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Punire i palestinesi scatenerà una crisi globale

di David Hirst - 07/06/2006

 

Le politiche di George Bush hanno contribuito a forgiare Hamas. Ora un inquietante parallelo con Iran e Iraq minaccia una mega-crisi. Il rischio è che le due crisi in corso – Palestina e Iraq – si fonderanno grazie ad un terzo fattore: la dichiarazione di guerra all’Iran da parte dell’amministrazione Bush, nell’interesse del loro "pupillo" israeliano

Pazienti con malattie renali croniche muoiono per la mancata dialisi; 165.000 impiegati dell’Autorità Palestinese non ricevono stipendio per due mesi e mezzo di lavoro; donne vendono gioielli per acquistare benzina o cibo... la "crisi umanitaria" della Cisgiordania e di Gaza non è la stessa del Darfur. E ciò che maggiormente scandalizza gli arabi e i musulmani è che tale crisi ha origine da una decisione politica cosciente, presa dall’unica superpotenza mondiale. Prima cosa, dicono, ci consegnate l’Iraq, attualmente sull’orlo di una guerra civile. Ora questo: un’intera popolazione affamata.

Il legame psicologico e strategico tra Iraq e Palestina non è affatto nuovo. Tuttavia, la sua fase più attuale e intensa ha avuto inizio con l’invasione statunitense dell’Iraq – concepita dai neoconservatori pro-Israele dell’amministrazione Bush come primo grande passo nell’ambito del loro disegno per un "cambiamento di regime" e una "democratizzazione" dell’intera regione, il cui epilogo sarebbe stato un insediamento arabo-israeliano.

In effetti, i professori Mearsheimer e Walt dichiarano nel loro studio 'The Israel Lobby' che non ci sarebbe stata alcuna invasione se non per Israele e, soprattutto, per i suoi partigiani negli Stati Uniti.

Tuttavia, era sempre stato indubbio che più autentica democrazia arabi e palestinesi arrivassero a gradire, di ispirazione Usa o meno, più la loro concezione di un insediamento avrebbe colliso con quella Israelo-statunitense. Questo è stato subito dimostrato, sulla scia della dichiarazione di presa del potere di Hamas, quando il presidente Usa George Bush ha asserito: "Noi sosteniamo la democrazia, ma ciò non significa che dobbiamo appoggiare governi eletti come risultato di un processo democratico". Da qui la sua amministrazione ha iniziato a progettare il “cambiamento di regime” palestinese al contrario.

La strategia dell’amministrazione Bush ha trovato complici più o meno volenterosi – europei, governi arabi, i palestinesi stessi. Ma ha sempre rischiato di rivelarsi una tattica rischiosa; più essa veniva perseguita con maggior convinzione di fronte all’opposizione che era certa dover affrontare, più probabile era l’eventualità di arrecare danno alla Palestina – alla sua stessa gente, alla regione e al mondo intero, similarmente a ciò che un altro intervento occidentale di stampo coloniale aveva già provocato in Iraq.

L’idea era di far in modo che i palestinesi, attraverso una punizione collettiva, ripudiassero le stesse persone che avevano appena eletto. Alcuni, in effetti, accusano Hamas. Ma la maggior parte incolpò in maniera molto più decisa gli Stati Uniti. Se non altro, le sanzioni hanno sortito l’effetto contrario rispetto a quanto premeditato, e hanno incoraggiato i palestinesi a venire in aiuto del nuovo governo. Sostenuto dalla sua stessa popolarità, in cima alla sua legalità elettorale, Hamas non rinuncerà facilmente al potere – "non senza una guerra", ha affermato Iyyad Sarraj, psicologo di Gaza.

Anche se gli Stati Uniti riuscissero a far cadere Hamas, sarebbe un successo di tipo catastrofico, com’è stato per il rovesciamento di Saddam. Una tale iniziativa farebbe precipitare anche la Palestina nel caos e in un conflitto interno, nient’altro che l’antitesi dell’ordine mediorientale moderno, democratico, pro-Occidente che gli Stati Uniti stanno cercando di instaurare nella regione.

È chiaro che, con la sorprendente proposta avanzata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di un referendum ispirato ad una pace finale da una parte – piano politico – e con coloro che prendono parte agli scontri di Gaza – piano militare – dall’altra, la possibilità di una guerra tra Hamas e al-Fatah è consistente.

Non è chiaro, tuttavia, se la “parte filo-americana” possa avere la meglio. "Se al-Fatah non è riuscito a combattere Hamas mentre era ancora al potere", ha dichiarato il Generale Ilan Paz, ex capo dell’amministrazione civile di Israele nei territori, "come potrebbe guadagnare controllo con Hamas al potere ed essendo essa stessa disgregata?".

