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Birmania - Il prezzo della libertà

di Franco Nerozzi - 05/06/2006

 

   

La colonna si ferma di scatto. Il segnale di pericolo lanciato dall’avanguardia mette tutti in stato di allerta. Le mani stringono le impugnature dei vecchi fucili automatici, le dita corrono al selettore di fuoco per verificare che l’arma sia pronta all’uso. I guerriglieri non si guardano. Accucciato nell’erba ai lati della pista polverosa, ognuno osserva il suo settore di tiro: in lontananza, i tetti di foglie essiccate delle casupole di un villaggio indicano che la nostra destinazione è a poche centinaia di metri. Qualche minuto di assoluto silenzio, rotto di tanto in tanto dalle urla dei pappagalli che popolano altissime palme e poi, ad un nuovo segnale giunto dalla testa della colonna, i giovani soldati dell’Esercito Karen si rialzano e riprendono la marcia.

Birmania Orientale, distretto di Dooplaya. Un pomeriggio qualsiasi di una giornata come tante nella più lunga guerra di liberazione della storia moderna. Da qualche settimana la Rivoluzione Karen è entrata nel suo cinquantasettesimo anno.

Più di mezzo secolo di sanguinosa lotta per l’autodeterminazione condotta da un’etnia di origine mongolo/tibetana che da 2.700 anni vive sulle montagne del Myanmar e si conquista quotidianamente la sopravvivenza. Di fronte, uno dei più armati eserciti del Sud-Est asiatico, il Tatmadaw, la macchina da guerra della giunta di Rangoon, lo strumento con cui i generali al potere in Birmania cercano di liquidare l’insurrezione del popolo Karen.

“Noi ci battiamo per la nostra indipendenza, per difendere l’identità del nostro popolo, per mantenere le nostre tradizioni. È fuori discussione qualsiasi ipotesi di resa”. Parla un perfetto inglese il colonnello Nerdah Mya, che comanda il 201 battaglione del Knla (Karen National Liberation Army). Il giovane ufficiale, figlio del leggendario eroe della resistenza Karen, l’ottantenne Bo Mya, ha studiato qualche anno negli Stati Uniti. Per questo ragazzo dallo sguardo amichevole, l’anziano guerriero, lo spietato combattente che i generali di Rangoon non sono mai riusciti a comprare né a sconfiggere, aveva programmato una esistenza “normale”, lontana da quella giungla infestata di mine antiuomo, percorsa dalle squadre della morte birmane, teatro di un genocidio condotto con meticolosa crudeltà attraverso esecuzioni di massa, stupri sistematici, torture.

“Studiavo in un college, frequentavo corsi di letteratura, pittura, recitazione. Avevo anche ottenuto il brevetto di volo, per diventare un giorno pilota commerciale”, prosegue Nerdah sorridendo, mentre ci offre una tazza di tè in una capanna del villaggio di Kler Saw, “ma nel 1995, mentre mi trovavo qui per una breve visita alla mia famiglia, iniziò la grande offensiva birmana contro la nostra capitale, Manerplaw. Nel giro di pochi giorni tutto il fronte si sgretolò, l’esercito Karen fu costretto alla fuga, decine di migliaia di profughi si riversarono in Thailandia per cercare una via di salvezza. Anche molti combattenti si rifugiarono nei campi di accoglienza. Sembrava l’epilogo della rivoluzione Karen”.

In quelle drammatiche giornate, il giovane studente di Letteratura prende la sua decisione: non partirà più per tornare alla comoda vita del college americano. Rimane tra la sua gente, e affianca il padre e i fratelli nella proibitiva impresa di riorganizzare la resistenza. “Sarebbe stato come tradire il mio popolo, mi sarei vergognato per tutta la vita se me ne fossi andato” prosegue, “riprendemmo la lotta con trenta combattenti, che erano stati le guardie del corpo di mio padre. Ottenemmo clamorosi successi con operazioni temerarie. Era il segnale che i Karen erano ancora decisi a battersi come prima. Ben presto, incoraggiati da queste notizie, molti altri soldati si unirono a noi. Oggi possiamo contare su diecimila combattenti, tutti volontari, tutti profondamente motivati”.

