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Così gli americani strappano a Fidel i medici cubani all’estero

di Guido Olimpio - 16/01/2011

 


Cuba va fiera della sua Sanità ed esporta medici. Oltre 37 mila tra dottori e infermieri cubani lavorano in 77 Paesi, Italia compresa. Per il regime è la prova di un impegno al fianco dei deboli che produce anche vantaggi economici. Il Venezuela, ad esempio, paga con importanti forniture di petrolio. I nemici di Fidel, invece, la osservano con sospetto, quasi una quinta colonna castrista. E dal 2006 la «colonia» è diventata il bersaglio di una campagna per favorire la fuga dei medici negli Stati Uniti. Un’operazione organizzata con azioni di intelligence che — secondo il Wall Street Journal — ha spinto 1.574 cubani a fare il grande salto. Mente del piano— conosciuto come Cuban Medical Professional Parole (CMPP)— è un ex funzionario dell’Immigrazione Usa, Emilio González. Colonnello, con un passato nei servizi di spionaggio dell’Us Army, pluridecorato, appartiene ad una famiglia di esuli cubani scappati in Florida. Per González l’invio di medici all’estero non ha nulla di positivo: è «un traffico di esseri umani sponsorizzati da uno Stato» , sostiene. La pensano diversamente quelle popolazioni — come ad Haiti— che hanno beneficiato dell’assistenza sanitaria. Per dottori e infermieri andare all’estero non è solo un impegno di solidarietà (retribuita) ma anche un modo per migliorare le proprie condizioni economiche. Lo stipendio aumenta in modo sensibile— sale a circa 300 dollari— ma se ti va proprio bene puoi arrivare ai 1.000, una fortuna rispetto ai 50 dollari che avresti ricevuto in patria. Inoltre, una volta all’estero, il cubano arrotonda. In alcuni Paesi può acquistare prodotti e beni che rivende a Cuba. In Medio Oriente, poi, alcuni dottori eseguono aborti «segreti» : interventi che porterebbero nelle loro tasche somme considerevoli. Dunque, non è una sorpresa che ci sia una vera gara per essere inseriti nei programmi all’estero. Una volta in missione, i medici devono consegnare il loro passaporto all’ambasciata cubana che è responsabile dei movimenti e della sicurezza. Inoltre sono «invitati» a dotarsi di un cellulare in modo da essere sempre rintracciabili. Ed è ciò che ha fatto Felix Ramírez, un medico partito per il Gambia. Con una variante. Il cubano si è comprato un secondo telefonino che ha usato per organizzare la sua fuga. Ramírez, che oggi vive e lavora negli Usa, ha raccontato di essere partito per l’Africa con l’obiettivo di sfruttare il programma americano. E, con pazienza, ha preparato la sua fuga. Una volta a Bangui ha cercato in un Internet Café il numero di telefono dell’ambasciata statunitense. Poi ha stabilito un contatto con un diplomatico che gli ha dato appuntamento in un mercato popolare. Era il settembre del 2008. Nove mesi dopo Ramírez era a Miami. Una meta raggiunta per tappe, con l’aiuto degli americani e di un trafficante di uomini, che gli ha permesso di arrivare prima in Senegal, poi in Spagna e, infine, in Florida. Con lui altri 5 colleghi provenienti anch’essi dal Gambia. L’esperienza di Ramírez è stata imitata, dal 2006, da molti dottori allettati dall’offerta statunitense. In una lista ottenuta dal Wall Street Journal si precisa che la maggioranza dei transfughi — 824 — sono arrivati dal Venezuela. Una scelta con un prezzo personale da pagare. Tanti sono stati costretti ad abbandonare le loro famiglie a Cuba. Felix Ramírez non sa quando potrà vedere la moglie— nel frattempo licenziata— e il figlio nato poco dopo la sua partenza per l’Africa.