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Liberi di studiare o lavorare

di Claudio Risé - 19/03/2011



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Forse sarebbe ora, come già succede nella maggior parte dei Paesi sviluppati, di lasciar scegliere a loro, ai giovani, se studiare o no. Con l’intesa che la scelta non può essere tra scuola e far nulla, ma tra studiare e lavorare. Dopo tutto, la vita è la loro. E, come ci ricorda l’insegnante (e scrittrice) Paola Mastrocola nel suo provocatorio “Togliamo il disturbo”: «Non tutti nascono soldati o sacerdoti o studiosi. C’è anche chi nasce fabbro, panettiere, meccanico, fotografo». Infatti.
Aiutando i ragazzi ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, compresa quella di non studiare, otterremmo almeno tre risultati. Il primo è che migliorerebbe la scuola, dove dopo l’obbligo rimarrebbe solo chi è davvero interessato, chi ha una passione per il sapere, e vuole approfondirla. Vincerebbe il buonsenso che dice che nessuno può imparare se non lo vuole. E tornerebbe nelle aule la naturale alleanza (caratteristica delle scuole funzionanti) tra professore appassionato e sapiente, e studente desideroso di imparare (premessa indispensabile perché, dopo, anche nelle università possa tornare ad imporsi la scienza).
Il secondo risultato è che una consistente massa di giovani rifluirebbe sulle scuole di arti e mestieri, sulle professionali, sugli istituti tecnici, consentendo una nuova vitalizzazione di quei settori, che sono poi i più richiesti dal mercato. Ogni anno le associazioni dell’industria e del commercio offrono migliaia di posti, per i quali la scuola italiana non ha formato nessuno.
Il terzo risultato diventerebbe allora quello di ridurre di molto il peggiore dei mali italiani: quel quarto di giovani tra i 16 e i 25 anni che non studiano, e neppure lavorano. Se, infatti, fin dall’inizio il messaggio passato loro fosse «o studio o lavoro», senza fissarsi sullo studio come obiettivo irrinunciabile delle famiglie, il passaggio dall’uno all’altro risulterebbe naturale e accettabile, e non un’indicibile tragedia. Come è adesso, con la conseguenza che i ragazzi, pressati a «riprendere gli studi», non fanno più nulla, scivolando in situazioni difficili dal punto di vista psicologico ed esistenziale.
Liberare risorse dall’«obbligo alla sapienza», su cui è bloccata non solo la scuola, ma anche la visione della vita dei giovani di oggi, consentirebbe poi di alimentare di più l’istruzione per gli adulti (le tre elle della «Long life learning»), che è invece veramente indispensabile nella versatile società postmoderna, dove le richieste e le competenze variano continuamente.
È inutile, infatti, costringere a studiare chi non ne sente il bisogno e la necessità, ma è invece necessario che quando qualcuno cambia idea (magari dopo qualche esperienza di lavoro), possa farlo con strutture formative adeguate, come accade nei paesi sviluppati, dove le abilità richieste sono soprattutto la prontezza e la flessibilità.
Giovani e adulti devono però collaborare per uscire dalle strettoie create da un’idea di cultura e istruzione vecchia di almeno mezzo secolo. I genitori devono spingerli a chiedersi cosa vogliono fare, assumendosene poi la responsabilità. Anche i giovani però devono appassionarsi alla propria libertà di immaginare affermazioni diverse da quelle dei loro padri e madri.
Occorrerà, probabilmente, rinunciare agli stanchi riti annuali di occupazione delle loro scuole ostinatamente materne, per uscire nel mondo, assumersi obblighi, impegni, sfide. Abbandonare l’attuale rapporto malato con un mondo adulto «che li compatisce, e ne alimenta il vittimismo», per riprendersi la libertà di scegliere se studiare o no. Insomma diventare grandi.