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The housemaid

di Federico Magi - 10/05/2011


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Sempre presente nelle rassegne festivaliere degli ultimi anni, il cinema coreano sembra essersi specializzato in storie di vendetta, sovente truce ed efferata, generata da ingiustizie palesi perpetrate ai danni di chi è apparentemente destinato a non potersi difendere in alcun modo. Anche The

Housemaid, di Im Sang-soo, presentato a Cannes e vincitore del Premio Speciale della Giuria al Courmayer  Noir in  Festival, remake di uno dei film coreani più celebrati della storia, considerato dai critici un capolavoro della cinematografia orientale (l’omonimo The Housemaid, di Kim Ki-young, del 1960), si iscrive a pieno diritto in questa categoria, raccontando una vicenda che intreccia al noir un dramma sui rapporti di potere tra classi agiate e classi subalterne.

Protagonista del film, dal 27 maggio nelle sale italiane, è Euny (Jeon Do-youn), giovane ed ingenua cameriera che presta servizio nella lussuosa casa di una coppia ricca oltre misura e in attesa di una coppia di gemelli. Diventerà in poco tempo l’amante del padrone di casa (Lee Jung-jae), restandone successivamente incinta. Ma le donne di casa, aiutate dalla governante, ci metteranno poco a scoprire l’accaduto e a riversare la loro spietata collera sulla ragazza. Un vero e proprio dramma, che parte lento e compassato e che svela solo oltre la metà del film tutti i motivi che animano una pellicola sicuramente interessante ma che aggiunge poco o nulla a un genere che, come detto in precedenza, comincia ed essere un po’ abusato a certe latitudini.

Nulla a che vedere con l’originale, rispetto al quale mutano radicalmente la personalità della protagonista e soprattutto l’atmosfera in cui sono calati i personaggi; niente che sorprenda più di tanto lo spettatore avvezzo alla cinematografia del Far East Festival, né tanto meno la critica: eppure il film di Im Sang-soo la sua buona dose di inquietudine la regala eccome, grazie soprattutto a un finale agghiacciante e all’interpretazione in crescendo della bravissima Jeon Do-youn (premiata a Cannes 2008 per la sua notevole interpretazione in Secret Sunshine, di Lee Chang-dong).

Quello che preme maggiormente al regista coreano è mettere in risalto le differenze di classe, esplicitate in modo marcato per poter supportare la tesi, peraltro sostenuta un po’ ovunque, che chi ha i soldi esercita sempre un potere su chi non li ha: «Per me, il soggetto profondo del film, la posta in gioco più importante, era descrivere quelli che chiamo i super ricchi del 2010 – afferma Im Sang-soo -, persone che vivono dietro un muro, isolati dal resto della società, protetti dal culto del segreto, ma che sono i veri dirigenti della Corea odierna. Capisco che il film possa dare l’impressione di essere un esercizio di stile barocco, ma la realtà è che sono obbligato a passare da qui per descrivere queste persone in maniera realistica».

In effetti la pellicola vive di qualche stravaganza, di qualche velato se non addirittura impercettibile umorismo che però non è mai completamente liberato, probabilmente per mantenere quella patina narrativa in cui vengono imprigionati personaggi che rappresenterebbero uno stereotipo sociale (e “culturale”) rivendicato, come d’evidenza, dalle parole dell’autore. C’è dunque un approccio ideologico nella rappresentazione ideata dal regista coreano, fatta di personaggi monodimensionali dai quali si differenza soltanto la protagonista.

La componente erotica, che si spinge fino a un feticismo esibito con notevole senso visivo (per le gambe e per i piedi femminili, in particolare), come in precedenti opere di Im Sang-soo è anche in questo caso centrale nell’economia della pellicola, funzionale a un’estetica complessiva la quale tradisce una certa eleganza formale che va un po’ a scapito della spontaneità della messa in scena. È un cinema molto teorico, quello del regista coreano, che deflagra solamente nelle ultimissime, sconvolgenti sequenze. Il finale di The Housemaid è in effetti scioccante: inquieta, disturba e resta certamente impresso nei pensieri dello spettatore, per qualche interminabile istante, anche dopo l’uscita dalla sala.