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La morte è mia e la gestisco io

di Carlo Gambescia - 25/05/2006

 

In teoria siamo liberi di fare tutto: ma per chi si sente emarginato l’ultimo grido di libertà è quello del suicidio

C’è una rubrica periodica sul Foglio
dedicata ai suicidi. Dove il lettore,
stringatamente, è informato sulle morti
dell’ultima settimana. Sembra sia
una rubrica piuttosto seguita. L’interesse
non va però ricondotto all’elevato
“tasso” di morbosità del lettore, ma al fatto che l’atteggiamento
della società verso il suicidio è profondamente
cambiato. Soprattutto nei riguardi del suicidio in età giovanile.
Fino agli anni Settanta – il suicidio dei giovani (tra i 15 e i
24 anni) era considerato una specie di sciagura sociale. E ci
si preoccupava della sua stabilità nel tempo: il numero dei
suicidi giovanili non aumentava, ma neppure
diminuiva (dal 1946 al 1975, 1
suicidio su 4). Lo si
imputava a cause
ambientali (problemi
di integrazione
familiare e sociale), e
sui giornali si cercava
di non parlarne. Spesso
gli adolescenti “scivolavano”
per le scale o
cadevano “per gioco”
dai balconi. L’imprinting
religioso, di una società
non ancora secolarizzata,
imponeva alle famiglie,
vittime di un forte senso di
vergogna e peccato, la regola
del silenzio.
Negli ultimi trent’anni, oltre
a essere aumentati i suicidi (da 5 a 8 per 100.000 abitanti),
sono particolarmente cresciuti quelli giovanili, che sfiorano
quasi i 2 casi su 5 (è la seconda causa di morte). Con prevalenza
dei ragazzi sulle ragazze. Mentre quelli “tentati” solo
dai giovani ammontano al 40% del totale (si vedano i dati
Istat e i documentati saggi di Paolo Crepet).
Il punto è che i giornali ora ne parlano più di prima. Ma in
termini più “naturalistici” e libertari. Questo non significa
che non sia rispettato il dolore di familiari e amici dei giovani
suicidi. Oppure incoraggiato direttamente il suicido…
È tuttavia cambiato l’atteggiamento della società. E di conseguenza
anche quello dei media. Vediamo come.
Il cosiddetto Sessantotto, con la sua aggressiva cultura dei
diritti, segna il punto di rottura tra una società che condannava
il suicidio - e a maggior ragione quello del giovane - e
una società, come la presente, che lo considera quasi un
diritto. Il ragionamento che si fa oggi è terribilmente semplice:
se nelle dichiarazioni dei diritti, la libertà personale è
considerata inviolabile, il suicidio non può che essere una
manifestazione – certo estrema – ma comunque molto alta
di libertà. Che, come mostrano, i recenti sviluppi a proposito
del “diritto” al suicidio assistito (eutanasia), andrebbe
addirittura tutelata dalla legge.
In tale contesto individualistico, se un giovane commette
una “sciocchezza”, si tende perciò a ricondurla, non tanto
nell’alveo della mancata integrazione familiare o sociale,
quanto di una stravagante immaturità interpretativa… Ci si
uccide, precocemente, perché si interpreta in modo sbagliato
il valore della libertà individuale. E in questo senso il
ruolo della famiglia
dovrebbe essere quello di
educare i giovani a un
esercizio maturo del diritto
al suicidio…
Di riflesso qualsiasi critica
a una cultura che
appende la vita dei
ragazzi al filo del corretto
esercizio di un
diritto di libertà, viene
ritenuta lesiva
della stessa libertà
individuale. È una
situazione paradossale:
per un verso
si predica il diritto
al suicidio, e per
l’altro si chiede al giovane,
di saper farne buon uso. Basti pensare all’uso
reiterato, non solo in ambito mediatico, ma anche familiare
e amicale (e spesso davanti ai bambini), della terribile
espressione: “Piuttosto che soffrire, meglio un’iniezione…”.
Ecco, questa frase, che tutti abbiamo ripetuto almeno una
volta nella vita, indica il grado di pervasività di una cultura
fondata sul diritto di infliggersi la morte. Cultura cui vanno
a sommarsi, nei giovani, le pressioni sociali quotidiane
(scuola, amici, consumi) e le ricorrenti crisi di “crescita”.
Tutti fattori che, uniti all’idea di poter mettere fine alla propria
vita in qualsiasi momento, formano una miscela esplosiva,
che spesso, se innescata anche da una piccola delusione
esistenziale (scolastica o sentimentale), può determinare
il suicidio. Un atto “anticonservativo” della vita umana, che
spesso i media invece presentano, certo tra le righe, come
un prezzo che le nostre società liberali devono pagare al
progresso della libertà individuale.
Bel progresso.