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Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur

di Francesco Lamendola - 24/05/2011



ALL’AMICO RUGGERO, CHE HA FORNITO LO SPUNTO PER QUESTO ARTICOLO

Si scrive, si parla, ci si dà da fare per trasmettere il sapere, per condividere l’esperienza della consapevolezza spirituale, per mettere a disposizione di quante più persone possibile ciò che è costato lunghe veglie e faticosi percorsi solitari: ma ha un senso, tutto ciò?
«Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur», diceva un assioma della filosofia scolastica, riprendendo un celebre aforisma di S. Agostino; ossia: «Ciò che viene ricevuto in un soggetto, è ricevuto secondo la capacità della natura del ricevente»: ed è una massima carica di una grande, antica saggezza.
Solo che i filosofi scolastici la interpretavano nel senso della immutabilità della natura del soggetto percipiente; mentre noi siamo profondamente convinti che la natura umana è modificabile e perfettibile, MA SOLO A PARTIRE DAL MOMENTO IN CUI NASCE NEL SINGOLO SOGGETTO UNA PERSONALE MOTIVAZIONE AL CAMBIAMENTO ED AL PERFEZIONAMENTO.
In altri termini: un discepolo potrebbe anche essere affidato alle cure sollecite del migliore maestro che esista al mondo: non imparerà mai un bel nulla, se egli non è pienamente disponibile ad imparare e se il suo sviluppo e la sua personale motivazione sono troppo al di sotto di ciò che gli verrà insegnato.
La grande illusione democraticista (posto che sia semplicemente una illusione, e non qualcosa di peggio) consiste appunto in questo: che si possa, anzi, che si debba insegnare tutto a tutti; che tutti possiedano uguali capacità e analoghe motivazioni al perfezionamento di sé; che tutti siano desiderosi di diventare delle persone responsabili e dei buoni cittadini, purché vengano loro somministrate le nozioni “giuste” nei tempi opportuni - che sono, poi, i tempi standardizzati della società di massa, della scuola di massa  e (orribile ossimoro) della cultura di massa.
Invece non è così, e chi lo afferma o si illude, o vuole deliberatamente ingannarsi ed ingannare: per puntare all’ideale bisogna prima passare per la verità effettuale; o, se si preferisce, per fare dell’uomo qualche cosa di bello e di lodevole, bisogna prima avere il coraggio di saperlo guardare, sino in fiondo, per quello che effettivamente è, e non per quello che vorremmo che fosse o per quello che dovrebbe essere.
I rivoluzionari e la maggior parte dei profeti di un mondo migliore hanno la tendenza a cadere in questo errore fondamentale: dicono di amare l’umanità e di desiderarne la redenzione, ma non sono abbastanza virili da guardare l’umanità senza veli e senza inganni e da accettare il fatto che la maggior parte degli esseri umani non desiderano affatto la redenzione, per la semplice ragione che non hanno alcuna consapevolezza del basso stato in cui si trovano a ruzzolare e, anzi, sono pronti a reagire con rabbia e con violenza contro chi cerchi di aprire loro gli occhi.
I maiali non vogliono ricevere le perle, delle quali non sanno che farsene, ma bensì le ghiande, delle quali sono ghiotti; e non amano chi offre loro non le ghiande, ma le perle: si rivoltano contro di lui e cercano di calpestarlo a morte (Vangelo di Matteo, 7, 6).
Questa constatazione non nasce né da spirito di rancore, né da astio o acrimonia nei confronti degli esseri umani che preferiscoono le tenebre dell’ignoranza spirituale alla luce: vi è una profonda, ineffabile armonia nell’essere, per cui tutto ha una ragione e tutto si spiega e si lega con tutto; esistono dei tempi ben precisi e delle motivazioni puramente personali, per cui solo quando un essere umano è in grado di accostarsi alle verità superiori, queste trovano un riflesso nella sua anima e vi operano una trasformazione efficace.
Se il tempo non è ancora giunto, se una motivazione personale non è stata elaborata, niente e nessuno potranno forzare quel particolare soggetto ad aprirsi alle verità di ordine superiore: e vi è una giustizia profonda in questo, perché, come abbiamo detto, ciascun recipiente è in grado di accogliere le cose secondo la propria capacità, né più, né meno.
Ecco perché l’idea stessa di rivoluzione politica è infantile ed erronea: non esistono tempi di evoluzione sincronizzati e non tutti gli esseri umani evolvono secondo ritmi fra loro paragonabili; dunque, non esistono scorciatoie per l‘instaurazione di una società più giusta, la quale potrà scaturire solo dalla piena consapevolezza di tutti i suoi membri.
