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Perché le principali potenze mondiali hanno deciso di attaccare militarmente la Libia?

di Miguel Martinez - 30/03/2011


guerree

Nei commenti al post su Libia, la rivoluzione sconfitta, Lorenzo – curatore dello splendido sito Antiwar Songs - notava come “la questione libica stia dividendo anche il ristrettissimo campo di chi si oppone alle guerre” e citava un‘intervista a Gabriele Del Grande.

Gabriele Del Grande cura il sito Fortress Europe, una fonte impareggiabile di informazioni sulle catastrofi migratorie. Attualmente, a differenza del sottoscritto, si trova a Benghazi, e quindi certamente ne sa di più sulla Libia di me, che me ne sto qui a Firenze travolto da notizie sempre più strampalate.

Lui si schiera nettamente con i ribelli, una scelta che non contesto. E che lui rivendica in modo onesto, criticando anche certi eccessi propagandistici:

“non citerei la tv Al Arabiya che ha messo in giro la cifra falsa dei 10.000 morti, e tutte le altre testate che hanno rilanciato senza prove la notizia dei bombardamenti sulle folle dei manifestanti e delle fosse comuni arrivando addirittura a usare a sproposito la parola genocidio.”

Dove, però, non mi trovo affatto d’accordo con Del Grande è riguardo al contesto internazionale.

Vengo dall’America Latina, dove nel 1898 gli Stati Uniti decisero di intervenire umanitariamente a fianco di una rivolta antispagnola scoppiata a Cuba, una rivolta del tutto spontanea e ampiamente giustificata. I ribelli arrivarono al governo; ma gli Stati Uniti arrivarono al potere, e se lo tennero per quasi sessant’anni.

Del Grande dice:

“In Libia, come in Tunisia, in Egitto, in Yemen, e adesso anche in Siria, le rivolte sono state spontanee e popolari e non sono il frutto di complotti americani, ma piuttosto la risposta più naturale che potevamo aspettarci dopo decenni di dittature sostenute dalle grandi potenze in nome della stabilità e dei buoni affari.”

E’ un argomento un po’ capzioso, perché in realtà pochi sostengono che le rivolte siano il frutto di complotti esterni.

E’ ovvio che proteste così massicce hanno cause locali. Anzi, il problema in un certo senso consiste proprio nella loro spontaneità, che le espone a ogni sorta di manipolazione. Lenin era abbastanza poco spontaneo da riuscire a sfruttare i tedeschi che lo inviarono in Russia; i cubani del 1898 erano invece, per l’appunto, spontanei.

E l’esito delle rivolte dipenderà proprio dal rapporto tra spontaneità e manipolazione – per ora, l’Egitto non promette affatto bene, figuriamoci la Libia.

Giustamente preso da ciò che vede – i giovani libici ribelli – Del Grande mette in secondo piano il fatto più importante: la Libia è un paese con una popolazione molto ridotta, ma svolge un ruolo decisivo nel sistema energetico che manda avanti il sistema mondiale e in particolare europeo.

Un dato curioso, per far capire quanto sia ampio il concetto di energia: appena a dicembre fu lanciato un progetto della Al Maskari Holding di Abu Dhabi, per un valore di 3 miliardi di dollari, per creare un “polo energetico” in Libia, che doveva fornir direttamente energia all’Italia del Sud, tramite un cavo sotterraneo che avrebbe portato energia di origine sia combustibile che solare: “la Libia ha le migliori risorse solari del mondo“, dichiara la direttrice dell’Al Maskari.

Silvio Berlusconi è un signore che ha approvato con entusiasmo ogni guerra finora condotta dall’impero americano, sgomitando per arrivare in prima fila in ogni foto di gruppo dove sventoli la bandiera statunitense.

Eppure Berlusconi, che è pittoresco ma per nulla stupido, si è trovato in tremendo imbarazzo con l’attacco alla Libia; e il perché si capisce agevolmente pensando appunto a questioni come la creazione del “polo energetico”. Del Grande sottovaluta Berlusconi, attribuendo il suo comportamento a fattori psicologici:

“Berlusconi dice così un po’ per il suo delirio di onnipotenza e la sua continua ricerca di un posto tra i grandi statisti della storia italiana. E un po’ per distrarre l’opinione pubblica italiana e internazionale dall’immagine di puttaniere che gli si è ormai incollata addosso dopo gli ultimi scandali sessuali così morbosamente indagati da magistratura e stampa italiana.”

Davvero? Per il pubblico mediatico, Berlusconi avrebbe fatto molto meglio a farsi fotografare su un cacciabombardiere assieme a Obama. Ma esiste un pubblico che Berlusconi deve veramente ingraziarsi: quello degli imprenditori italiani che si trovano davanti lo spettro dello scippo energetico francese e della fine dell’accesso privilegiato dell’Italia all’energia e ai contratti in Libia.

