fatto dall’allora governo D’Alema. A tuo giudizio, dopo quello sbaglio madornale, la diplomazia e la politica italiane avrebbero potuto mettere una qualche pezza? Ossia muoversi in altra maniera per evitare questa evoluzione assai pericolosa per i nostri interessi e il nostro Paese?
«Credo proprio di no, una volta compiuto il passo sbagliato, appoggiando la componente musulmana e albanese nei Balcani, penso non ci fosse più nulla da fare. Avremmo dovuto allora e dovremmo forse oggi rafforzare i nostri rapporti con la Serbia, ma teniamo anche conto di come ormai i serbi non sono più affatto in grado di controllare la situazione, se non all’interno del proprio Paese».
Di certo la scelta del Montenegro è una ulteriore “punizione” per Belgrado, che perde anche il proprio sbocco al mare.
«Quello che è accaduto in questi giorni rappresenta quasi la definitiva fine della nazione serba. A me spiace, sarà che ho amato la grande squadra di calcio jugoslava: Savicevic, Stojkovic, Prosinecki, Bazdarevic, Mijatovic... Al di là degli scherzi, Belgrado ormai non conta più nulla, e questo è rischioso».
D’altra parte l’unione tra Serbia e Montenegro era alquanto posticcia. La chiamavano Solania, dal nome di Javier Solana, l’allora “ministro degli Esteri” europeo che impose nel 2002 la nascita di questo Stato federale.
«Sì, era un’unione forzata. Una volta dissolta la Jugoslavia, era giusto che tutti i Paesi federati ritrovassero la propria indipendenza. Rimane però totalmente aperta la questione bosniaca...».
In che senso?
«Una Bosnia indipendente a guida musulmana ma ricca di altre componenti a mio giudizio non riuscirà a reggere. Rimarrà stabile fin quando saranno presenti le truppe straniere; non appena se ne andranno scoppierà però un casino infernale, perché quello è uno Stato che non ha alcun senso, alcuna storia, non è mai esistito, a differenza di Montenegro, Croazia e Slovenia. La Bosnia è una forzatura che oggi andrebbe eliminata, magari consentendo il ricongiungimento dei serbi bosniaci con la madrepatria, il che renderebbe la situazione un poco più equilibrata».
È una prospettiva che difficilmente si realizzerà.
«Sì, perché la comunità internazionale ha voluto la Bosnia per punire la Serbia. Ma non è uno Stato, non ha alcuna ragion d’essere, riunisce tre componenti che non possono convivere in nessun modo».
Come dovrebbe agire oggi l’Europa al cospetto del mosaico balcanico? Forse proseguire con l’opera di assimilazione, già iniziata con la Slovenia, facendo entrare nell’Unione anche Croazia, Montenegro e via via tutti gli altri Stati?
«Assolutamente no, credo che l’Europa non debba inglobare Stati in continuazione perché così facendo finirà coll’essere totalmente paralizzata. Era meglio una Ue più ridotta, compatta, politicamente coesa e agile, quindi efficace. Oggi sembra un gigante immobile, coi piedi d’argilla. Occorreva invece puntare sul vecchio asse franco-tedesco, affiancandolo all’Italia e, adesso, aggiungendo anche la Spagna».
Insomma, più l’Europa si allarga, più diventa debole?
«Non c’è dubbio. La prospettiva di un’Ue forte s’allontana, perché troppi interessi in contrasto, troppi Paesi, troppe storie diverse impediscono ogni decisione».
Tornando al discorso puramente autonomista, ma rimanendo in Europa: il discusso Zapatero proprio in queste settimane sta affrontando il “dossier” relativo ai nuovi statuti delle regioni (o nazioni) spagnole, Catalogna e Paesi baschi in primis, ma non solo. Il premier socialista si trova tra due fuochi: da una parte il partito popolare di centrodestra che lo accusa di mettere l’unità spagnola a rischio; dall’altro la sinistra indipendentista, che avrebbe voluto un’ulteriore accelerazione del processo di autonomia.
«Zapatero ha avuto molto coraggio nell’affrontare questa tematica, pensa al casino che si è fatto qui da noi per molto meno... Lui in Italia è assai criticato dalla destra perché è un socialista, dalla sinistra perché fa quanto la nostra Unione non è invece capace di fare. Come ho già detto, mi sembra un personaggio estremamente interessante e anche questa iniziativa mi sembra assai positiva: non mette a rischio l’unità spagnola ma nello stesso tempo dà risposte ai sentimenti e agli interessi localistici, che sono legittimi e hanno diritto di esprimersi. Mi pare che la Spagna, rafforzando le proprie identità locali, sarà ancora più forte, non più debole, anche perché perderà molta conflittualità interna».
Tu dici che è un’iniziativa coraggiosa ma non rischiosa. In effetti appare remota l’ipotesi, pure formulata dal Pp, di deflagrazione nazionale: quello è uno Stato dinamico, forte, che fa parte dell’Ue, certo non rischia la secessione.
«Nessuna delle comunità autonome spagnole ha interesse ad andarsene per conto suo. La Spagna è dinamica, sta scalando posizioni in Europa e credo che avrà un importante ruolo nel futuro: perché abbandonarla? Ci si stacca da un posto inguardabile come l’Italia, non da una realtà come quella».
Tanto più che (ed è quanto molti non vogliono proprio capire) proprio l’autonomia va a soddisfare le ansie di libertà e di identità, altrimenti attirate da ipotesi secessioniste...