Non ama veramente gli uomini, ma li disprezza, colui che non è capace di accettarli per quello che sono: con la loro lentezza, con la loro pesantezza, con la loro pigrizia; così come non ama i bambini colui che vuole costringerli a diventare, da un momento all’altro, dei piccoli adulti perfetti, saltando le fasi naturali della loro crescita.
Il rivoluzionario e il profeta del cambiamento immediato sono degli impazienti e, quel che è peggio, degli individui i quali, non avendo saputo fare la loro rivoluzione interiore (perché, se l’avessero fatta, avrebbero capito che c’è un tempo per ogni cosa), vorrebbero farla sulla pelle degli altri, dilettandosi a creare esperimenti sociali e religiosi, nel corso dei quali quanti vengono giudicati non idonei finiscono allegramente nel cestino della carta straccia - vale a dire nei campi di concentramento, nelle fosse comuni o, nel migliore dei casi, nei manicomi di Stato.
Torniamo a ripetere la legge fondamentale dello spirito: le cose ci vengono incontro spontaneamente solo quando noi siamo pronti per esse, non un minuto prima, né dopo; perché, se fosse diversamente, non sapremmo vederle né, tanto meno, accoglierle.
Per essere più precisi: le cose sono già davanti a noi, sono perfino dentro di noi: ma, fino al momento in cui la consapevolezza non si accende e non ci illumina la vista, noi non lo sappiamo, non ce ne rendiamo conto: vaghiamo nel buio come ciechi, andiamo a tentoni e sbattiamo frequentemente di qua e di là, senza nulla capire.
Ora, per aiutare le cose ad emergere, o, per parlare più propriamente, per aiutare la nostra consapevolezza a vederle, sono necessarie una “pars destruens” ed una “pars construens”: non si può cominciare dalla seconda, se prima non si è avviata la prima.
La “pars destruens” consiste nella liberazione dal falso sapere, dal falso ego, dalla falsa consapevolezza, ovvero dalla forma più pericolosa d’ignoranza: quella travestita, più o meno pomposamente, da sapienza.
Vi sono una analfabetizzazione di massa, un rincretinimento di massa, una lobotomizzazione di massa, mediante i quali la società moderna procede, passo dopo passo, con inesorabile cadenza, all’appiattimento totale, alla omologazione radicale, alla completa distruzione del pensiero critico ed all’instaurazione del conformismo ideologico più becero e avvilente.
L’opera di queste agenzie del rimbecillimento collettivo non sarebbe, tuttavia, così efficace, se non trovasse un’eco puntuale nella dimensione profonda di ognuno di noi: se in fondo a ciascuno di noi, cioè, non sonnecchiasse un cialtrone che vuol continuare a dormire nel proprio sonno voluttuoso, ma senza avere l’onestà di ammetterlo, anzi, con la pretesa sfrontata di chiamarlo veglia e, magari, di chiamarlo addirittura saggezza o perfino anticonformismo.
Quel piccolo cialtrone che sonnecchia in fondo alla nostra anima è l’io meschino che non solo si compiace di ruzzolare nel fango, ma nutre anche la pretesa di capovolgere la verità e di affermare che la sua è una nobile cavalcata sui liberi orizzonti della coscienza; ed è da lui che dobbiamo cominciare il processo di purificazione di noi stessi, prendendone consapevolezza e lasciandolo scomparire nell’unica maniera possibile: quella di guardarlo fisso e di negargli ulteriore alimento per le sue pietose fanfaronate.
Se non si ha il coraggio di guardarsi fino in fondo e di riconoscere quel piccolo buffone petulante, quel piccolo contafrottole che non sta mai zitto, ma ogni volta ne spara una più grossa del giorno prima, tanto a se stesso che agli altri, senza pudore, senza decenza, senza dignità, non si riuscirà mai a liberarsi dalla schiavitù delle false apparenze, del falso sapere, da tutta quella nebbia vischiosa che forma come un diaframma tra noi e la realtà vera e anche, paradossalmente, tra noi e noi stessi, tra noi e la parte più autentica della nostra anima.
Nessuna debolezza, dunque, se si vuole procedere sulla via della vera consapevolezza: e mano al piccone, per distruggere tutto ciò che è falso e ingannevole nella nostra visione del mondo e di noi medesimi.
Togliere, dunque, e non aggiungere, è la prima cosa da fare, quando si voglia intraprendere con decisione e con coerenza la via della consapevolezza spirituale: togliere le false certezze, le mezze verità, i giudizi preconfezionati; togliere gli autoinganni, il lavorio incessante della mente e perfino, arrivati ad un certo punto del cammino, la mente stessa, per lasciar emergere il nudo orizzonte dell’essere.
