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La forza della donna

di Francesco Lamendola - 25/05/2011



La convinzione di molti uomini di rappresentare il sesso “forte” è involontariamente ironica e dimostra soltanto fino a che punto può arrivare l’inconsapevolezza di se stessi.
La forza fisica, è ovvio, non rappresenta che il livello più basso di ciò che chiamiamo “forza”; al di sopra di essa vi sono la forza intellettuale, la forza morale, la forza spirituale; e la forza in quanto tale, senza altra specificazione, è la sintesi di questi differenti aspetti.
Di fatto, la forza delle donne è incomparabilmente più grande di quella degli uomini; chiunque sappia osservare i fatti anche solo discretamente, non accontentandosi di restare alla superficie, se ne può rendere persuaso, attraverso innumerevoli esempi.
Ma, attenzione: dire che le donne sono, mediamente, assai più forti degli uomini, non significa esprimere un giudizio di valore, a meno di confondere il regno della quantità con la dimensione del qualitativo.
Quando mai una cosa si rivela eccellente per il semplice fatto di essere grande? Credere una cosa del genere, significa non possedere nemmeno un embrione di consapevolezza critica e lasciarsi trasportare dalle mere apparenze.
La forza tipicamente femminile è la forza lenta e paziente del toro, la forza della goccia d’acqua che scava la roccia, giorno dopo giorno, millennio dopo millennio; ci vorranno forse milioni di anni, ma alla fine essa riuscirà a spianare anche le montagne, a scavare il letto dei fiumi, a far emergere il fondo dei mari.
Non è tipicamente femminile, però, saper porre  questa forza immensa, tenace, in un certo senso implacabile, al servizio di propositi fermi e chiari; e ciò per una ragione fondamentale: la scarsa trasparenza dello sguardo.
Lo sguardo femminile è penetrante, talvolta acuto, quasi mai limpido: sa vedere a fondo, ma, spesso, in una prospettiva falsa; per cui l’immagine che si forma nella retina è una immagine più o meno gravemente deformata dell’oggetto.
Se la donna sapesse concentrare al massimo gli effetti della propria forza; se fosse capace di mantenerla unita e compatta fino al raggiungimento della meta, senza dispersioni e senza confusioni: allora ben raramente troverebbe qualcosa o qualcuno capace di opporvisi o anche soltanto di resisterle.
Che cosa non sarebbe in grado di fare una donna, qualora riuscisse a individuare con chiarezza lo scopo da raggiungere e fosse in grado di convogliare tutte le proprie forze nel suo perseguimento, senza lasciarsi deviare e senza lasciarsi confondere?
Ma il suo sguardo non è limpido: le fanno velo la sua insicurezza, la sua estrema sospettosità, la sua scarsa stima e conoscenza di sé, la sua tendenza a giudicare cose e persone secondo modalità epidermiche, emotive, irriflessive.
Intendiamoci: ella possiede doti di intuitività notevolissime; ma commette l’errore di fidarsene troppo, di assolutizzare ciò che le dice l’intuito; di non saper operare un giusto equilibrio fra la propria parte razionale e quella emozionale.
Moltissime donne credono così poco in se stesse, che basta guardarle storto, o meglio, non guardarle affatto, per mandarle completamente fuori centro: subito vanno in crisi e cominciano a interrogarsi (iniziando con l’interrogare lo specchio) per cercar di capire cosa ci sia che non va in loro, dove stiano sbagliando.
È impressionante la frequenza con la quale, interrogate su una determinata cosa, esse rispondono, con aria estremamente perplessa (che non deriva da umiltà intellettuale, ma da una sorta di panico davanti alla realtà, e specialmente davanti alle decisioni da prendere o alle scelta da fare): “Non lo so”.
Ed è così che si affidano al primo che passa, si buttano via davanti ad un uomo che non vale la metà di loro: spesso e volentieri, un uomo del genere inferiore: furbo quanto basta per farsi credere intelligente e attore quanto basta per sembrare sincero.
