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La lobby israeliana e la politica estera USA (ottava puntata)

di John Mearsheimer e Stephen Walt - 30/05/2006

 
 
 
Ariel Sharon e Shaul Mofaz, ministro della difesa israeliana

Sognando una trasformazione regionale non si pensava che la guerra in Iraq fosse un costoso pantano.
Era stata immaginata infatti come il primo passo di un piano più vasto per risistemare il Medio Oriente.
Questa ambiziosa strategia ha rappresentato una notevole deviazione rispetto alle precedenti politiche USA, e la lobby ed Israele sono state le forze che hanno spinto verso tale cambiamento. Questo punto è stato reso manifesto da un articolo in prima pagina del Wall Street Journal, apparso dopo che la guerra in Iraq era iniziata.
Esso diceva: «il sogno del presidente: cambiare non solo un regime, ma l’intera regione: una vasta area democratica, pro-USA è un obiettivo che ha radici neocon ed israeliane».
Le forze pro-Israele sono state per molto tempo interessate a fare in modo che l’esercito americano fosse più direttamente coinvolto nel Medio Oriente, in modo da proteggere Israele.
Ma esse ebbero scarso successo durante la guerra fredda, poiché l’America agì come un «arbitro estraneo» nella regione.
La maggior parte delle forze USA di stanza nel Medio Oriente, come la Rapid Deployment Force, furono mantenute fuori dai teatri di combattimento.
Washington bilanciò le potenze in gioco facendo in modo che si combattessero le une con le altre; infatti questo è il motivo per cui l’Amministrazione Reagan sostenne Saddam contro l’Iran durante la guerra (1980-88).  
 
Questa politica cambiò dopo la prima Guerra del Golfo, quando l’Amministrazione Clinton adottò la strategia del «doppio contenimento».
Essa prevedeva la presenza di molte truppe USA nella regione per poter contenere sia l’Iran che l’Iraq, invece di lasciare che si controllassero a vicenda.
Il padre di tale dottrina fu Martin Indyk, che per primo delineò tale strategia nel maggio 1993 presso il think-tank pro-Israeliano WINEP, e la mise in pratica in qualità di direttore per il gli Affari del Vicino Oriente e del Sud Asia al National Security Council.
Ci fu molto disappunto nei confronti di tale dottrina alla metà del 1990, dal momento che rese gli Stati Uniti il nemico numero uno di due Paesi che tra l’altro si odiavano, e costrinse Washington a farsi carico del contenimento di entrambi.
Non sorprende il fatto che la Lobby lavorò attivamente al Congresso per salvare il «doppio contenimento».
A causa di pressioni da parte dell’AIPAC e di altre forze pro-Israele, Clinton inasprì tali politiche nella primavera del 1995 imponendo un embargo economico contro l’Iran.
Ma l’AIPAC voleva di più.
Il risultato fu l’Iran and Libya Sanctions Act del 1996, che impose sanzioni a tutte le compagnie straniere che investivano più di 40 milioni di dollari in progetti petroliferi in Iran e Libia.
Come Ze’ev Schiff, il corrispondente militare di Ha’aretz, notò all’epoca, «Israele non è che un piccolo elemento di un sistema molto più grande, ma per questo non si può concludere che non riesca ad influenzare quelli che contano».
 
Verso la fine degli anni ‘90, comunque, i neocon sostenevano che la dottrina del doppio contenimento non era sufficiente e che un cambio di regime in Iraq era diventato essenziale. Rovesciando Saddam e trasformando l’Iraq in una vivace democrazia, pensavano, gli Stati Uniti avrebbero innescato un vasto processo di cambiamento in tutto il Medio Oriente.
Questa linea di pensiero era evidente nello studio «Clean Break» che i neocon prepararono per Netanyahu.
Nel 2002, quando l’invasione dell’Iraq era diventata una questione «calda», la trasformazione dell’intera regione era il «credo» dei circoli neocon.
Charles Krauthammer descrive questo grande schema come l’idea di Natan Sharansky, il politico israeliano i cui scritti avevano colpito il presidente Bush.
Ma Sharansky non era una voce isolata in Israele.
Infatti, molti politici israeliani ritenevano che il rovesciamento di Saddam avrebbe cambiato il Medio Oriente a favore di Israele.
Aluf Benn riportò su Ha’aretz (17 febbraio 2003), «alti ufficiali dell’esercito, e funzionari vicini al primo ministro Sharon, come il consigliere per la Sicurezza Nazionale Ephraim Halevy,prospettano un futuro roseo per Israele dopo la guerra. Immaginano infatti un effetto domino, nel quale la caduta di Saddam venga seguita da quella degli altri nemici di Israele…Insieme a tali leader scompariranno anche il terrorismo e le armi di distruzione di massa».
In breve i leader israeliani, i neocon e l’Amministrazione Bush videro tutti nella guerra in Iraq il primo passo di un ambizioso piano per cambiare il volto al Medio Oriente.
Ed al primo accenno di vittoria, essi volsero lo sguardo minaccioso agli altri avversari di Israele nella zona.
 
