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Il caso Battisti è anche la cartina al tornasole della faziosità dei nostri intellettuali

di Francesco Lamendola - 04/01/2011

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Cesare Battisti affrontò virilmente la morte per capestro in quel 16 luglio 1916: lui, geografo, giornalista, dirigente socialista ed ex deputato al Parlamento di Vienna.
L’impiccagione era la pena riservata, nell’Impero Austro-Ungarico, ai traditori della Patria: e poiché, per il trentino Cesare Battisti, la Patria non era l’Italia, ma l’Austria, almeno stando al suo passaporto e allo status giuridico della sua terra, egli era, tecnicamente parlando, un traditore meritevole di subire una morte infamante.
Si era all’epoca dei nazionalismi esasperati e il suo sacrificio, affrontato nella piena consapevolezza dei rischi cui andava incontro vestendo l’uniforme grigioverde dell’esercito dei Savoia, invece di quella azzurra degli Asburgo, fece di lui - insieme agli istriani Nazario Sauro e Fabio Filzi - il simbolo più eroico dell’irredentismo italiano.
Almeno al di qua delle Alpi. Perché al di là, la musica è ben diversa, anche a distanza di così tanto tempo: quasi novantacinque anni, poco meno di un secolo. Anche al di qua, a dire il vero, qualcosa sta cambiando: mano a mano che l’idea dell’Italia va passando di moda, anche fra gli stessi Italiani - specialmente al Nord - queste icone del patriottismo risorgimentale stanno perdendo assai del loro smalto, e ad un ritmo che a stento di sarebbe potuto immaginare.
Non parliamo, poi, di personaggi più controversi, come il triestino Guglielmo Oberdan  (il cui vero nome era Oberdank,essendo di madre slovena e di padre naturale italiano), impiccato a Trieste il 20 dicembre 1882, a soli ventiquattro anni, per aver avuto l’intenzione di compiere un attentato contro la vita dell’imperatore Francesco Giuseppe, in visita alla sua città per celebrare i 500 anni di “dedizione” all’Austria.
In Italia, a Oberdan è stato dedicato un mausoleo, nel luogo della sua esecuzione, oltre a numerose vie, piazze e istituti scolastici; però in Austria nessuno gli riconosce la statura di eroe, ma solo quella di aspirante terrorista. La Slovenia, poi, lo ignora: troppo imbarazzante questo suo figlio che va a morire per l’italianità di Trieste, che il nazionalismo sloveno ha sempre considerato slovena (le rivendicazioni di Tito arrivavano al Torre, se non al Tagliamento) e che, non lo si dimentichi, nel 1945 visse l’incubo dell’occupazione militare jugoslava, nel corso della quale scomparvero nelle foibe centinaia e forse migliaia di Italiani di Trieste e della Venezia Giulia.
Certo, l’argomento “terrorismo” è imbarazzante anche per noi Italiani, o almeno dovrebbe esserlo, se è vero - come è vero - che anche con le bombe di Felice Orsini è stata fatta l’unità d’Italia, della quale ricorre ora il centocinquantesimo anniversario (17 marzo 1861).
È imbarazzane perché ci mette più vicini alla tradizione balcanica di un Gavrilo Princip, che a Sarajevo assassinò l’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, affrettando lo scoppio della prima guerra mondiale, che non a quella degli Stati dell’Europa centro-occidentale; o dei terroristi ustascia che il 9 ottobre 1934 assassinarono il re di Jugoslavia, Alessandro Karageorgevic, insieme al ministro degli Esteri francese, Louis Barthou.
Ma è imbarazzante anche per un altro motivo, e cioè perché ci ricorda la continuità che esiste fra la stagione più brutta della nostra vita nazionale, quella degli “anni di piombo” (press’a poco fra la bomba di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, e la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980), e quella che, a giudizio della cultura progressista, è stata la stagione più bella, ossia la Resistenza del 1943-45.
Il che ci riporta a un altro Cesare Battisti, non l’idealista irredentista, ma il terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo - minuscolo gruppo che si rese responsabile, verso la fine degli anni ‘70, di alcune rapine ed omicidi - tornato bruscamente agli onori delle cronache per via della mancata estradizione dal Brasile, annunciata dal presidente uscente Lula il 31 dicembre 2010.