Inoltre, è frequentissimo il caso che esse convoglino una quantità sproporzionata di energie verso il raggiungimento di fini secondari, che non hanno saputo riconoscere come tali, ma che hanno scambiato per questioni vitali; col risultato che, quando si trovano in presenza di situazioni realmente decisive, non riescono a disporre nemmeno di quel minimo di forze che sarebbero sufficienti a risolverle in maniera soddisfacente.
Per sapere come adoperare nel modo giusto la propria forza, bisogna innanzitutto sapere chi si è e che cosa si vuole: eppure la maggioranza delle donne è carente proprio in questi due aspetti della consapevolezza.
Dobbiamo a questo punto precisare che non stiamo parlando della donna in astratto, secondo categorie atemporali, bensì della donna moderna, figlia della società odierna: della donna emancipata e sviluppata, dinamica e competitiva, secondo la lezione femminista degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Nella natura femminile vi sono, in potenza, i limiti e i difetti di cui abbiamo detto; ma solo con la modernità essi hanno preso uno sviluppo incontrollabile e hanno finito per travolgere tante altre qualità positive che, pure, rappresentano delle doti (è il caso di dirlo) tipicamente femminili.
Le nostre mamme, le nostre nonne, non erano altrettanto inconsapevoli delle donne di queste due ultime generazioni: sapevano chi erano e sapevano quel che volevano dalla vita: orrore degli orrori, secondo il vangelo femminista, volevano dei figli, volevano un uomo da amare e una famiglia da accudire!
La donna moderna, libera ed emancipata, è profondamente infelice: ha represso in sé l’istinto della maternità, si aggira con passo nevrotico su mille strade che non la avvicinano di un passo alla realizzazione di se stessa, all’equilibrio e all’armonia.
Il caso estremo della inconsapevolezza e della disarmonia della donna moderna è quello rappresentato dalle culturiste: donne che hanno deciso di “fargliela vedere” agli uomini in fatto di masse muscolari, di competere con loro sul terreno della forza fisica (peraltro, apparente e spesso ottenuta con steroidi e anabolizzanti, estremamente nocivi alla salute) fino al punto di smarrire del tutto il senso della propria femminilità.
Non stiamo dicendo che tutte le donne dovrebbero pensare solo a chiudersi in casa e a fare figli; è logico e naturale che vi siano anche delle donne che aspirano a realizzarsi in campo lavorativo, professionale, artistico, culturale o sportivo: tutto questo va bene, ma guai a vederlo come una alternativa inconciliabile con la naturale vocazione alla maternità.
La vocazione alla maternità, poi, è qualcosa di molto più profondo e di molto più sottile della semplice predisposizione ad accogliere e perpetuare la vita di un altro essere umano; è un modo dell’essere femminile, una qualità dell’anima, che si riscontra anche nella donna che non possa o non voglia avere figli, perché si è messa al servizio di un altro progetto.
Una donna può essere profondamente materna, pur non avendo figli; pur non avendo figli in senso biologico, vogliamo dire, perché ci sono sempre dei bambini da adottare o, comunque, dei fratellini, dei nipoti da accudire, specie in particolari circostanze.
Quello che la donna moderna ha perduto, speriamo non irreparabilmente, è l’istinto della maternità; istinto che non è affatto in antitesi con quello della sensualità, come mostra il caso di un’attrice quale Elizabeth Taylor, che era, nello stesso tempo, un tipo profondamente materno, sino alla tenerezza, ma anche profondamente sensuale, sino all’erotismo.
Le “belle” del cinema internazionale della generazione successiva sono un buon esempio di quel che stiamo dicendo: fredde, plastificate, anoressiche, narcisiste, nevrotiche, infelici e totalmente prive di armonia interiore, di quella particolare grazia che viene dall’essere intimamente soddisfatti non di quel che si fa, ma di quel che si è.
Un principe è sempre un principe, anche se si trova a dover lavare piatti sporchi per sbarcare il lunario; e una vera donna rimane sempre e comunque una vera donna, anche se costretta a vivere una vita avara di gratificazioni esteriori, di viaggi, di cose “interessanti”: nel semplice atto di disporre i fiori in un vaso, perfino nel semplice modo di porgere un sorriso, ella lascia trasparire la propria femminilità sicura di sé, la propria dolcezza materna che non esclude affatto, anzi include, l’eros e la dimensione sessuale.