Come diceva Michelangelo a proposito della scultura, che essa, cioè, è l’arte del togliere la materia (mentre la pittura è l’arte di aggiungerla), allo stesso modo si potrebbe dire che la consapevolezza spirituale è l’arte di togliere tutto ciò che non è essenziale, tutto ciò che è pesante, tutto ciò che è mera apparenza e che fa velo allo splendore dell’essere: solo così potrà aprirsi il terzo occhio, solo così potrà manifestarsi la facoltà della seconda vista e restituire al Viandante spirituale l’immagine veritiera delle cose -  e di noi stessi.
C’è sempre tempo, per aggiungere: ma prima bisogna togliere, prima bisogna fare una bella cura dimagrante, a base di umiltà, digiuno, meditazione e preghiera.
Sissignori: anche la preghiera.
La preghiera è il canale di comunicazione fra noi e il trascendente; non a caso i “filosofi” dell’età dei Lumi si sono concentrati nello sforzo di strappare agli uomini questo canale privilegiato, di ridicolizzarlo, di distruggerlo: perché un mondo che non sa più pregare è un mondo votato all’inferno dell’immanenza chiusa in se stessa, disperata della propria impotenza o - il che è lo stesso - ubriaca della propria hybris, della propria dismisura.
Sappiamo benissimo che tutto ciò è ormai fuori moda e che, ai sensibili orecchi degli intellettuali progressisti, suona terribilmente sgradito, terribilmente molesto: tanto peggio per loro; non abbiamo appena detto che una delle prime cose da farsi è sgombrare la coscienza da tutti i pregiudizi della cultura corrente?
Ci si vuol far credere che l’uomo è autosufficiente e che la preghiera non si addice alla sua dignità, perché consiste in un inginocchiarsi davanti a qualcuno che gli è superiore; ma questa è una doppia falsità: perché, se fosse autosufficiente, non conoscerebbe l’intensa nostalgia di assoluto, che sempre gli morde il cuore; e, quanto all’inginocchiarsi, sarebbe come dire che il bambino non deve mai chiedere al proprio genitore ciò di cui ha bisogno, né confidargli le sue paure, le sue speranze, i suoi desideri, perché, se lo facesse, si umilierebbe davanti a lui. Che sciocchezza!
Eppure la cultura moderna si alimenta di simili sciocchezze; e, a forza di ripeterle con testarda, tetragona insistenza, di scriverle sui libri, di proclamarle dalle cattedre universitarie e nei salotti buoni della filosofia, ha finito per farle passare per altrettante verità indiscutibili, per altrettanti dogmi.
Sì, è proprio vero: se non si è fatto personalmente il lungo, solitario percorso della consapevolezza spirituale; e se, prima e durante tale cammino, non si è sgombrato il terreno dalle erbacce e dalle ortiche, non si riuscirà mai a vedere la luce e, quel che è peggio, si scambieranno le tenebre per la luce, la notte per il giorno.
È così che i dormienti si trasformano nei più implacabili nemici dei risvegliati: dal loro ristretto, parziale e meschino punto di vista, fatto di luoghi comuni e di frasi fatte, essi non sono in grado di accogliere la bellezza della verità e si infuriano contro chi la proclama, vedono rosso e partono all’attacco come dei tori nell’arena, quando si agita loro davanti un panno rosso.
Chi vede poco, sovente crede di vedere molto ed è portato a giudicare con severità, con asprezza, con ostilità, quanti sono giunti più in alto nel cammino della consapevolezza.
In verità, vi sono tre diverse forme o livelli di conoscenza, a seconda della prospettiva da cui si muove; lo dice con chiarezza esemplare la «Bhagavad-Gita» (18, 19-22; 58):

«In accordo alle tre influenze della natura materiale, ci sono tre tipi di conoscenza, di azione e di autori. Ascolta mentre te li descrivo.
Quella conoscenza che permette di distinguere in tutte le esistenze una natura spirituale unica, eterna, una nella molteplicità, è sotto l’influenza della virtù.
Ma quella conoscenza che ci fa percepire l’esistenza di esseri di natura differente nei diversi corpi, è sotto l’influenza della passione.
E quella conoscenza cieca alla verità e molto limitata, con cui ci si attacca a un solo tipo di verità come se fosse tutto, è dominata dalle tenebre dell’ignoranza. […]
Se diventi cosciente di Me supererai, per la Mia grazia, tutti gli ostacoli dell’esistenza condizionata. Se invece non agisci con questa coscienza, ma con falso ego, non ascoltandoMi, sarai perduto.»

Lo scopo supremo del cammino di consapevolezza, infatti, non è puramente teorico e speculativo, ma abbraccia e realizza tutti i livelli dell’esistenza, nel massimo della loro pienezza.
Lì, e soltanto lì, il cammino del Viandante trova la meta, trova la pace: lasciandosi andare alla corrente dell’Essere, facendosi una cosa sola con essa.