I leader israeliani non fecero pressioni sull’Amministrazione Bush per spingerla contro la Siria fino al marzo 2003, in quanto erano troppo occupati a sostenere la guerra in Iraq.
Ma quando Baghdad cadde verso la metà di aprile, Sharon ed il suo entoruage cominciarono ad incitare Washington contro Damasco.
Il 16 di aprile, ad esempio, Sharon e Shaul Mofaz, il suo ministro della Difesa, fornirono due importanti interviste in due diversi giornali.
Sharon, su Yedioth Ahronoth, invitò gli americani a fare pressioni «molto forti» contro la Siria. Mofaz disse ad Ma’ariv che «abbiamo molte questioni che dobbiamo risolvere con la Siria, e pensiamo sia appropriato farlo attraverso gli USA».
Epraim Halevy, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Sharon, disse alla platea del WINEP che era importante per gli Stati Uniti fare pressioni sulla Siria, ed il Washington Post riportò che Israele stava «alimentando la campagna» contro la Siria fornendo all’intelligence USA dossier sulle attività del presidente siriano Assad.   
Importanti membri della Lobby usarono le stesse argomentazioni dopo la caduta di Baghdad. Wolfowitz disse che «deve esserci un cambiamento di regime in Siria» e Richard Perle disse ad un giornalista che «dobbiamo inviare un breve messaggio, di due parole, ai regimi ostili del Medio Oriente: ‘adesso tocca a voi’».


All’inizio di aprile, il WINEP rilasciò un report nel quale sosteneva che la Siria «non avrebbe dovuto ignorare il messaggio secondo cui i Paesi che perseguono le stesse politiche irresponsabili e provocanti di Saddam, finiranno per fare la stessa fine dell’Iraq».
Il 15 di aprile Yossi Klein Valevi scrisse un articolo sul Los Angeles Times intitolato: «Ora, puntare sulla Siria», mentre il giorno seguente Zev Chafets scrisse un articolo per il New York Daily intitolato «Anche il regime filo-terrorista della Siria deve cambiare».
Per non essere da meno, Lawrence Kaplan scrisse sul New Republic, il 21 aprile, che il leader siriano Assad era una seria minaccia per l’America.
Tornando a Capitol Hill, il membro del Congresso Eliot Engel il 17 aprile reintrodusse il Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act.
Minacciò sanzioni contro la Siria se non si fosse ritirata dal Libano, avesse abbandonato i progetti sulle armi di distruzione di massa e non avesse fermato il sostegno al terrorismo.
Invitò inoltre Siria e Libano a passi concreti per arrivare alla pace con Israele.
Tali provvedimenti furono fortemente sostenuti dalla lobby - specialmente dall’AIPAC - e furono preparati, secondo la Jewish Telegraph Agency, da «alcuni dei migliori amici di Israele dentro il Congresso».
Tali provvedimenti erano finiti nel dimenticatoio per un po’di tempo, principalmente perché l’Amministrazione Bush non ne era entusiasta, ma ciononostante furono votati da una vasta maggioranza, sia alla Camera che al Senato, e Bush li firmò il 12 dicembre 2003.
In ogni caso l’Amministrazione Bush era ancora divisa sull’opportunità di muoversi contro la Siria in quel momenti.
Benché i neocon spingevano per l’azione contro Damasco, la CIA ed il Dipartimento di Stato erano contrari.
Ed anche dopo la firma della legge, Bush stesso disse che l’avrebbe messa in pratica in tempi lunghi.
 
L’ambivalenza di Bush è comprensibile.
Dapprima, il Governo siriano aveva fornito agli USA importanti informazioni su Al Quaeda dopo l’11 settembre, ed aveva avvisato Washington di un possibile attacco terroristico nel Golfo.
La Siria aveva inoltre consentito agli investigatori della CIA di interrogare Mohamed Zammar, un presunto reclutatore dei dirottatori dell’11 settembre.
Colpire Assad avrebbe significato mettere a repentaglio questi importanti contatti, e di conseguenza la guerra al terrorismo stessa.
In secondo luogo, la Siria non era in cattivi rapporti con Washington prima della guerra in Iraq (ad esempio, votò anche a favore della risoluzione 1441 dell’ONU), e non rappresentava alcuna minaccia per gli USA.
Colpire la Siria avrebbe fatto apparire gli USA come dei prepotenti desiderosi soltanto di distruggere gli Stati arabi.
Infine, mettere la Siria nella lista dei bersagli americani avrebbe fornito a Damasco un forte incentivo a creare problemi in Iraq.
Anche se qualcuno voleva fare pressioni sulla Siria, sarebbe stato saggio finire prima il lavoro in Iraq.   
Ma il Congresso insistette per mettere Damasco nell’angolo, in gran parte a causa di pressioni da parte di Israele e di gruppi pro-Israele come l’AIPAC.
Se non ci fosse stata la lobby, non ci sarebbe stato il Syria Accountability Act e la politica verso Damasco sarebbe stata più in linea con gli interessa nazionali americani.