Nel villaggio - una trentina di casette in bambù e tek immerse in una prepotente giungla - si muovono contadini dall’aria serena, giovani madri con i figli in grembo, bambini sorridenti che vengono ad osservare curiosi i “visi pallidi” che accompagnano i soldati.

Siamo qui per completare il consueto rifornimento di farmaci ad un presidio che assicura assistenza sanitaria agli abitanti di questa zona. I medicinali, introdotti clandestinamente attraverso il confine tailandese, vengono forniti dalla Comunità Solidarista Popoli (www.comunitapopoli.org), un’associazione italiana che da cinque anni sta al fianco dei Karen, facendo funzionare cliniche e scuole e introducendo medici e infermieri per prestare cure alla popolazione.

“La malaria è la prima causa di morte da queste parti” dice Marco Ghedina, vicepresidente di Popoli, “seguita da altre patologie che da noi non rappresenterebbero pericoli gravi per la vita del paziente. Ma qui, dove per anni non si è vista nemmeno un’aspirina, anche una semplice infezione gastrointestinale procurava la morte di un bambino nel giro di qualche giorno”.

“Oggi, nelle aree coperte dalle cliniche, il tasso di mortalità è sceso drasticamente” interviene Diamond Khyn, responsabile del dipartimento per il Welfare e la Salute dell’Unione nazionale Karen, “e noi non saremo mai abbastanza riconoscenti a Popoli per essere qui, dove altre organizzazioni non vogliono venire”.

Già, essere qui, in questi villaggi che sono testimonianza della fierezza e l’orgoglio di un popolo che non vuole essere suddito. Per molte organizzazioni umanitarie i Karen dovrebbero lasciare la lotta armata, piegarsi alle imposizioni di Rangoon per ottenere un’incerta pace. Portare aiuti nelle aree in cui opera l’Esercito di liberazione nazionale Karen equivale, secondo loro, a supportare l’insurrezione, e quindi a prolungare i tempi di un’auspicabile “pacificazione”. La risposta del popolo Karen a queste considerazioni sta tutta nei quattro principi fondamentali della rivoluzione, quattro frasi perentorie che trovi esposte in ogni campo del Knla e che dicono: “Per noi la resa non è una scelta possibile. Il riconoscimento dello Stato Karen deve essere completo. Noi non abbandoneremo le nostre armi. Solo noi decideremo il nostro destino politico”.

Osserviamo la gente del villaggio, apparentemente tranquilla nonostante viva a meno di mezz’ora di marcia dal più vicino campo militare birmano. Guardiamo questi giovani soldati, sedici, diciassette anni, lo sguardo pulito, le facce sorridenti mentre siedono accanto ai veterani della guerra che sono i loro istruttori, i loro padri, la loro famiglia. Sanno che da un momento all’altro, in modo improvviso come accade sempre, potrebbero trovarsi nel pieno di una battaglia, faccia a faccia con il nemico.  E i birmani si fanno sentire, proprio ora, con qualche colpo di mortaio che cade lontano. Il colonnello Nerdah ascolta il walkie-talkie. Dopo aver impartito qualche ordine, con aria pacifica lo ripone nella tasca della mimetica e riprende a mordicchiare un pezzo di noce di cocco, facendoci capire con questo che la situazione è tranquilla.

Nerdah è particolarmente odiato dagli ufficiali birmani di questo distretto. La sua meticolosa guerra alla produzione e al commercio di droga crea non pochi danni ai trafficanti e ai loro protettori della giunta. Un suo reparto è specializzato nell’assalto e nella distruzione delle fabbriche di anfetamine, una cinquantina circa lungo il confine. Si calcola che, annualmente, la produzione birmana delle famose “pasticche” che i nostri giovani consumano nelle discoteche, abbia raggiunto i settecento milioni di unità.

