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Enron, due farabutti fin troppo normali

di Siegmund Ginzberg - 29/05/2006

 
DUE PERSONAGGI che, fino a qualche anno fa, erano tra gli uomini più potenti d'America, di quelli che comunque vadano le cose sono abituati a cascare sempre in piedi, condannati, umiliati, ammanettati, stravolti, in singhiozzi. L'uno che rischia 165 anni di galera, l'altro 185.
Una delle più grandi frodi societarie di tutta la storia del business Usa, esposta e ora anche punita. Giustizia di esemplare severità nel caso Enron. Con carica «simbolica». Qualcuno ha detto addirittura: «giustizia poetica». O no?
Forse sì. Forse no. Non succede tutti i giorni. Non succede in tutti i paesi. Dalla nostre parti siamo abituati a che non succeda quasi mai. La sentenza pronunciata giovedì dai giurati della corte di Houston, in Texas a carico di Kenneth Lay e Jeffrey Skilling, i massimi dirigenti, in successione a cavallo della spettacolare fallimento, del gigante nel campo dell'energia, della società che era stata a lungo in testa nelle classifica delle più ricche e potenti del pianeta, ai primi posti nella lista di Fortune 500, aveva per motto il vanto di essere «la più grande società al mondo», era attesa come qualcosa di epocale. C'è chi la considera come un verdetto su un'intera epoca di arroganza e spregiudicatezza estremi, gli anni a cavallo del cambio di millennio. Di scandali che avevano inviperito l'opinione pubblica, falcidiato risparmi, messo sul lastrico lavoratori, rivelato arroganza e spregiudicatezza, ce n'erano stati altri, il crollo delle dot.com, dell'illusionismo della new economy, il caso WorldCom, Tyco Adelphia, altre Parmalat Usa. Ma il fallimento Enron aveva assunto un valore simbolico superiore a tutti gli altri. «La parola Enron era diventata una parolaccia, uno spauracchio da favola per bambini. Gli altri casi magari no. Ma questi qui li conoscevano tutti», ha notato qualcuno. Implicava non solo dirigenti che continuavano a guadagnare miliardi mentre la società andava male, vendevano, speculandoci sopra, le proprie azioni nel momento in cui, falsificando i bilanci convincevano altri, ignari della situazione a comprarle. Aveva chiamato in causa la complicità dei controllori, distrutto la reputazione di alcune delle più prestigiose società di certificazione di bilanci al mondo. Erano seguite misure legislative, impegni tesi a far sì che casi del genere non si ripetessero, ripristinare la fiducia minata. Era rinata la nozione, a lungo finita in secondo piano, se non del tutto dimenticata (parliamo di Stati uniti, non di Italia) di «etica» societaria. Dopo quasi 5 anni di procedimenti giudiziari, la sentenza «esemplare» sembra punire senza sconti i principali responsabili di un crack che aveva distrutto 4000 posti di lavoro, bruciato miliardi di dollari di risparmi in azioni. E allora, perché abbiamo l'impressione che qualcosa continui a non quadrare, che non tutto sia stato risolto, che ci sia qualcosa che suona fittizio, non convince del tutto nel tripudio?

A parlare di «giustizia poetica» è stato l'ex governatore democratico della California Gray Davis, quello che fu spodestato nel 2003 dal «terminator» Schwarzenegger. La frase completa è: «Non è pura giustizia, ma giustizia poetica». I californiani continuano a pagare il doppio per l'elettricità anche perché il sistema Enron è rimasto in piedi, in altre forme. C'è chi parla di problema risolto a metà. Nessuno è sicuro che le grandi del petrolio non si stiano comportando come la Enron. Se è tornata la fiducia, è un ritorno a metà, come dire, con un piede dentro e uno fuori.
Kenneth Lay e Jeffrey Skilling sono stati giudicati colpevoli di frode, associazione a delinquere, false dichiarazioni, insider trading, cioè speculazioni private in base a cose che sapevano solo loro e non dicevano agli altri. Insomma, avevano mentito sulla gravità della crisi della loro azienda, facendo sapere che tutto continuava ad andare per il meglio, mentre invece le cose andavano a catafascio. La prima cosa che viene in mente è: chi garantisce che non rischi di succedere qualcosa del genere a livello di «azienda America» anziché a livello di grande società privata? Chi e come pagherebbe se venisse fuori che non ce la stanno contando giusta sulla dimensione dei problemi, sul deficit, sull'inflazione, su un possibile sgonfiamento della bolla immobiliare? «Le cose non vanno forse così male, ma non scommetterci la casa», è il modo in cui riassume la cosa l'Economist di questa settimana. I mercati vanno su e vanno giù. Ma il nervosismo con cui lo fanno è significativo. Tutti continuano a sperare in bene, ma nessuno può essere sicuro che le cose non stiano come per la Enron che nel 2001 vantava successi strepitosi, mentre i suoi dirigenti sapevano benissimo che in realtà si stava sfasciando.
La difesa di Lay e Skilling era stata che in realtà la situazione della Enron non sarebbe stata così disastrosa, che la crisi è stata accelerata da una concomitanza di circostanze, che è colpa della stampa che si era messa ad allarmare gli investitori, avvitando un panico ingiustificato. Hanno aggiunto che comunque «facevano così tutti». Sulla prima cosa i giurati non gli hanno creduto: c'era la prova che le loro azioni le vendevano, se ne distavano perché sapevano che stava per crollare tutto. Ma il guaio è che sul secondo argomento potrebbero aver ragione, aver detto il vero: se non proprio «tutti», non c'è nessuna certezza che molti non continuino a far così.