«Esatto, l’autonomismo “innocuizza”, per così dire. Lo si vede proprio in questo contesto, analizzando gli sviluppi recenti della questione più spinosa, quella basca: cedendo fette ulteriori di libertà si supera l’indipendentismo, anche quello violento».
Un illustre costituzionalista spagnolo, interrogato dal Sole 24 Ore, ha spiegato: «Zapatero vuol passare alla storia come il premier che ha superato i due scogli principali: il modello territoriale e la questione del terrorismo».
«Zapatero è certo mosso da ambizioni politiche che hanno però una loro ragion d’essere. Si comporta come qualsiasi buon capo di Stato, non sta certo lì a fare flanella. Non tutte le sue scelte sono condivisibili, è ovvio: ma noi paghiamo chi ci governa per prendere decisioni, non per tirare a campare pur di tutelare la propria poltrona. Si assiste in questi giorni a una storia infinita di manfrine all’interno dell’Ulivo e della Cdl... Sprechi di energie e tempo inauditi, mentre non si affonda mai il bisturi sui problemi reali del Paese».
Siamo passati all’Italia e il riferimento è inevitabile. Zapatero fa, cambia, decide, mentre Prodi già pasticcia, e siamo solo all’inizio. Si schiera contro la devolution senza peraltro garantire la continuazione del processo riformista necessario per svecchiare le nostre istituzioni. Il paragone è sconfortante.
«Purtroppo il nuovo governo pare già impastoiato nelle solite questioni all’italiana e sta suscitando malumori anche nel cosiddetto “popolo della sinistra”. Ha tutta l’aria di essere un esecutivo conservatore e immobilista, nella peggiore tradizione dell’ultima sinistra. È anche vero che l’Italia è ovunque conciata in modo pessimo, ha una classe dirigente di bassissimo livello, sia a destra che a sinistra, quindi non c’era da aspettarsi granché. Non so quanti anni dovranno passare prima che si possa avere uno Zapatero e una Thatcher».
Tu parli di una classe dirigente inadeguata, sorprende che questo discorso riguardi anche la sinistra, che ha una tradizione importante in questo senso (basti pensare alle Frattocchie) e non ha subito l’azzeramento di Tangentopoli.
«Già, ma il mondo del Pci - dove uno come Giorgio Napolitano faceva giustamente da suppellettile - scompare simbolicamente col plateale bacio di Achille Occhetto alla moglie. In quel momento si capì come la diversità comunista fosse finita, nel male, ma anche nel bene».
Eppure, come abbiamo detto più volte, la intellettualità odierna è in gran parte schierata a sinistra, benché il suo livello sia assai più scarso rispetto al passato.
«È vero, ma la funzione propulsiva della sinistra, per usare una frase di Enrico Berlinguer, è terminata da tempo. Gli intellettuali sono rimasti schierati da quella parte solo perché era più comodo, il Pci aveva mostrato grande attenzione per la cultura e creato “strutture” adeguate, mentre stare a destra era molto meno remunerativo. Oggi ci rimangono intellettuali senza idee a sinistra, e il deserto nel centrodestra. Dove solo la Lega Nord si salva, seppur in modo un po’ rozzo per la scelta iniziale di Bossi - che io ho condiviso - di cacciare a pedate gli intellettuali, che alla lunga servono ma sono infidi. Gli altri partiti della Cdl, Forza Italia e An (l’Udc non so cosa sia) non hanno nulla da dire».
Tornando al governo Prodi, pare oggi intento solamente ad annunciare la cancellazione delle tante riforme operate dal centrodestra. Possibile che fossero tutte sbagliate?
«Impossibile, appunto, non può essere che il centrodestra abbia fatto tutto male, e allo stesso modo che la sinistra sia solo pessima. Subiamo ancora questo perenne clima di scontro, ma farebbe assai male l’Unione a cancellare quanto fatto dal governo Berlusconi, tranne forse le devastazioni operate sul tema della giustizia».
E alla legge Biagi? La Bossi-Fini? La riforma Moratti della scuola?
«Una riforma della scuola deve poter maturare al di là dei cambi di governo. Presa una decisione, magari con una buona maggioranza (perchè ci dovrebbe essere un accordo ampio su un tema così delicato e decisivo per il futuro del Paese), la si deve confermare per almeno venti o trent’anni, altrimenti si distrugge la macchina. Pensiamo alla riforma Gentile, ha resistito (bene) addirittura a un cambio di regime, mentre qui ogni governicchio vuole dire la sua... L’impressione è che la scuola sia considerata una clientela come le altre, da far gestire al politico di turno, e qui non mi riferisco alla Moratti che è persona perbene».
E che fare della Bossi-Fini?
«Posso dire poco: è probabilmente una buona legge, ma si trova di fronte a una realtà che la supera. La pressione dall’esterno diventerà sempre più pressante, è un problema che sfugge le capacità di un governo nazionale».
Per finire: come si diceva, tra le riforme che la sinistra vuole cancellare c’è anche la devolution. Il vento autonomista, che sembra continuare a spirare in tutta Europa, si arresterà solo nel nostro Paese?
«Spero di no, di sicuro il vento autonomista sarà sempre più forte man mano che si estende la globalizzazione, essendo questo l’unico modo di salvare quello che resta delle nostre identità. Io riprenderei in esame in modo più sereno la proposta leghista delle tre macroregioni, ma non sarà certamente questo governo ad ascoltare il mio consiglio. Di una cosa però sono certo: quello dell’autonomia sarà uno dei temi forti dei decenni a venire, e chissà che finalmente anche l’Italia smetterà di vivacchiare sulle vecchie glorie del Risorgimento e della Resistenza e prenderà in considerazione la nuova realtà».