“La droga non è soltanto un male accidentale per la società che la usa” spiega il colonnello, “la droga è anche una vera e propria arma, utilizzata per distruggere la resistenza di un popolo e per annientare la dignità degli uomini che lo compongono. Per questo siamo costretti ad essere molto severi, quasi brutali nel punire chi la usa e chi la vende. Va ricordato inoltre che per il regime birmano essa costituisce una preziosa fonte di guadagno, maggiore di quella rappresentata dagli investimenti delle aziende straniere”. Sì, perché i generali dello Spdc, acronimo di Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (il governo birmano, ndr), mantengono stretti e remunerativi rapporti commerciali anche con numerose multinazionali occidentali, in particolare con quelle interessate allo sfruttamento delle risorse energetiche del Paese. Nel consorzio del gasdotto di Yadana, che va dal Golfo delle Andamane fino in Thailandia, troviamo ad esempio la statunitense Unocal, già famosa per aver flirtato a lungo con le milizie talebane in Afghanistan quando queste cercavano di distruggere la resistenza patriottica del comandante Massoud. E attorno al gasdotto in questione sono quotidiane le violenze dell’esercito e le deportazioni ai danni delle minoranze etniche che abitano i territori attraversati dall’opera. Un’impresa portata a termine grazie al lavoro forzato di migliaia di uomini e bambini e al prezzo di violente offensive guidate da ufficiali birmani a bordo di elicotteri forniti dalle multinazionali coinvolte.

Un ragazzo armato di lanciagranate e avvolto in una bandoliera di proiettili si avvicina e chiede di parlare con il colonnello. Nerdah lo ascolta e poi ci fa segno di seguirlo tra le capanne. Arrivati ai limiti del villaggio, ci viene incontro un gruppo di civili carichi di ceste di bambù intrecciato e chiaramente affaticati da un lungo viaggio. Sono una quindicina, scortati da una pattuglia di giovani guerriglieri. Sono profughi arrivati da un villaggio a circa due giorni di distanza da qui… “I birmani hanno sparato con i mortai, poi sono entrati nel villaggio. Hanno ucciso le prime quattro persone che hanno incrociato, due erano bambini”, dice Bo Wa che è riuscito a fuggire con la moglie e i due figli, ma ha perduto ogni contatto con il fratello e i nipoti. “Per due notti abbiamo camminato nella giungla con il terrore di essere raggiunti dal Spdc, con la paura di calpestare le mine antiuomo. Quando abbiamo incontrato una pattuglia dell’esercito Karen siamo scoppiati a piangere di gioia”.

Ora agli sfollati non resta che scegliere: rimanere qui, in piena zona di guerra, ma sotto la protezione della resistenza, oppure tentare di raggiungere un sovraffollato campo profughi in territorio tailandese, dove li attende una vita circondata dal filo spinato.

Mentre la sera scende sul villaggio, facciamo rientro al campo trincerato che ospita la compagnia che protegge questa parte del fronte. I soldati si lavano nel ruscello, insaponano le mimetiche, puliscono i fucili. Alcuni preparano la cena. Altri si caricano gli zaini in spalla per andare a montare la guardia sulle alture che circondano il campo. Dalle colline arriva il suono di colpi cadenzati di mitragliatrici pesanti. Nerdah guarda i suoi ragazzi, nati in guerra, cresciuti tra i campi profughi e le trincee. Ha portato loro qualche “regalo”: zanzariere per difendersi dagli insetti, qualche calzatura anfibia, una decina di amache su cui coricarsi, delle piccole torce elettriche, confezioni di caffè solubile, una nuova chitarra per le loro canzoni.

Un capo deve fare anche questo, far sentire ai suoi che qualcuno pensa sempre a loro, che non sono soli. “Mio padre ha combattuto in questa giungla per quasi quaranta anni” dice Nerdah mentre ci versa del caffè bollente, “moltissimi uomini sono morti per lui e per la causa della rivoluzione. E vi posso assicurare che, anche dovessimo attendere altri quarant’anni per ottenere il nostro scopo, ci saranno sempre su questi sentieri dei guerrieri pronti a morire per conquistarsi la libertà. Noi non possiamo comprarla con il denaro, possiamo ottenerla solo in cambio del nostro coraggio, della nostra lotta e del nostro sangue”.