I due uniti dalla sorte di una punizione «esemplare» non sono gemelli. Ma il problema è, assomigliano, nella loro «tipicità» a molti altri che continuano a fare il loro mestiere. Il profilo di loro che è emerso al processo non è affatto di «mostri», farabutti tarati e avidi, ma di normali executive, con tutti i vizi e le virtù dei loro pari. Di Ken Lay, 64 anni, si diceva che era, dei due, quello che poteva risultare più charming, «simpatico» alla giuria, se non proprio convincerli di essere una brava persona. Tipo alla mano, poteva presentare una delle più «normali» carriere di successo nella carriera. Figlio di un predicatore battista, uomo tutto chiesa e famiglia, poteva vantare la stima della comunità religiosa. Poteva raccontare di aver fatto la gavetta, aver iniziato a lavorare da bambino consegnando a domicilio i giornali e tosando i prati. Il dottorato in economia all'Università di Houston se l'era guadagnato lavorando a tempo pieno durante gli studi. L'elenco di associazioni ed iniziative di beneficenza in cui era impegnato, che ha presentato al processo, riempiva molte cartelle. Ha 5 figli e 12 nipoti. Ha sempre lavorato sodo, passava metà del suo tempo a viaggiare come una trottola, a corteggiare politici e uomini d'affari di tutto il mondo. Non trattava male i suoi dipendenti, e si era dato molto da fare per risanare i quartieri poveri di Houston. Accarezzava l'idea di entrare in politica e candidarsi a sindaco. Teneva con ammirevole equilibrio buoni rapporti sia con i democratici che coi repubblicani. Era intimo di George W. Bush, che quando era governatore del Texas lo chiamava affettuosamente «Kenny Boy». Ma anche in ottimi rapporti con Bill Clinton che l'aveva nominato tra i consiglieri per lo «sviluppo sostenibile», insomma per la difesa dell'ambiente. Jeffrey Skilling, 52enne, è forse un po' meno «simpatico», ma si poteva presentare come uno che ha anche lui lavorato sodo, fin da quando studiava a Harvard. Ha sostenuto di avere sacrificato tutto, anche i figli, all’azienda che ha definito come un'«ossessione». Fatta una rapida carriera interna, vantava il merito di aver trasformato una società di tubi per oleodotti in un gigante mondiale nel campo del gas naturale. Aveva i suoi «favoriti», gli «Skilling boys», da cui si faceva accompagnare ogni anno in vacanze spesate dall'azienda per fare motociclismo in Messico, scalare ghiacciai in Patagonia, corse in Australia. Ma in quegli ambienti sono considerate cose «normali». Aveva divorziato dalla moglie per mettersi con la segretaria.

All'uno e all'altro, nel corso del processo, gli è stato rimproverato di aver speso milioni di dollari in gite a spese della società, di aver intascato prebende miliardarie, di aver attinto ai fondi a disposizione per operazioni private, senza toccare i patrimoni immobiliari e finanziari accumulati in proprio. E di aver continuato a farlo imperterriti anche quando le cose si mettevano male e si accumulavano le perdite. Anche questo è «normale» e diffuso. L'altro giorno abbiamo letto sul New York Times un'inchiesta con dati impressionanti su come i compensi dei dirigenti aziendali Usa abbiano raggiunto livelli ormai di ben 700 volte quelli medi dei loro dipendenti (erano 56 volte negli anni '40). E la cosa ancora più impressionante è come i livelli di bonus, fringe retribuzioni siano inversamente proporzionali al successo delle aziende che dirigono. Più perdono e fanno male, più licenziano e più accumulano debiti, più si fanno pagare. Tutto il mondo è paese? Si consoli chi crede. Ci limitiamo qui al tema della fin troppa «normalità» dei due farabutti che hanno pagato per lo scandalo Enron.