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Guantanamo: Si sono uccisi per fare pubbliche relazioni

di redazione - 12/06/2006

 
Il giudizio del dipartimento di Stato sul suicidio dei detenuti

Un gesto di disperazione, come sostengono gli attivisti per la difesa dei diritti umani? Un «atto di pubbliche relazioni per attirare l'attenzione», come suggerisce un alto funzionario del Dipartimento di Stato, Coleen Graffy? O un omicidio mascherato, come accusano parenti e avvocati difensori dei tre «sospetti terroristi» trovati morti sabato nel campo di Guantanamo? Mentre si moltiplicano gli appelli internazionali per la chiusura di un carcere che Amnesty definisce «un gulag moderno», crescono i dubbi sulla versione fornita dalle autorità americane sulla morte dei tre arabi, due sauditi e uno yemenita. I militari responsabili del campo sull'isola di Cuba - dove dal gennaio 2002 sono rinchiusi senza mai essere stati processati uomini sospettati di legami con Al Qaeda o i talebani afghani - sostengono che si sono impiccati nelle loro celle con cappi improvvisati messi insieme con lenzuola e abiti. Ma, si chiedono i loro avvocati, come sono riusciti ad aggirare una sorveglianza capillare e continua come quella praticata a Guantanamo?

Tutti i dubbi saranno chiariti dall'autopsia, garantiscono i reponsabili del campo repingendo le accuse. Qualunque ne sia l'esito, la morte dei tre prigionieri costituisce un duro colpo per il presidente Bush e l'immagine degli Stati Uniti nel mondo. Il timore, fra quanti credono al suicidio, è di trovarsi all'inizio di una vera e propria «epidemia» di morti volontarie. «Le condizioni nel carcere provocano forme di despressione dalle quali cercano di uscire col suicidio», denuncia Mark Denbeaux, insegnante di diritto all'Università del New Jersey e difensore di due tunisini. Uno di loro, sostiene Denbeaux, «sta tentando di uccidersi con lo sciopero della fame». Ma il suo caso non è il solo: «Sull'intero campo grava un fetore di disperazione».

Le autorità militari ribattono che le condizioni dei detenuti sono «normali»: «Questi uomini sono determinati, intelligenti e continuano a fare quello che possono per diventare martiri», sostiene il contrammiraglio John Craoddock. Nel frattempo le proteste aumentano, nel mondo: in un'intervista alla Cnn il premier danese Rasmussen ha lamentato che le procedure di detenzione a Guantanamo «violano il principio stesso della legalità». Secondo il ministro degli Esteri svedese Eliasson i suicidi sono «una tragica conseguenza» delle condizioni di detenzione: «Il campo va chiuso». La presidenza di turno europea dovrebbe rivolgere un appello a Bush - si augura il coautore del rapporto Onu su Guantanamo, Nowak - in occasione del vertice Ue-Usa in programma il 23 giugno. Perfino fra i repubblicani si registrano perplessità: il senatore Arlen Specter ha dichiarato ieri che la mancanza di accuse precise contro i detenuti costituisce «un grave problema», e che molte persone sono state portate a Guantanamo «sulla base di prove poco convincenti». La chiusura del campo, obietta tuttavia Coleen Graffy, sarebbe «un processo complicato» e porrebbe problemi molto seri: «Cosa accadrebbe ai detenuti» una volta liberati? Soltanto una decina dei 460 prigionieri sono stati incriminati e sono in attesa di comparire davanti al tribunale militare. Tutte le udienze sono però state sospese in attesa della decisione della Corte Suprema, attesa entro la fine del mese e sollecitata da un detenuto yemenita che contesta la legalità dei tribunali militari: se la Corte respingerà il suo ricorso, i processi dovrebbero svolgersi rapidamente.

In caso contrario non è chiaro che cosa accadrà. Prima di pronunciarsi in merito, comunque, la Corte dovrà rispondere a un quesito sulla propria competenza posto dall'Amministrazione Bush, che ha chiesto ai giudici supremi di ricusarsi sulla base di una recente legge sul trattamento dei detenuti: se la Corte si dichiarerà incompetente, i tribunali militari saranno di fatto validi e tutte le procedure avviate dai prigionieri davanti a corti civili saranno annullate.