L’imbarazzo, poi, dovrebbe crescere ancora, se si avesse l’onestà intellettuale di riconoscere che un filo rosso lega taluni aspetti del Risorgimento a una pratica di lotta comune nella Resistenza (basti pensare alle modalità dell’attentato di Via Rasella, che diede occasione alla strage nazista delle Fosse Ardeatine; o, per fare un paragone ancora più calzante, all’assassinio del filosofo Giovanni Gentile, cui, sia detto per inciso, Mussolini in persona ordinò di non rispondere con le rappresaglie) e, poi, al terrorismo - di destra e di sinistra - degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
Così, se il nome di Cesare Battisti (il primo) è stato un simbolo dell’unione nazionale, ora quello stesso nome è diventato il simbolo della nostra disunione; e, al tempo stesso, la cartina al tornasole della faziosità e disonestà intellettuale di tanti cosiddetti intellettuali.
Gli intellettuali di sinistra difendono Cesare Battisti (il secondo) e lo dicono vittima di una montatura giudiziaria; quelli di destra lo attaccano, e lo giudicano un assassino e un vigliacco, che non vuole assumersi le proprie responsabilità e si fa scudo degli ambienti politici radical-chic di mezzo mondo - Francia in primo luogo - per rifiutarsi di pagare i propri debiti con le vittime delle sue azioni terroristiche.
Gli uni e gli altri, in linea di massima, concordano nel mostrarsi indignati verso la decisione del governo brasiliano di non concedere l’estradizione per Battisti, condannato all’ergastolo dalla giustizia italiana per quattro omicidi; ma per ragioni diverse: gli uni perché Berlusconi, con la Repubblica del bunga-bunga, ha ridotto al minimo la nostra credibilità e autorevolezza internazionali; gli altri perché Lula è di sinistra e il suo successore, la signora Dilma Rousseff, addirittura una ex terrorista: logico,     quindi, che solidarizzino con il terrorista pluriomicida italiano di sinistra e che lo difendano, garantendogli l’impunità per i suoi delitti.
Il solito referendum pro o contro Berlusconi, insomma; tanto per cambiare, qualunque dibattito politico, in Italia, finisce sempre in questo angolo morto, dove nessuno adopera più la testa, né si sforza minimamente di farlo, ma tutti seguono solo il richiamo dei visceri: quando non anche, duole dirlo, ma è la cruda verità, della convenienza personale.
Ma a nessuno, o quasi, importa sapere quale sia la verità: non la verità ideologica, non la propria verità di parte, visceralmente di destra o di sinistra; a nessuno, o quasi, importa di sapere come siano andate in realtà le cose, nell’ormai lontano 1978-79 (chi è nato allora, oggi ha già la non verdissima età di trentadue anni): se, cioè, Battisti sia colpevole o innocente.
Si disserta di tutto e di più: sullo scandalo della “dottrina Mitterrand” e sulla letteratura poliziesca (Battisti, in Francia, è stato un apprezzato scrittore di “gialli”, e qualche ineffabile giornalista si è affrettato a definirlo «il giallista che ammazza davvero»), sulle motivazioni del presidente Lula e perfino sull’aspetto fisico di Battisti (come già si fece per Sofri; e un altro giornalista non ha trovato di meglio da scrivere che egli, anche in manette e scortato dai poliziotti, ride sempre, di un odioso riso strafottente).
Qualcuno ha parlato di malafede ideologica: quella che spinge a vedere ogni cosa con un occhio solo, quello della propria parte ideologica; quella che cancella i dati di fatto sgradevoli, li rimuove dalla coscienza, per lasciarvi solo ciò di cui si pensa di poter andare fieri: una sorta di autocensura interessata che, venendo da intellettuali, è doppiamente vergognosa e mette impietosamente a nudo, ancora una volta, la meschinità e il deserto morale di coloro che, dalle pagine dei giornali e dei telegiornali, pretendono di farci quotidianamente la lezione, su tutto e su tutti.
Dunque, un po’ di chiarezza.
Hanno ragione gli intellettuali di sinistra quando dicono che la mancata estradizione, prima da parte della Francia, poi del Brasile, è la diretta conseguenza delle anomalie della giustizia italiana degli “anni di piombo”, con la sua legislazione d’emergenza che non è mai rientrata nella normalità. Per tacere su fattacci più recenti, come quelli relativi al G8 del 2001 tenutosi a Genova, agli eccessi della polizia e alle successive, discutibili vicende processuali.
