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Geronimo, il sognatore indomabile

di Gaetano Marabello - 25/05/2011

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La cronaca recente ha portato alla ribalta il nome di Geronimo, abbinandolo all’eliminazione disposta dal Pentagono del capo di al-Qaida Bin Laden.
La conseguente indignazione dei Nativi americani per quella che è stata considerata un’offesa alla memoria dell’indomabile guerrigliero apache è stata abbastanza comprensibile. Infatti, agli occhi del popolo rosso, Geronimo è uno degli emblemi dell’ultima resistenza dei Nativi americani all’invasione del loro continente.
Evidentemente, per gli “Occhi bianchi” (così gli Apache denominarono i Bianchi europei, per differenziarli dai “Visi pallidi” Messicani) l’incubo rappresentato dal grande combattente del gruppo chiricahua non è stato ancora metabolizzato. Eppure Geronimo, pur avendo combattuto anche contro gli statunitensi, considerò sempre i Messicani i suoi peggiori nemici. Del resto, li aveva affrontati ben prima che nelle sue terre arrivassero i primi Yankee. Egli aveva comunque ottime ragioni per tanto odio, visto che nel 1858 erano stati proprio i Messicani a trucidargli madre, moglie e tre bambini.
In quel momento lui e gli altri guerrieri erano intenti a commerciare pacificamente con gli abitanti di un paesino messicano. Al loro ritorno trovarono l’accampamento completamente distrutto. A quel tempo “Go kla yhe” (Colui che sbadiglia o che sogna) non aveva ancora assunto il suo nome di battaglia, che rappresenta una storpiatura dell’epiteto messicano di Jerome (Gerolamo). Assorbì in silenzio il suo dolore, essendo sconveniente che un guerriero temprato sin da piccolo a ogni evento manifestasse debolezze. Dovette lasciare i corpi insepolti e tornare in fretta in Arizona, essendo il nemico ancora in zona. Qui giurò vendetta, dopo aver bruciato secondo l’uso tribale ogni oggetto di proprietà della sua famiglia. Per un intero anno predispose i preparativi per la rappresaglia, assicurandosi la collaborazione di altre due bande, i Chokonen di Cochise e i Nedni di Whoa. Essendo il componente che era stato maggiormente offeso, ottenne il delicato incarico di “capo di guerra” della spedizione punitiva. Si trattava di una carica, che tra quelle popolazioni comportava l’assunzione dell’intera responsabilità tanto del successo quanto del fallimento di un’impresa bellica. Il Nostro fu all’altezza del compito. Giunto ad Arispe, attirò fuori della città ben quattro compagnie di Rurales. Tra questi c’erano pure i responsabili del massacro. Non uno di loro si salvò nella terribile battaglia che seguì. Fu allora che Geronimo si guadagnò i primi galloni per il suo celebre soprannome. Vedendolo scatenato come un diavolo, i suoi avversari invocarono più volte la protezione di San Girolamo. Da allora, se c’era da affrontare i Messicani, il guerriero non si tirò mai indietro.
L’ultimo combattimento contro i Messicani fu sostenuto da Geronimo nel 1881 sempre presso Arispe. In quell’occasione, egli riuscì a strisciare a ridosso delle truppe messicane che lo avevano attaccato e che in una pausa della pugna tenevano consiglio con il loro comandante. Costui stava incitando i suoi a farla finita una buona volta con la banda di Geronimo, il quale però con un colpo ben centrato lo uccise. Naturalmente quella morte scompigliò le file nemiche. Fu forse quella la battaglia più cruenta sostenuta contro gli eterni rivali, perché durò moltissime ore. Ma per l’ennesima volta l’indomito guerriero riuscì a venirne fuori, facendo appiccare il fuoco alle erbe alte della prateria alle spalle del nemico.
