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Ma quel fusto è Dylan Dog o Superman?

di Roberto Alfatti Appetiti - 16/03/2011

 Parlano gli autori dell'indagatore dell'incubo



«Non serve un piano, servono pistole più grandi». No, la frase che Brandon Routh pronuncia (non aiutato dal doppiaggio, va detto) nel trailer di Dead of the Night, la pellicola che sarà proiettata da oggi nelle sale italiane in anteprima mondiale col titolo Dylan Dog – Il film, il “nostro” indagatore dell’incubo non l’avrebbe mai pronunciata. Lui che la pistola, il più delle volte, la dimentica a casa e deve essere Groucho, all’occorrenza, a lanciargliela, spesso incresciosamente scarica. Groucho, l’irrefrenabile spalla comica di Dylan che, sul grande schermo, non ha potuto seguirlo, sostituito da un personaggio inedito e a costo zero: Marcus Adams. Sì, perché l’uso dell’immagine di Groucho costa cara e i nipoti dei fratelli Marx – ci si passi il giro di parole – chiedevano più di quanto la produzione americana fosse disposta a pagare. Così come il maggiolino targato Dyd 666 non è bianco, come nel fumetto, ma nero. Già, pare che dai tempi di Herbie i maggiolini bianchi siano esclusiva della Walt Disney Company.
Non è l’unica “riverniciatura” della storia, a ben vedere, in una storia che sembra scritta appositamente per far arrabbiare i lettori più ortodossi. Di prendere un tè in un pub – Dylan, come i lettori sanno, è un ex alcolista – non se ne parla. Non con Bloch, suo capo quando era un agente di Scotland Yard e ora migliore amico. Il vecchio ispettore non ha superato il “casting” o forse non ha ottenuto la sospirata pensione e continuerà a indagare e brontolare contro i superiori per le vie di una Londra d’inchiostro mentre Dylan, per sopravvenuti impegni cinematografici, s’è trasferito dal suo ufficio di Craven Road – presumibilmente con la nave, avendo paura dell’aereo – nella tentacolare New Orleans. Dove non esercita più la professione di indagatore dell’incubo ma quella meno stressante di investigatore privato.
A trovarlo sul set durante le riprese è andato Pasquale Ruju, l’autore di casa Bonelli più pubblicato del 2010, papà di miniserie di successo come Demian e Cassidy e soprattutto sceneggiatore di Dylan Dog. Facendo fatica a riconoscere il suo “ragazzo”. «Sono arrivato mentre giravano le prime scene del film – ci racconta – e vedere Dylan Dog in canottiera e con quei muscoli m’ha fatto uno strano effetto. Diciamo che l’ho trovato molto… cambiato».
Sulla scelta del protagonista, infatti, le critiche sono state molte. Brandon Routh, perfetto nel ruolo di Superman – interpretato nel 2006 in Superman Returns – ci offre un Dylan Dog decisamente diverso dal “copione” bonelliano: muscoloso, per l’appunto, un tantino presuntuoso e del tutto privo di quell’ironia che è forse “l’arma” più seducente del personaggio creato da Tiziano Sclavi. Al posto dell’antieroe schivo e quasi controvoglia, pieno di fobie, dubbi e debolezze, in lotta contro l’orrore della quotidianità e del conformismo prima ancora che con mostri d’ogni genere, ci troviamo di fronte a un ragazzone ipervitaminizzato e senza grande varietà di espressioni, un vincente fin troppo sicuro di sé che, con la disinvoltura del buttafuori navigato, sfoggia un tirapugni d’argento in grado di catapultare i vampiri a dieci metri di distanza.
Perplessità condivise da Paola Barbato, thrillerista con tre romanzi all’attivo e da oltre dieci anni autrice di punta della scuderia di Dylan Dog: «Sarei stata contenta di scelte più felici e proprio a partire dal protagonista – ci dice – ma se qualcosa dello spirito del nostro old boy è rimasto intatto mi fa piacere che venga diffuso».