Per Del Grande, l’attacco internazionale sarebbe una sorta di capriccio dell’ultimo momento:

“Domanda: Perché credi che gli USA, l’UE e pure l’Italia abbiano deciso per un intervento “umanitario” contro un amico e alleato?

Risposta: Credo fondamentalmente per un errore di calcolo. Mi spiego. In un primo momento sembrava che il regime di Gheddafi sarebbe imploso su se stesso [...] E in quei giorni c’è stato un rincorrersi delle potenze mondiali per condannare la dittatura libica e mandare segnali di apertura agli insorti [...]. Poi è successo che Gheddafi si è dimostrato un osso più duro del previsto [...]. A quel punto le potenze internazionali hanno dovuto fare una scelta per proteggere i propri interessi in Libia.”

Non essendo di solito ammesso, nemmeno come traduttore, a certi vertici, non so come siano andate le cose. Comunque, se fossero andate come dice Del Grande, si sarebbe trattato di una decisione presa nel giro di pochissimi giorni.

Ora, sappiamo che per attaccare l’Iraq, tutte e due le volte, gli americani ci hanno messo dei mesi; persino dopo l’11 settembre, ci hanno messo due mesi prima di attaccare l’Afghanistan.

Ma una prova contro la tesi di Del Grande, lo porta un berlusconiano d’assalto, il giornalista di Libero, Andrea Morigi, militante di Alleanza Cattolica. Un filoamericano feroce, tanto da aver attaccato anni fa il sottoscritto in un articolo su una rivista chiave della destra americana che conta, National Review.

Ora, se Andrea Morigi se la prende con il grande alleato degli Stati Uniti, Nicolas Sarkozy, ci deve essere un motivo assai più serio dei bunga-bunga del Capo.

E quel motivo è con ogni probabilità, in primo luogo, la decisione di Nicolas Sarkozy di imporre l’egemonia francese sulle risorse libiche con la forza. Ricordiamo infatti che nel 2007, la Francia aveva firmato contratti preliminari per cifre astronomiche con la Libia, contratti che Gheddafi non aveva rispettato, sostituendo le ditte francesi con ditte italiane.

Semplicemente, Andrea Morigi ci informa che i francesi stavano già armando gli insorti libici “all’inizio di marzo“. Eseguendo quindi un progetto che risaliva addirittura allo scorso ottobre, come ci informa Franco Bechis, sempre di Libero, in un articolo che abbiamo ripubblicato qui.

Non si tratta di cercare spiegazioni “complottiste”, come le chiama Del Grande, all’insurrezione libica. Si tratta di cercare di capire perché una coalizione delle principali potenze mondiali abbia deciso di attaccare militarmente la Libia. La prima è una questione importante per i libici; la seconda per tutto il mondo.

Che volenteroso Sarkò: paga pure le armi ai ribelli

di Andrea Morigi

Era già partita all’inizio di marzo la “guerra umanitaria” di Nicolas Sarkozy contro Muammar Gheddafi. L’inizio delle ostilità si può datare con l’arrivo a Bengasi di un carico di cannoni da 105 millimetri e di batterie antiaeree, camuffato da aiuti umanitari alla popolazione civile. Mittente, il governo francese, che fa accompagnare la spedizione da propri istruttori militari, i quali, non appena toccano terra, iniziano l’addestramento degli insorti.

Non ne fanno mistero, a Parigi. Anche se il settimanale Le Canard enchaîné, che ne dà conto nell’edizione del 16 marzo, nasconde la notizia in una pagina interna. Sotto un titolo che punta tutto sul dissidio fra il presidente della Repubblica, i vertici militari e il ministero degli Esteri, però, il giornalista Claude Angeli informa della consegna del materiale bellico, avvenuta già «da una decina di giorni», da parte del «servizio azione della Dgse», cioè l’intelligence francese.

Dunque, tutto il dispiegamento di arsenale e personale militare si svolge precedentemente alla risoluzione 1973, adottata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 17 marzo, in cui si chiede «un immediato cessate il fuoco» e si autorizza la comunità internazionale a istituire una no-fly zone in Libia e a utilizzare tutti i mezzi necessari per proteggere i civili.

Non stupisce più che il ministro dell’Interno Claude Guéant nei giorni scorsi abbia definito «una crociata» l’azione svolta da Sarkozy in seno all’Onu. Ora dice di essere stato frainteso, che non intendeva bandire la crociata dell’Occidente contro l’Oriente. Eppure lo ha capito anche Jean-Marie Le Pen: «Accuso il governo francese di aver preparato questa guerra, di averla premeditata», ha dichiarato ieri l’ex presidente del Front National.