Dal 1860 fu un susseguirsi di prepotenze e di massacri, perché i poveri indiani del Sud Ovest vennero a trovarsi tra l’incudine e il martello. Essi naturalmente non avevano alcun concetto di confini territoriali, essendo abituati a muoversi liberamente nel loro territorio per cacciare o compiere razzie di bestiame. Comunque, capirono ben presto che i loro due nemici si arrestavano dall’inseguirli in prossimità del confine tra il Nuovo e il Vecchio Messico. Sfruttarono quindi all’occorrenza quell’insperata possibilità e presero a sconfinare quando erano messi alle strette. Alla fine, però, statunitensi e messicani stipularono un trattato, che consentiva alle truppe di varcare il confine per proseguire “a caldo” eventuali inseguimenti. Questa strategia portò alla decimazione di molte bande, costringendole pian piano alla resa. Poco alla volta capi famosi come Mangas Coloradas e Cochise vennero neutralizzati. Come in altri territori, furono create alcune riserve indiane, la più terribile delle quali fu quella di San Carlos. Si trattava di un vero inferno, dove al clima di oltre 44 gradi e ai serpenti a sonagli si aggiungevano le continue risse con Indiani di altre tribù e i furti di rifornimenti compiuti dagli agenti governativi. Anche a Geronimo toccò a un certo punto della sua vita conoscere quei 40 acri d’inferno, che per uno spirito libero come lui costituivano uno spazio inaccettabile. Mentre una parte di Nativi si rassegnò a condurre un’esistenza da mendicante come auspicava William Tecumseh Sherman, Geronimo continuò le abituali scorribande. Talora, fingeva di arrendersi, facendo illudere gli avversari che tutto fosse finito. Nel 1883, ad esempio, promise al generale George Crook che sarebbe andato nel luogo di raccolta indicatogli, una volta che avesse radunato gli armenti della sua banda sparsi tra i monti. Invece, si presentò solo l’anno dopo. Nel frattempo, aveva pensato bene di razziare ai Messicani alcune centinaia di capi di bestiame. Inizialmente, sembrò adattarsi alla vita di Turkey Creek, a sud di Fort Apache, dove le condizioni di vita risultavano accettabili rispetto a San Carlos. Ma questo cambiamento – oltre a gente come il Nostro che era profondamente legata al modus vivendi degli avi - non garbava pure agli affaristi senza scrupoli, che facevano quattrini con le commesse statali. Essi temevano che gli Apache sarebbero diventati presto autosufficienti, facendo venir meno i grossi appalti di forniture che assicuravano speculazioni vergognose. Venne così avviata una campagna di stampa contro la politica troppo indulgente del governo, che metteva sullo stesso piano indiani buoni e indiani meno buoni. In breve, il clima nelle riserve si surriscaldò. Alla fine, Geronimo, paventando qualche incursione anche nella sua riserva (l’esempio del massacro di Fort Camp era ancora fresco), pensò bene di prendere il largo. Con un sotterfugio indusse alla fuga anche i capi Naiche e Nana. I fuggiaschi fecero rotta verso la Sierra Madre in Messico, per riprendere la vita di sempre. Tornò così a materializzarsi un incubo per molti allevatori, che si videro esposti di nuovo ai colpi di mano di un nemico perennemente sfuggente.
Comunque, tutto sembrò concludersi nel marzo 1886, quando al generale Crook riuscì il miracolo di ottenere un abboccamento con i ribelli al Canon dos Embudos in Messico. Per l’occasione, “Volpe Grigia” (era questo il soprannome datogli dai Nativi), che curava molto l’immagine, si portò appresso da Tombstone un fotografo, perché immortalasse l’incontro che avrebbe posto fine alle guerre con gli Apache. Accadde, però, che subito dopo la resa un trafficante di whiskey, Charles Tribolet, legato alla “mafia di Tucson”, facesse ubriacare Geronimo e lo convincesse che al suo arrivo in territorio americano sarebbe stato fucilato. Geronimo allora fuggì, provocando le ire di Washington e le conseguenti dimissioni del generale che si era fatto beffare nuovamente. Gli subentrò il generale Nelson Miles. Per cinque mesi quel pugno di uomini indomiti riprese a combattere, impegnando migliaia di soldati. La fine era ormai vicina. Braccato pure da alcuni apache della sua tribù che erano stati assoldati come scouts, Geronimo scelse di arrendersi definitivamente. Era il 4 settembre 1886, quando depose le armi ponendo come unica condizione di non esser separato dalla sua gente per più di due anni. E invece fu avviato in treno verso l’orribile carcerazione di Fort Pickens in Florida. Nel 1887 venne quindi deportato a Vernon Barracks (Alabama) e infine a Forte Sill (Oklahoma). Sta di fatto che scientemente lo volle allontanare per sempre dai luoghi natii. Circostanza, questa, che per un Apache rappresentava un taglio traumatico con le proprie radici.
A Fort Sill Geronimo condusse fino alla fine la sua esistenza (mai revocata) di prigioniero di guerra. Geronimo morì di polmonite nel 1909, per esser rimasto un’intera notte a terra dopo un’ubriacatura. Aveva ottanta anni. Nel 2006, la rivista “Yale alumni magazine” pubblicò una lettera del 1918, in cui due studenti si scambiavano la notizia che il teschio di Geronimo era stato esumato di nascosto e nascosto presso la setta segreta Skull and Bones. Stando alla missiva, l’autore della sacrilega profanazione sarebbe stato Prescott Bush, padre e nonno dei futuri presidenti degli Stati Uniti. In sostanza, la testa del grande nemico sarebbe divenuta un macabro trofeo da esibire in qualche manifestazione esoterica di questi pseudo imitatori degli Illuminati di Baviera. Ed oggi, come se non bastasse, a colpire pure la memoria dell’eroe apache, ci pensa un altro presidente assimilandolo a quello che gli americani hanno schedato come il più temuto terrorista dei nostri tempi.