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Profumo di marzo

di Francesco Lamendola - 06/03/2011





Fino a ieri, la “brutta” stagione mostrava ancora i denti: pioggia mista a neve, vento, freddo; una giornata decisamente invernale.
Ed ecco che, stamattina, il cielo si è ripulito d’azzurro e, dopo pranzo, la temperatura è risalita, facendosi inaspettatamente mite; il Sole splende nell’aria limpida e la terra profuma di zolle umide, di gemme e dei primi fiori: bucaneve e timide margheritine.
Una dolce brezza sfiora la pelle del viso e invita ad uscire, a camminare, a respirare a pieni polmoni quest’aria di marzo, fresca e tuttavia già mite; a godere di questa giornata primaverile regalata in anticipo, quasi come una caparra sulla bella stagione che verrà.
La salita al colle è ripida, ma quasi non si avverte la fatica, tanta è la bellezza dei vigneti verdeggianti, del cielo blu spalancato in alto, della luce che si posa con gentilezza sulle superfici dei muri in pietra ricoperti d’edera.
Intorno, un grande silenzio, una grande pace: la collina si è portata via, come d’incanto, i rumori della strada, delle automobili, della fretta disordinata; e ha restituito alla campagna il suo volto antico, come una signora senza età che si è rivestita dei suoi abiti migliori di quand’era ragazza, conservati con cura in una cassapanca, per fare festa all’ospite.
In cima alla salita si profila la chiesa bianca dall’impianto maestoso, eppure aggraziato, affiancata dal possente campanile che, nella sua solida struttura quadrangolare, testimonia la secolare vetustà, e il cui tetto slanciato, di forma conica, conferisce movimento e leggerezza all’insieme, quasi a voler sfiorare le nuvole che fluttuano lente, soffici come bambagia.
Di colpo, a metà della salita, sulla sinistra, si apre un sentiero incassato fra due muri di giardino: in mezzo, fissando attento l’intruso, se ne sta un magnifico gatto dal mantello striato, un gattone robusto ma pacifico, simile a una minuscola tigre che, sazia e pasciuta, guarda con circospezione, ma senza aggressività, il mondo circostante.
I nostri sguardi si incontrano e si sostengono per qualche minuto; poi, il desiderio di esplorare quel viottolo nascosto, tappezzato d’erba come una carrareccia, prende il sopravvento, e il gatto retrocede agilmente davanti ai passi dell’intruso che, con inopportuna curiosità, invade così sfacciatamente il suo piccolo regno.
Più volte il gatto rallenta e si volta a sbirciare; il viottolo incassato fra i due muri descrive una curva e, per qualche istante, i due si perdono di vista; ma poi, vedendo riapparire l’invasore, la bestiola riprende la ritirata e, non potendo fuggire negli orti vicini a causa dell’altezza dei muri lisci che fiancheggiano il sentiero, è costretta ad allontanarsi fino al termine di esso, sinché, da ultimo, scivola silenziosamente in un giardino privato.
Ora la strada procede, fiancheggiata da alcune case, direttamente verso il piazzale della chiesa: la salita è ripida e lontana dal centro del paese, per cui nessun veicolo passa a disturbare la quiete del pomeriggio di marzo; ancora pochi minuti e ci siamo.
Da qui si può godere una vista magnifica: sia verso valle, con la pianura tutta disseminata di campanili, fino al grande fiume che scorre in lontananza, sia verso la catena di alte colline che si snodano allineate, dai fianchi ripidi e boscosi e la cui sommità segna un preciso limite fitoclimatico: le pendici a mezzodì, ben soleggiate, ospitano una flora termofila di pioppi e roverelle, mentre in quelle a settentrione, che restano in ombra, prevalgono querceti e carpineti.
Le montagne imponenti, bianche di neve, da questa posizione non si possono vedere, perché nascoste dai colli.
Al di sopra della chiesa si innalza una di queste colline, molto ripida, come una piccola montagna verdeggiante scagliata dalla possente mano di un gigante sul limitare della pianura; i filari dei vigneti si arrampicano coraggiosamente fino a due terzi delle pendici e solo verso la sommità si arrendono e cedono il passo ai bosco; sulla cima si staglia la sagoma di una piccola chiesa, che fu costruita parecchi secoli fa, dopo la distruzione del castello feudale.
