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Egitto eccetera: cambia solo la facciata

di Alessio Mannino - 07/02/2011


A prima vista sono rivolte entusiasmanti. A guardare meglio si capisce che i cittadini si illudono: non basta cacciare i vecchi governanti, per fare una vera rivoluzione 

di Alessio Mannino 

Purtroppo, le belle e coraggiose piazze piene di giovani in rivolta in Algeria, Tunisia ed Egitto sembrano avere il destino segnato: essere pilotate dalle reali leve di comando (forze armate e sicurezza) verso transizioni controllate dall’alto che sfocino in cambiamenti più apparenti che sostanziali. 

Il caso egiziano è emblematico. In un indecoroso discorso alla nazione il faraone a vita Hosni Mubarak si è spinto, bontà sua, fino a promettere di non ricandidarsi (è incollato al trono presidenziale da trent’anni) e di restare al governo fino a settembre. Colto di sorpresa come tutti, Occidente e Israele compresi, dall’insurrezione di massa che l’altro ieri ha portato in strada un milione di persone, il vecchio generale le sta provando tutte pur di salvare il salvabile. Consapevole che la sua uscita di scena è ormai solo una questione di tempo, ha tentato la carta Suleiman-Shafiq, issando rispettivamente al ruolo di vicepresidente e primo ministro il capo dei servizi segreti, molto stimato dagli Usa e da Israele, e l’ex comandante dell’aviazione, uomo gradito a chi ha l’ultima parola al Cairo: l’esercito. Ma la prospettiva offerta da Mubarak, un passaggio di consegne morbido e gestito da lui stesso, è stata subito rigettata dalle opposizioni, che non intendono cedere alla logica della concessione e vogliono la fine del regime. Ed è stata definitivamente affossata dal dittatore-ombra del Nilo, il presidente americano Obama, che dopo averlo scaricato come un ferrovecchio ora ordina all’ex amico Hosni di togliersi immediatamente dai piedi dopo i tumulti («istigati dal governo») di ieri fra fedeli e avversari del raìs.

Il guaio è che l’intifada egiziana, allo stesso identico modo delle sollevazioni tunisine (e, in misura diversa, algerine), ha potuto insorgere e mettere con le spalle al muro i governanti solo grazie al comportamento benevolo deciso dai militari. Altrimenti, alle prime scintille la ribellione sarebbe stata soffocata nel sangue, con grande indignazione dell’opinione pubblica internazionale ma ben poche conseguenze sul piano fattuale. Avremmo assistito, insomma, a delle Tien-an-men in sedicesimo. In Stati dove la democrazia si esprime nominalmente sotto forma di elezioni periodiche per coprire la realtà di un potere effettivo basato sul monopolio legale della violenza, i ribelli hanno trovato il loro alleato necessario proprio nel centro decisionale che, se si trattasse di vere rivoluzioni, sarebbe l’obiettivo vero da rovesciare. Ma una sfida fra rivoltosi e soldati presupporrebbe che i vertici militari facessero quadrato intorno agli autocrati in declino, mettendosi così in scontro frontale col popolo. Invece gli alti gradi dell’esercito, che devono tener conto del fatto che le loro truppe sono costituite da venti-venticinquenni, cioè da classi anagrafiche che costituiscono la maggioranza delle popolazioni nordafricane, preferiscono fare la mossa meno rischiosa e più conveniente: evitare la repressione brutale degli oppositori (salvo lasciare sui marciapiedi centinaia fra morti e feriti, segno che la pressione è giunta sull’orlo dell’anarchia totale) e facilitare una sostituzione manovrata e indolore dei dittatori e dei loro clan, screditati e osteggiati a tal punto da essere diventati indifendibili. 

I “rivoluzionari” del Nord Africa in fiamme, così puri nella loro spontaneità grazie a Facebook, non stanno compiendo alcuna rivoluzione. Un po’ perché la stanno facendo, o meglio credono di farla, con l’esercito che spiana loro la strada. Un po’ perché sono privi di una leadership unitaria e forte, riconosciuta da tutte le anime della protesta. E un po’ perché, a ben vedere, il programma che sbandierano consiste nella caduta dei vari Bouteflika, Ben Alì e Mubarak e nella vaga speranza in un pluralismo politico senza limite e censure, con un diritto all’informazione garantito (cancellazione dei divieti su Internet in vigore in Egitto, per esempio), e riforme sociali ed economiche contro la povertà diffusa. Chiedono, insomma, che le “democrature”, come una volta le definì cinicamente l’ex ministro craxiano Gianni De Michelis, si scrollino di dosso i caratteri di dittature per trasformarsi in democrazie come sono intese sull’altra sponda del Mediterraneo. Dal loro punto di vista hanno ragione: che senso può avere ancora una dittatura poliziesca e satrapesca quando i costumi e la mentalità globale che viaggiano in Rete corrodono dall’interno ogni residua sottomissione a vecchi bacucchi arroganti e fuori dal tempo?

Di qui l’atteggiamento defilato dei Fratelli Musulmani e dei partiti islamici. Non sono stati e continuano a non essere alla testa delle sommosse, andandovi piuttosto a rimorchio, perché queste sono scaturite da una domanda di rinnovamento laico, occidentalista, di ragazzi che sognano di avvicinare i propri paesi ai modelli europei e americani. Credendo così, a torto, di poter contare di più, quando al contrario si profila all’orizzonte non una rivoluzione, ma al massimo una revisione, un aggiornamento, un pit-stop sia pur cruento delle strutture di potere. Dopo decenni in cui hanno fatto il bello e il cattivo tempo, i raìs non sono più amati dai loro giovani sudditi, che si sentono stretti nelle maglie di ferro dei loro clientes e dei loro sgherri. Oggi, nel modo violento e sanguinoso proprio di società non ancora del tutto sclerotizzate dalla sedentarietà e pusillanimità di noi occidentali, quei giovani presentano il conto, gli Stati Maggiori supervisionano il ricambio e gli Americani lo benedicono (mentre Israele ostenta il timore di governi islamizzati nel malcelato intento di far impicciare gli Usa il più possibile, a tutela dei propri confini e dei propri interessi). 

In sostanza, un gattopardismo imbellettato con qualche iniezione di democraticismo, con regimi che resteranno tali e non tollereranno cambi di rotta nelle due questioni-tabù: l’alleanza-dipendenza obbligata con le potenze Nato e la perenne quarantena in cui dovranno seguitare a rimanere gli islamici militanti. Guarda caso, esattamente le condizioni che hanno permesso ai dittatori oggi in crisi di insediarsi e contare sull’appoggio di Washington e dell’Europa. In definitiva, questi africani liberatisi da despoti corrotti e ammuffiti diventeranno più simili a noi: s’illuderanno di essere diventati cittadini sovrani, saranno invece sudditi di un dispotismo diverso, più subdolo: una democrazia bloccata (islamismo al bando) ed eterodiretta da poteri forti intoccabili (interessi stranieri in torta con la casta militare). Liberi, ammirevoli, ma utili idioti.