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Viaggio nella "Zona" grigia dove persino il male non ha più alcun colore

di Stenio Solinas - 16/03/2011

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Che cos’è la Zona? Un luogo geografico, un luogo della mente, oppure l’uno e l’altro, il territorio delle divinità irate e crudeli che dall’antichità al mondo moderno non è mai cambiato, ma è divenuto irriconoscibile, la terra desolata dove Polemos, il dio della guerra, celebra se stesso?
Sul treno che da Milano lo conduce a Roma, Francis Servain Mirkovic, alias Ivan Deroy, si pone questa domanda: è giovane, è un «funzionario della Difesa» francese, nome ambiguo per una professione che in virtù dell’interesse nazionale mette la sordina ai diritti civili, è in fuga dal proprio mestiere e dalla propria vita. Porta con sé una valigetta, dove è documentato il male. Foto, liste di nomi, riepilogo di operazioni, depistaggi, esecuzioni, la Zona grigia delle ombre e delle manipolazioni, la faccia nascosta della politica e in fondo dell’esistenza, lì dove non esiste il dubbio e viene esaltato il pragmatismo: ogni problema ha sempre la sua soluzione, ciascuno ha il suo diavolo da abbattere e più si è radicali nella risposta meno la domanda si ripresenterà a tormentarci.
Francis è uno che si è ritrovato sprofondato nella fascinazione della violenza, la sua, quella degli altri, ci si è dissolto dentro. Ne vorrebbe uscire, ma non sa come, e fatica anche ad afferrarne il perché. Se tutto fosse dovuto a una tara ideologica, tutto sarebbe più semplice: da ragazzo Francis è stato fascista, e forse lo è ancora, il culto delle uniformi, una certa mistica del coraggio e della morte, del sangue e del suolo, qualche nome di scrittore maledetto più orecchiato che letto, Brasillach, Pound... Ma suo padre, che ha fatto la Resistenza, nella guerra di Algeria si è ritrovato a torturare i partigiani algerini che lottavano per la loro libertà e la loro indipendenza... E poi, erano fascisti i comunisti dei gulag, l’esercito rosso che costella di stupri e di stragi la sua avanzata verso Berlino? Fascisti i guerriglieri palestinesi in Libano, ma anche i falangisti libanesi che a Sabra e Chatila passarono a fil di spada donne e bambini, e gli israeliani che li lasciarono fare? Fascisti i serbi ortodossi e fascisti i croati cattolici, fascisti i musulmani iracheni e fascisti i marines americani di Abu Grahib?
L’ideologia ridotta a psicologia non è mai un buon affare e Francis se ne rende conto, lui che a combattere nella ex Iugoslavia comunque c’è andato, croato da parte di madre, ha fatto cose altrettanto vergognose del serbo che combatteva sulla trincea opposta e poi, ha scambiato «il kalashnikov con strumenti di morte più raffinati ma altrettanto efficaci, cacce all’uomo, pedinamenti, interrogatori, denunce, deportazioni, ricatti, mercanteggiamenti, manipolazioni, menzogne, che hanno condotto a omicidi vite spezzate uomini trascinati nel fango destini travolti segreti portati alla luce, chissà se riuscirò a lasciarmi tutto questo alle spalle...»
Zona (Rizzoli, traduzione di Ysasmina Melaouah, 489 pagine, 22 euro) è il titolo dell’affascinante romanzo di Matias Énard, vertiginoso monologo, dove non c’è mai un punto fermo, di chi, soldato nei Balcani in fiamme, trafficante d’armi, agente segreto, traditore e tradito, vittima e carnefice, si porta addosso il peso della Storia. In Francia c’è chi ha parlato di «un’Iliade contemporanea» e l’accostamento ha una sua ragion d’essere proprio nella impraticabilità dello stesso. Lo scontro, gli eroi, il sacrificio, gli dèi, il sangue, l’orrore, la pietas consegnano il capolavoro omerico a un’epoca dove tutto si tiene, a un sistema di valori a esso funzionale, laddove la modernità dell’Occidente ha finito con l’erigere al suo posto l’ipocrita negazione di ciò che ne era alla base. Le «guerre giuste», le «bombe intelligenti», il «target mirato», il «combattimento a distanza», il «fuoco amico», le «vittime casuali» disegnano un orizzonte dove la vita del proprio singolo soldato è considerata così preziosa da giustificare in suo nome la distruzione tutto intorno. La perfezione degli armamenti accentua il senso di onnipotenza e tramuta ciò che un tempo era la norma, ovvero il combattimento, in un’eccezione che ne centuplica la violenza irresponsabile e irrazionale. La moltiplicazione delle cosiddette «guerre asimmetriche» ha fatto il resto e l’idea di un’etica del conflitto scompare definitivamente nel momento in cui non ci sono più guerrieri, ma semplici portatori di morte.
Naturalmente, si può sempre dire, come è stato scritto oltralpe, che «tutto cominciò a Troia», che Zona è un’Odissea contemporanea e Francis un Ulisse in cerca della propria umanità perduta. Ma è il Novecento delle ideologie a trasformare definitivamente l’avversario in Nemico metafisico e a scaricare sul vinto anche gli orrori del vincitore. È anche per questo che Francis alla fine non sa più distinguere e non a caso il libro si chiude con una citazione dei Cantos: «Ammettere l’errore e tenere al giusto:/carità talvolta io l’ebbi,/ non riesco a farla fluire/ Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca allo splendore».
Costruito come un unico, gigantesco periodo, eccezion fatta per un paio di inserti narrativi tradizionali, Zona non è di facilissima lettura, ma una volta entrati, come dire, nel ritmo, il romanzo scorre sull’onda di una lingua classica. Scrittore che conosce i fondamentali, da Omero a Cervantes, a Shakespeare, del Novecento Énard preferisce i maledetti: Lowry, Genet, Borroughs, Malaparte, Joyce, Pound, Céline. Avendo vissuto a lungo in Medio Oriente, disegna in modo felice Beirut, Alessandria, il Cairo, la sua conoscenza dell’Italia e dell’italiano gli permette ritratti di città, Venezia su tutti, e annotazioni psicologiche mai banali. In questo libro Énard racconta la barbarie, quella senza aggettivi e quella dal volto umano e non sai quale delle due faccia più orrore.