Nell’aria chiara e profumata di questo marzo vigoroso e pure inaspettatamente dolce, lo sguardo può spaziare per un largo tratto intorno e bearsi di una ricca varietà di forme, di colori, di audaci prospettive, di scorci inattesi d’incantevole bellezza.
E poi la luce: questa luce di marzo che è tutta particolare e che si posa sulle superfici obliquamente, quasi baciandole e traendo da esse delle ombre nette, non così lunghe come la luce invernale, né  così brevi come quella estiva.
È un piacere per la vista lo spettacolo dei colli inondati dal sole ed è un piacere per il corpo il movimento fisico, il camminare ora in salita, ora in discesa, seguendo gli avvallamenti del terreno e respirando l’aria pura e il silenzio amichevole.
Tutte queste colline sono disseminate di cappelle, di oratori, di edicole religiose, che scandivano le processioni primaverili dei contadini, allorché si recavano al santuario per invocare da Dio un buon raccolto e la protezione contro la tempesta.
Allora i vigneti non erano protetti, come lo sono oggi, mediante le reti anti-grandine, ma soltanto per mezzo della fede degli uomini e delle donne di queste comunità rurali; anche gli animali domestici, anche gli attrezzi da lavoro venivano benedetti nel corso delle rogazioni.
Oggi, il viandante che si imbatte in questi capitelli gentili, immersi nel verde, non pensa neppure a fermarsi per cercare un pensiero devoto nella propria anima; al massimo, li considera velocemente sotto l’aspetto artistico; e, dato che sono - il più delle volte - di modesta fattura, procede oltre, senza più degnarli d’uno sguardo.
Il mondo moderno, secolarizzato e desacralizzato, non ha più tempo per simili cose: è tutto preso alla corsa della scienza e della tecnica, dai “progressi” dell’economia: si ritiene ormai adulto, emancipato; e considera con sufficienza, forse non disgiunta da una lievissima punta di nostalgia, le credenze dei nostri nonni, paragonandole al balbettio d’un infante che ancora non sa, che ancora crede alle favole.
Ma c’è dell’altro.
La notte, nella stagione estiva, proprio queste colline, e questa in particolare che domina la chiesa parrocchiale, si accendono di luci strane e risuonano di misteriosi tamburi; ogni tanto, di giorno, qualcuno si imbatte, presso le ceneri di un falò, nei resti di un povero animale ucciso, o in qualche strano oggetto simile a un amuleto.
Si sussurra, e talvolta si dice apertamente, che, su queste colline, a partire dalla notte di San Giovanni, vengano celebrate delle messe nere: è una cosa che va avanti da diversi anni, senza che sia mai emerso qualche elemento più preciso.
Ragazzate, dice qualcuno. Sarà. Ma questo genere di giochi, se così li vogliamo chiamare, non è mai innocente; e, soprattutto, difficilmente rimane senza conseguenze. Non si scherza impunemente con simili cose.
Anche questo, però - questa evidente sottovalutazione dei pericoli insiti nelle pratiche del satanismo, anche le più rozze e dilettantesche - è un effetto del secolarismo e di quel senso di onnipotenza che animano lo spirito dell’uomo moderno, l’uomo faustiano che ha stretto un patto col Diavolo in cambio di sapere, potenza e giovinezza.
Se i luoghi, come molti ritengono, hanno un’anima, al pari degli esseri umani, allora non è indifferente che l’anima di questo luogo, dopo essere stata pervasa lungo i secoli da pensieri pii e devoti, colmi di fede in Dio, e pacificata dalle benedizioni dei sacerdoti, venga ora sollecitata da evocazioni maligne, da pensieri blasfemi, da sacrileghe cerimonie notturne.
Quali forze vengono evocate, quali energie sono messe in circolo dai pensieri e dai sentimenti degli esseri umani, in un determinato luogo?
Eppure, non bisognerebbe dimenticare che l’uomo, anche qui come altrove, è soltanto un ospite della natura, non un padrone o un signore; egli non è l’unico abitante di questi luoghi. Milioni di piante, di fiori, arbusti, di alberi, popolano le colline; e, nell’umida penombra del sottobosco, innumerevoli insetti brulicano nell’aria, mentre rane, salamandre, serpenti, ricci, volpi, caprioli, si muovono tra le fronde e centinaia di uccelli volano in mezzo ai rami e al di sopra delle chiome, riempiendo l’aria con i loro svariati richiami.