E hanno ragione anche quando dicono che mai, come sotto quest’ultimo governo Berlusconi, l’immagine dell’Italia è scesa in basso nella considerazione internazionale; questo è un fatto che solo gli ineffabili ministri e parlamentari del suo governo e della sua maggioranza possono negare, ma in perfetta malafede: perché basta leggere un qualunque giornale straniero, scelto a caso fra quelli più seri, per convincersene pienamente.
Hanno ragione, d’altra parte, anche gli intellettuali di destra, allorché sostengono che intorno a Battisti si è creata una rete di simpatie della “gauche” internazionale, animata da personaggi intramontabili come Bernard Henry-Lévy e che arriva fino al Brasile di Lula e Rousseff; una vera e propria lobby di radicali al caviale, i quali hanno fatto del latitante italiano una bandiera, indipendentemente dalla sua persona e dalla sua ipotetica innocenza.
E avrebbero pure ragione di aggiungere (ma non lo fanno) che, in Brasile, tanto la polizia quanto la magistratura non sono certo tali da poter dare lezioni di civiltà e correttezza a quelle del nostro Paese: e questo, chi scrive, lo può dire per esperienza personale. Il minimo che si possa dire è che, nel Paese dove si ammazzano i «ninos de rua» come si fa in Inghilterra per la caccia alla volpe, tutte queste preoccupazioni per l’incolumità di Battisti appaiono un tantino sopra le righe.
Dove sbagliano, allora, gli uni e gli altri?
Nel non avere l’onestà intellettuale di ammettere che, le loro, solo soltanto delle verità parziali; che sono delle mezze verità, e non delle verità intere.
Sbagliano, inoltre, nel tenere desto, con argomenti retorici e con toni esagitati, un furore ideologico che è solo la maschera di una fondamentale mancanza di senso civico, di una faziosità disposta a calpestare mille volte non solo la verità, ma il principio del bene comune, pur di affermare la loro meschina, ristretta verità di parte.
E questo a più di trent’anni dai reati per i quali Cesare Battisti è stato processato e condannato, fondamentalmente sulla parola dei suoi compagni di allora i quali, “pentendosi” e scaricandogli sul groppone, guarda caso, i delitti più gravi, hanno ottenuto per se stessi delle vistose riduzioni di pena. Decisamente, l’Italia è il Paese del passato che non passa, che non vuol passare.
Pensiamo a cosa hanno saputo fare i Tedeschi dopo la caduta del Muro di Berlino: sono riusciti a medicare in pochi anni le piaghe che la divisione della Germania in due Stati contrapposti, e quella della capitale addirittura in quattro zone di occupazione militare straniera, inevitabilmente si erano lasciate dietro.
Oppure si pensi a cosa è accaduto nella Repubblica Sudafricana dopo la fine dell’«apartheid», dove bianchi e neri sono stati capaci di continuare a convivere pacificamente, pur dopo i traumi e le ferite di una coabitazione così travagliata e drammatica: quello che sembrava un impossibile sogno di pace, è divenuto realtà.
Perché noi Italiani non siamo capaci di fare altrettanto? Gli “anni di piombo” hanno lasciato un solco di sangue e un retaggio di dolore pesantissimi; pure, popoli che hanno sofferto più del nostro, sono stati capaci di chiudere i conti con il proprio passato e di voltare pagina definitivamente, concentrandosi sul bene comune del presente.
Forse, la risposta - o una buona parte della risposta - sta in quella disonestà intellettuale di cui dicevamo, e che, se appare massima nei pretesi intellettuali, inquina però la coscienza di tutto il popolo. Non si riesce a chiudere i conti col passato, perché si vorrebbe essere sempre dalla parte del vincitore, senza mai affrontare il «redde rationem», senza mai pagare di persona.
Così, nel 1945, improvvisamente gli Italiani scoprirono di essere tutti democratici, antifascisti e perfino militanti partigiani; anzi: di non essere mai stati fascisti, se non per costrizione e perché, sotto la dittatura, avevano una famiglia da mantenere.
Allo stesso modo, nel 1989, quando cadde il Muro di Berlino, i comunisti di casa nostra non fecero una piega, perché - tanto -  loro lo avevano sempre saputo, che Stalin era un criminale e che l’Unione Sovietica si era messa su una brutta strada.
Poi, nel 1992, tutti gli Italiani scoprirono improvvisamente di essere sempre stati anticraxiami, nemici della corruzione pubblica e ansiosi di un’Italia non più democristiana.
Che cosa non s’inventeranno domani, quando finirà anche l’era Berlusconi?