Di certo ha conservato il debole per il sesso femminile, confermandosi seduttore seriale, oltre che professionista tutt’altro che deontologicamente corretto: nel film come in ogni albo da venticinque anni a questa parte, conquisterà la sua cliente che peraltro, da sola, vale il prezzo del biglietto. Sarà sufficiente che la bellissima attrice islandese Anita Briem – nel ruolo di Elizabeth Ryan, rimasta orfana in appena tre minuti – gli chieda di aiutarla a trovare chi ha ucciso il padre (ovviamente licantropi e vampiri), perché lui rindossi gli abiti da indagatore dell’incubo.
La sceneggiatura e i dialoghi, probabilmente, non sono tra i più ambiziosi nella storia del cinema e per tenere alta l’attenzione del pubblico ci si affida alla scorciatoia dell’effetto speciale. Il tono, tuttavia, è quello della commedia horror e, se non ci si ostina a paragonarlo al fumetto, può essere una visione godibile. Più di quanto non sia stato Dellamorte Dellamore, il film diretto da Michele Soavi nel 1994, che pure sfoggiava nel ruolo dell’alter ego di Dylan Dog un più che credibile Rupert Everett, l’attore britannico cui i disegnatori di Dylan, specialmente all’inizio, si sono ispirati.
L’ottimismo non manca e non ne fanno “mistero” le altre firme del personaggio edito da Sergio Bonelli, malgrado – ci tengono a sottolineare – non siano state coinvolte in alcun modo nella realizzazione del film. Non si può parlare di un vero e proprio adattamento cinematografico, infatti, ma di una storia del tutto nuova più che liberamente tratta.
«Il fumetto è quello e quello resta – ci spiega Roberto Recchioni, autore di alcune delle storie più “chiacchierate” di Dylan Dog come “Mater Morbi”, sulla questione del fine vita – e il film non potrà cambiarlo in nessuna maniera. Certo, dispiace per l’occasione mancata di vedere una vera trasposizione filmica del personaggio, ma credo che il film sarà un giocattolone divertente: Kevin Munroe, il regista, è bravo e lo spirito sembra mutuato di peso da serie come “Buffy the Vampire Slayer”, quindi molto giocoso. Lo vedrò con curiosità, e senza troppi pregiudizi». Gli effetti, del resto, non potranno che essere positivi. «La canzone “Hanno ucciso l'Uomo Ragno” degli 883 – ci dice ancora Recchioni – ricordò agli italiani l’esistenza dell’arrampicamuri, con un conseguente balzo di vendite per la Star, editore dell’epoca. Dylan Dog già vende molto, ma il film farà bene al fumetto a prescindere perché verrà distribuito su tanti mercati diversi e ne esporterà il marchio nel mondo».
Dello stesso avviso Giancarlo Marzano, dal 2004 nella pattuglia di autori dylaniani, tutti poco più che bambini quando Dylan fece, nel 1986, la sua apparizione in edicola: «Dopo il boom mediatico degli anni Novanta e la successiva inevitabile flessione – ci dice – il film sarà utile a far conoscere il personaggio oltre la cerchia dei lettori di fumetti e anche a richiamare qualche vecchio lettore in sonno. Sbagliano i “dylebani”, come io chiamo i lettori più esigenti, quelli che rimproverano spesso anche a noi autori di non essere fedeli all’impronta iniziale datagli da Tiziano Sclavi».
L’importante è esserne consapevoli: il Dylan Dog che questa sera ci apparirà sul grande schermo non è quello che ci ha fatto compagnia per un quarto di secolo ma – come ci dice Ruju – «un personaggio vincolato dall’americanizzazione della storia». Pur rimanendo, però, un “prodotto” italiano. «Lo guarderò con benevolenza – assicura lo sceneggiatore sardo, cui è stata affidata una grande responsabilità: la realizzazione dell’albo numero 300 di Dylan Dog, atteso per l’estate – perché si tratta di un riconoscimento alla qualità del fumetto italiano in senso lato e di Dylan Dog in particolare». Tex potrà batterlo nelle vendite e nel numero delle ristampe, così come Zagor potrà vantare una permanenza cinquantennale in edicola, pari al doppio del nostro, ma l’onore della consacrazione cinematografica è toccato a Dylan. E affronterà il “mostro” Hollywood uscendone vincitore: per una volta, almeno in minima parte, i colonizzatori saremo noi e non viceversa.