Inoltre, il caos nei territori aprirebbe la strada a militanti, jihadisti e kamikaze provenienti dal resto del mondo, proprio com’è avvenuto in Iraq. L’Iran, paese non-arabo che è ora il principale difensore del radicalismo arabo, è stato più veloce rispetto a chiunque altro nell’offrire denaro al nuovo regime di Hamas.

La Palestina ora si trova tra le principali priorità di politica estera dell’Iran, come parte intrinseca delle più ampie mire strategiche e nucleari di questo paese. Abbas afferma che Hezbollah ed Al-Qaida sono già attivi a Gaza. Se non sono provenuti da questi “outsider”, da dove sarebbero partiti i razzi a lungo raggio Katyusha che hanno cominciato a bersagliare l’Israele meridionale da Gaza? Se Hamas venisse destituito, si darebbe di nuovo alla clandestinità, riprendendo le fila di una vendetta che la resistenza ha sospeso.

Quanto agli arabi, accuserebbero le conseguenze della ricaduta della Palestina tanto quanto hanno fatto per quella dell’Iraq. I propri regimi denigrati non sanno neppure cosa temere di più: il modello di un Hamas democraticamente insediato o spodestato in maniera non democratica. La prima situazione incoraggerebbe l’ascesa dei propri islamici. La guerra civile che risulterebbe nel secondo caso desterebbe tra loro passioni ancora più minacciose. Generalmente parlando, Hamas ha dalla sua parte l’opinione pubblica araba, a maggioranza islamica, e più i regimi si rimettono agli Stati Uniti nella campagna anti-Hamas, più intensa è la cattiva luce nella quale è probabile finirebbero.

Secondo Rami Khouri, illustre cronista di Beirut, la causa della Palestina rischia di essere trasformata da "nazionale" a "causa di civiltà", con "legami tra loro potenzialmente inquietanti tra eventi in Palestina-Israele e nel resto del Medio Oriente".

"Centinaia di migliaia di giovani si sentiranno ingannati e traditi. La fonte perenne di sostegno per Hamas e la promessa democratica musulmana si esaurirà lentamente in favore di una lotta armata più intensa. Smetteranno di sprecare tempo cercando di rimediare ai torti subiti attraverso una politica pacifica e democratica o attraverso la diplomazia... Abbattere il governo palestinese guidato da Hamas causerà ulteriore radicalizzazione, resistenza e terrorismo nella regione”. Ben consapevole di questo eventuale impatto, il ministro delle finanze palestinese, Omar Abdul Razeq, ha messo in guardia: "L’intera regione sarà in preda al fuoco se il popolo palestinese viene spinto verso una situazione in cui non ha nulla da perdere".

D’un tratto nel mese appena trascorso l’amministrazione Bush sembra aver percepito qualcosa dei pericoli a cui sta andando incontro. Le privazioni subite da Gaza e architettate dagli Stati Uniti erano troppo scandalose per poter essere ignorate. Durante un incontro del Quartetto (UE, Usa, ONU e Russia), Washington ha offerto 10 milioni di dollari in aiuti medici d’emergenza. La generosità è stata per lo meno meschina e riluttante, se non altro è sembrata indicare come Washington abbia smesso di sperare in un immediato "cambiamento di regime" attraverso il disastro economico. Gideon Levy, telecronista israeliano pro-Palestina, è arrivato persino a dichiarare: "Hamas sta vincendo". A malapena. Lo si potrebbe dire solo se gli Stati Uniti cominciassero a tracciare le giuste conclusioni da questo risultato di democratizzazione araba straordinariamente poco gradito – se non fosse stato per le politiche Usa, Hamas non avrebbe mai vinto le elezioni.

Ma ciò richiederebbe un rinnovamento di sentimenti fondamentale e rivoluzionario. Secondo Mearsheimer e Walt, lo straordinario attaccamento degli Stati Uniti ad Israele – quel "fardello" morale e strategico – rende una svolta del genere impossibile nell’immediato futuro. Quindi, il timore ora deve essere che, molto tempo prima che ciò possa accadere, le “relazioni pericolose” mediorientali si imporranno persino più pericolosamente di prima, e che le due crisi in corso – Palestina e Iraq – si fonderanno grazie ad un terzo fattore: la dichiarazione di guerra all’Iran da parte dell’amministrazione Bush, nell’interesse del loro "pupillo" israeliano.

 

David Hirst è stato corrispondente di The Guardian dal Medio Oriente dal 1963 al 2001. È autore di 'Senza pace – Un secolo di conflitti in Medio Oriente'.

 

 

Fonte: Common Dreams
Fonte originaria: The Guardian
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media