Da quando gli uomini hanno voltato le spalle al sacro e hanno incominciato ad adorare gli idoli del progresso e del benessere, l’armonia che esisteva tra essi e il resto del creato si è incrinata; l’equilibrio si è rotto, forse irreparabilmente.
E ciò non soltanto in conseguenza della scellerata manipolazione, sempre più invasiva, delle cose da parte dell’uomo, ma proprio anche a seguito delle nuove energie spirituali che sono state rilasciate nell’ambiente e messe in circolo: energie, troppo spesso, di segno negativo, brutalmente egoistiche, ciecamente possessive.
Ora la strada ridiscende verso il paese, tranquilla e silenziosa.
Quasi al termine della discesa, una grande villa circondata da un parco, i cui muri rossicci sono incredibilmente tappezzati d’edera, crea una suggestione d’altri tempi: è un colpo d’occhio straordinario, simile allo scenario d’una rappresentazione in costume.
Poco più avanti, proprio al termine della via, si innalza una chiesetta medievale, antica di otto secoli, costruita dalla pietà del figlio naturale del signore feudale di questi luoghi e affidata alle cure di un celebre ordine monastico-cavalleresco.
L’esterno è quanto mai semplice e disadorno; ma, all’interno, le pareti sono in gran parte affrescate da un ignoto maestro del XIV secolo: non certo un artista di grande rilevanza, e tuttavia un discreto interprete del sentimento religioso popolare.
Nella penombra del piccolo tempio, rischiarata dagli alti finestroni laterali, si snodano scene vivaci con immagini di santi e di sante, con Madonne dallo sguardo ingenuo e il divino Figlio in braccio, e con un Cristo deposto dalla croce, con il capo inerte reclinato sulla spalla, non privo di una “vis” drammatica intensa e altamente significativa.
Questa era la Bibbia dei poveri, la Bibbia degli analfabeti: ed è stupefacente pensare che queste stesse immagini, al di sotto di questo stesso soffitto ligneo con le travi a vista, potevano essere contemplate dai fedeli vissuti una sola generazione dopo quella di Dante Alighieri, il cui mondo materiale e spirituale era così distante al nostro, quanto lo è la Luna dal nostro pianeta.
Nel silenzio carico di vibrazioni mistiche, con un raggio di sole che entra dalla porta socchiusa e accarezza la figura di un santo dalla veste dai colori vivaci e dallo sguardo rapito in chissà quali sublimi lontananze, è malinconico pensare che il linguaggio di queste immagini, di questi simboli, sia ormai muto all’anima degli uomini moderni.
Viene alla mente quella pagine di Henri Lefebvre intitolata «Note scritte una domenica nella campagna francese», in cui il filosofo francese svolge una serie di amare riflessioni ispirategli, appunto, da una passeggiata domenicale che si svolge intorno e dentro la chiesa di un villaggio rurale.
Il pensiero dei secoli della fede collettiva, dei secoli della grande fede in Dio, non gli suscita che tristezza e rammarico per una vita sociale che, a suo dire, fu svuotata di senso, fu alienata in nome di una realtà “altra”, trascendente e inafferrabile; mentre la vita “vera” passava loro accanto, quegli uomini e quelle donne inseguivano la chimera di un sogno impossibile, il sogno del divino e della vita dopo la morte, prodotto dai “cascami” delle loro speranze deluse, delle loro inascoltate, diuturne sofferenze.
Non è questa l’impressione che produce in noi la semplice, fervida fede che traspira dagli affreschi e dalle pietre di questa veneranda chiesetta di paese: non pensieri amari e quasi di rabbia per una vita che sarebbe stata “rubata” ai nostri avi da un complotto di preti astuti e malvagi, ma la chiara, trasparente verità di una dimensione dello spirito che essi vivevano con pienezza e che illuminava le loro povere esistenze con un raggio di eternità.
Non si tratta di dettagli: è importante, è fondamentale avere qualcosa in cui credere: qualcosa che rivesta di significato l’esistenza dei singoli e delle comunità. Solo chi vive in maniera inconsapevole, alla giornata, non si cura d’altro che di soddisfare le proprie esigenze materiali e di avere sempre, per quanto possibile, il portafogli ben fornito.
Forse questo ci stanno dicendo i santi e le sante, nella dolce quiete della piccola chiesa medievale.