Ci stanno ben attenti a Parigi, a rispettare la risoluzione dell’Onu che esclude ogni «forza d’occupazione» e soprattutto a non eccitare gli animi dei musulmani con cui stanno giocando alla guerra santa. Lo sanno perfettamente che l’occupazio ne del suolo islamico da parte degli infedeli è considerata un sacrilegio, un’onta da lavare col sangue. Le insorgenze in Iraq e in Afghanistan qualcosa hanno insegnato.

Perciò ora, insieme alle aviazioni e alle marine militari statunitensi e britanniche bombardano dal cielo e dal mare, ma ufficialmente non mettono piede sul terreno,anche se non si possono escludere incursioni clandestine da parte di commandos, sabotaggi, qualche provocazione.

Sarebbe uno spreco rinchiudere la Legione Straniera in caserma, del resto. Tanto più che, come ha rivelato ieri Libero, l’ex braccio destro del colonnello libico, Nouri Mesmari, in cambio dell’asilo politico, ha messo a disposizione della Francia, già da ottobre, tutte le informazioni necessarie per entrare in azione.

Non è una coincidenza che gli Stati maggiori di Parigi e Londra avessero predisposto da settimane gli scenari d’intervento in Libia. Avevano già scelto anche il nome in codice dell’operazione, South Mistral. Ora la chiamano Harmattan in francese ed Ellamy in inglese, con una variante americana, Odissey Dawn, ma la sostanza è la stessa. Ed è anche la stessa ipocrisia conla quale i francesi sostengono di agire per portare soccorso alle popolazioni civili.

Dimenticano che, quando sono armati, i civili diventano militari. Sono arruolati nella resistenza, che notoriamente non è formata da donne, bambini, vecchi emalati indifesi. Che i rifornimenti di mortai, mitragliatrici, batterie antiaeree, carri armati e anche qualche velivolo, siano dono della Repubblica francese o provengano dai magazzini dell’esercito libico, in fondo non fa molta differenza.

E pare che non ci sia soltanto lo zampino di Parigi, ma anche quello di Londra e del Cairo post-Mubarak. All’inizio di marzo, un drappello formato da due agenti dell’MI6 e sei incursori delle Sas britanniche avevano già tentato di entrare in contatto con i capi della rivolta di Bengasi.

Appena scesi dall’elicottero che li aveva trasportati nella zona di missione, però, gli otto guerrieri erano stati bloccati dai guardiani di una fattoria e consegnati alla resistenza. Interrogati, non avevano svelato nulla ed erano stati poi recuperati e riportati a casa con la fregata HMS Cumberland. Il ministro della Difesa britannico aveva dovuto ammettere che erano sul posto già da tre settimane, ufficialmente per assistere piloti, nel caso in cui fossero stati abbattuti.

Ecco perché quello di venerdì 18 marzo non è stato affatto un attacco a sorpresa. Intendevano colpire. E avevano già dispiegato sul campo i loro uomini, come avevano fatto, dopo la caduta di Ben Alì e di Hosni Mubarak, anche i governi di Tunisi e del Cairo, consentendo rispettivamente l’ingresso in Libia di combattenti volontari e di almeno un centinaio di appartenenti alle forze speciali dell’Unità 777 egiziana, inviati per fornire armamenti e appoggio tattico.

Quando Gheddafi accusa le potenze straniere di volerlo rovesciare, sa di che cosa, e soprattutto di chi, sta parlando.

MISTER «FIGARO»: VENDO ARMI PER FARLE USARE
«Quando si vende del materiale, è affinché i clienti se ne servano». Così il magnate, imprenditore, politico, editore francese Serge Dassault ha risposto ad un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse delle sue armi vendute a Gheddafi. A molti, sentendo i fischi delle bombe lanciate dai Mirage fatti decollare dal presidente Nicolas Sarkozy, il nome di Dassault ha iniziato subito a ronzare in testa.

Del resto, i Mirage (come i Rafale, versione francese degli Eurofighter) escono proprio dai cantieri della Dassault Aviation, colosso dell’aviazione fondato da Marcel e ora controllato dal figlio Serge. Secondo Forbes è l’89esimo uomo più ricco del mondo, con una fortuna stimata di 7,6 miliardi di dollari.

Ma per i francesi, oltre agli aerei da caccia, Dassault è conosciuto soprattutto per essere (attraverso la società Socpresse) l’editore de «Le Figaro», storico quotidiano conservatore francese. Attività a cui, dal 2004, affianca quella di senatore dell’Ump. Lo stesso partito di Nicolas Sarkozy, con cui l’im – prenditore è legato da vecchia e stretta amicizia. Armi, politica e giornali: una miscela più esplosiva dei missili sparati dai suoi Mirage.

 

Fonte: http://kelebeklerblog.com/2011/03/28/libia-il-rispettabile-errore-del-gabriele-del-grande/.