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Aborigeni da grande schermo

di Stefano Gulmanelli - 25/05/2006

Parla il regista Rolf de Heer: «Nel mio film c’è la cultura senza tempo dei veri australiani, già quasi estinta»

 

«Ormai è impossibile preservare l'antica visione del mondo, completamente diversa da quella europea: oggi gli indigeni usano Internet, guardano la tv...»

 

«Quando il produttore [Domenico Procacci di Fandango, ndr] ha visto il primo spezzone mi ha detto: "Non so se sono stato davanti allo schermo per venti minuti o due ore"». Per certi aspetti è proprio ciò che Rolf de Heer, regista australiano, vuole dal suo film Ten Canoes: spiazzare lo spettatore e assorbirlo nel sogno e nella cosmogonia di uno dei popoli più antichi della Terra, gli aborigeni. La pellicola, che sta muovendo i suoi primi passi europei - a Cannes e in Italia, nelle sale dal 1° giugno -, è girato in Arnhem Land nel nord dell'Australia, l'ultimo bastione della cultura aborigena. Il film narra la vicenda di una comunità di un'epoca qualunque fra oggi e mille anni fa e i dialoghi sono in aborigeno: la lingua occidentale di turno è relegata ai sottotitoli. Un bel cambiamento di prospettiva, ma non l'unico in quest'opera di de Heer.
Nel rappresentare la cultura degli aborigeni ha forse cercato di pagare il debito storico dei bianchi nei loro confronti?
«No, non direi. Almeno non nell'intenzione iniziale. L'idea del film è nata quasi casualmente, su "provocazione" di David Gulpilil [un attore aborigeno, ndr]. Ero a casa sua in Arnhem Land e mi mostrò una vecchia foto fatta dall'antropologo Donald Thompson negli anni Trenta. David mi disse: "Dovresti fare un film partendo da questa foto". Forse credeva che non lo avrei preso sul serio. Comunque è vero che il risultato alla fine ha un che di politico…»
Vale a dire?
«Il rovesciamento degli stereotipi e l'affermazione che al di là delle differenze culturali siamo tutti esseri umani. Ma non andrei oltre: il film non è un tentativo - perlomeno consapevole - di spazzare via la "colpa bianca". È e vuole restare un momento di intrattenimento che credo incuriosirà la gente perché la porta in un mondo diverso. Se poi gli spettatori usciranno dal cinema con un briciolo di conoscenza e consapevolezza in più, tanto meglio».
Questo tipo di cultura ha un ruolo nel terzo millennio? C'è di che imparare da loro?
«Si può imparare qualcosa da qualsiasi altra cultura; il limite è solo la nostra immaginazione e la profondità della nostra conoscenza della cultura "altra". Il fatto è che quella aborigena è una cultura che sta cambiando velocemente. Tanto che credo che fra vent'anni un film come questo sarebbe stato impossibile da girare, perché a quel punto molta della conoscenza tradizionale tramandata oralmente fino ai giorni nostri sarà scomparsa».
L'unico modo per cercare di preservarla è segregarla in zone quasi inaccessibili come Arnhem Land?
«Ormai è tardi. La cultura aborigena non può più essere preservata perché è già cambiata moltissimo. Quando l'economia del baratto diventa economia del denaro, il cambiamento è irreversibile. Oggi gli aborigeni usano Internet, ricevono dalla televisione immagini dal resto del mondo, vedono i film che vogliono. Non puoi fermarli dal cambiare, dal continuare a cambiare».
Inaugurando gli ultimi Giochi del Commonwealth, in Australia, la regina Elisabetta ha detto: "Mai come ora capiamo l'importanza della cultura indigena". È questo il destino della cultura aborigena? Essere compresa in fase di estinzione?
«Ma mi chiedo se capiscano davvero. Ci vuole parecchio - tempo e sforzo - anche solo per cominciare a capire. Poi ci vuole l'opportunità, che peraltro hanno in pochi. Io mi sono trovato in una posizione privilegiata. Ho potuto recarmi laggiù molte volte e ho avuto accesso alla loro cultura dall'interno, proprio per quello che stavamo cercando di fare. E lo facevo volendolo con tutte le mie forze. Con tutto ciò, solo alla fine ho iniziato a capire qualche aspetto della loro cultura. A quanto ne so nessuno ha avuto l'opportunità di fare niente di simile. Per non parlare della "volontà". Poi ci sono i fatti: gran parte degli australiani non ha mai parlato a un aborigeno. Meno dell'un per cento di noi ha avuto un indigeno a cena a casa propria. Di c he comprensione parlano la regina e gli altri?»
Quali sono state le situazioni più difficili affrontate nel fare il film?
«Innanzitutto convincere la comunità a fare il film. Non tutti erano d'accordo per via di una passata esperienza negativa: anni fa, una troupe belga era andata lì per un documentario e, dopo essersi fatta accompagnare un po' ovunque, era sparita senza far vedere loro nulla del girato, a dispetto di ogni assicurazione data. C'era poi chi aveva perplessità dettate dal fatto che, poiché il film li avrebbe rappresentati per "come erano stati" e non "per dove stavano andando", ne sarebbe usciti come "selvaggi". Che è peraltro come i bianchi li hanno sempre giudicati. Poi ci sono state le difficoltà pratiche: da un lato il passare giornate intere immersi fino alle ginocchia in paludi infestate da sanguisughe e coccodrilli. Dall'altro il fatto che si è trattato di un dry shooting ["girato a regime secco", ndr], ovvero niente alcol. Per la troupe è stata dura: questa è gente abituata a lavorare duro durante il giorno e poi a rilassarsi la sera con un boccale di birra in mano. Lì però non si poteva: si viveva tutti a stretto contatto e non era il caso che circolasse alcol. Ma si è fatto di necessità virtù e alla fine tutto è andato bene».