È questo che le bambolone alla Nicole Kidman, col loro metro e settantanove (più altri dieci centimetri di tacchi), non riusciranno mai a capire; mentre Liz Taylor, dall’alto del suo metro e cinquantasette, sapeva essere infinitamente affascinante; e nessuno si accorgeva della sua piccola statura, né lei aveva bisogno di esagerare con i tacchi, perché la sua femminilità era talmente straripante, da far dimenticare tutto il resto.
E un’altra cosa: le donne di due o tre generazioni fa CANTAVANO; cantavano, vogliamo dire, abitualmente, mentre sbrigavano le faccende di casa; e Dio sa se ne avevano, di lavoro da sbrigare, con tutti quei figli dei quali occuparsi. Una persona che canta tra sé e sé, per abitudine, mentre svolge il proprio lavoro, è una persona che ha il cuore sereno.
Qualcuno può dire la stessa cosa delle donne delle ultime generazioni?
Qualcuno le ha sentite cantare, non una volta ogni tanto, ma per abitudine, mentre stanno svolgendo le loro faccende?
Il loro cuore non è sereno; la loro vita non è in equilibrio; e tutta la loro forza si logora e si disperde in cento cose secondarie, mentre resta disatteso l’obiettivo essenziale.
L’obiettivo essenziale di una vita ben riuscita è il riconoscimento della propria verità profonda, la costruzione del proprio Sé e, contemporaneamente, la fedeltà e la risposta alla Chiamata, la realizzazione del proprio progetto esistenziale.
Noi non siamo qui per caso, ma per svolgere un lavoro; e il premio del lavoro ben fatto è la stessa cosa del lavoro stesso, perché il lavoro è la riuscita di noi stessi.
Noi siamo solo potenzialmente quel che potremmo essere e quel che dovremmo essere; di fatto, ci accontentiamo delle briciole di noi stessi e ci adattiamo a vivere nel sottoscala del nostro magnifico palazzo, le cui stanze più belle e luminose restano malinconicamente disabitate.
Per la donna, la vita mancata e lo spreco della propria forza vitale consistono nel tradimento della propria essenza, della propria vocazione specifica, che è quella del maternità, nel senso più ampio del termine e non solo nel significato biologico.
La donna moderna, diceva Spengler, ha dei problemi al posto dei figli; è una donna problematica e infelice, perché non cerca la realizzazione di se stessa là dove potrebbe trovarla, ma lungo strade ingannevoli e dispersive, che sempre più la allontanano dal proprio baricentro, dalla propria verità e fecondità interiori.
Quanti errori saranno ancora necessari, quanta strada sbagliata ella dovrà percorrere, prima di rendersi conto della necessità di rientrare in se stessa?
Eppure, non è ancora troppo tardi; ci sono ancora molte ore di luce per ritornare sul sentiero giusto, che non sempre è il più comodo e visibile, prima che scendano le ombre della sera.
La nostra civiltà è avviata al crepuscolo: dobbiamo prepararci per il nuovo giorno che verrà, non indugiare inutilmente nelle ore che precedono la notte.
La donna è forte; ella può farcela.
Non abbiamo ancora detto niente dell’uomo, perché questo sarebbe un discorso a parte; ma è chiaro che la donna non può ritrovarsi senza l’uomo, né l’uomo potrebbe mai realizzarsi voltando le spalle alla donna: eppure, vi sono molti uomini e molte donne che stanno già ignorandosi a vicenda, pur se continuano a cercarsi per le esigenze sessuali o per la semplice compagnia.
È troppo poco.
L’uomo e la donna non sono due semplici, occasionali compagni di viaggio: sono due mondi complementari che, per realizzarsi, hanno bisogno di penetrare a fondo l’uno nell’altro, di sondare l’uno il mistero dell’altro.
Sì, perché vi è un mistero al fondo della loro relazione, così come vi è un mistero al fondo di ogni vita umana: un mistero che solo chi ha lo sguardo limpido su se stesso, è degno di scorgere in tutta la sua bellezza.