Gli israeliani tendono a descrivere ogni minaccia nei termini più duri, ma l’Iran è generalmente visto come il loro avversario più pericoloso, in quanto è quello che con maggiore probabilità potrebbe dotarsi di armi nucleari.
Praticamente tutti gli israeliani vedono un Paese islamico del Medio Oriente con armi nucleari come una minaccia alla loro esistenza.
Come il ministro della Difesa Binyamin Ben Elizer notò un mese prima della guerra in Iraq: «l’Iraq è un problema, ma dovreste rendervi conto che al giorno d’oggi l’Iran è un problema ancora più grande».
Sharon iniziò pubblicamente a spingere Bush contro l’Iran nel novembre del 2002, in un’intervista di alto profilo al Times di Londra.
Descrivendo l’Iran come «il centro del terrorismo mondiale», e desideroso di dotarsi di armi nucleari, disse che l’Amministrazione Bush avrebbe dovuto confrontarsi duramente con l’Iran
«il giorno dopo» aver conquistato l’Iraq.
Alla fine del mese di aprile 2003, Ha’aretz riportò che l’ambasciatore israeliano a Washington spingeva per un cambio di regime.
Il rovesciamento di Saddam, disse «non è abbastanza».
Con le sue parole, l’America «doveva andare avanti. Abbiamo ancora gravi minacce provenienti da Siria ed Iran».
Nemmeno i neocon persero tempo per promuovere la causa di un cambio di regime a Teheran.


Il 6 di maggio, l’AEI sponsorizzò una conferenza sull’Iran insieme alla Israel Foundation for the Defense od Democracies e l’Hudson Institute.
Tutti gli interventi furono manifestamente pro-Israele, e molti chiesero agli Stati Uniti di sostituire il regime iraniano con una democrazia.
Come sempre, ci furono molti articoli dei neocon che sostenevano l’idea di una guerra contro l’Iran.
Ad esempio, William Kristol scrisse nel Weekly Standard il 12 di Maggio che «la liberazione dell’Iraq fu la prima vera battaglia per il futuro del Medio Oriente … ma la prossima futura battaglia, speriamo non militare sarà per l’Iran».
L’Amministrazione Bush rispose alle pressioni della lobby lavorando per fermare il programma nucleare iraniano.
Ma Washington ebbe scarso successo, e l’Iran sembra infatti determinato a voler dotarsi di armi nucleari.
Come risultato, la lobby ha intensificato le se pressioni sul governo USA, usando tutte le strategie del suo repertorio.
Articoli che mettono in guardia contro la minaccia nucleare iraniana, manifestano diffidenza su eventuali ravvedimenti di un «regime terrorista» e suggeriscono un attacco preventivo se gli sforzi diplomatici dovessero fallire.
La lobby sta anche spingendo il Congresso ad approvare l’Iran Freedom Support Act, che dovrebbe potenziare le sanzioni contro l’Iran.
Funzionari israeliani inoltre fanno sapere che potrebbero fare da soli un attacco preventivo con l’Iran se questo persevera nei suoi propositi nucleari.
 
Qualcuno potrebbe obiettare che Israele e la lobby non hanno avuto molte influenza sulla politica USA nei confronti dell’Iran, dal momento che gli Stati Uniti hanno le loro ragioni per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari.
Questo è parzialmente vero, ma le ambizioni nucleari dell’Iran non sono una minaccia mortale contro gli Stati Uniti.
Se Washington ha potuto vivere con potenze nucleari come la Russia, la Cina e persino la Corea del Nord, allora può vivere anche con un Iran dotato dell’atomica.
E questo è il motivo per cui la lobby deve mantenere una pressione costante sui politici USA contro Teheran.
Se non esistesse la lobby, gli Stati Uniti e l’Iran sarebbero difficilmente alleati, ma le politiche USA sarebbero più moderate e la guerra non sarebbe un’opzione reale.


John Mearsheimer e Stephen Walt


(traduzione di Sebastiano Suraci)


(continua)


(esteri, prima puntata, 31/3/2006)
(esteri, seconda puntata,7/4/2006)
(esteri, terza puntata, 17/4/2006)
(esteri, quarta puntata, 23/4/2006)
(esteri, quinta puntata, 29/4/2006)
(esteri, sesta puntata, 8/5/2006)
(esteri, settima puntata, 18/5/2006)