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Titoli di stato e banche. Crack Italia…

di Miro Renzaglia - 12/07/2011


Ci siamo: la Grecia è così vicina che quasi ci tocca. Le danze si sono aperte all’improvviso (ma non troppo), venerdì scorso quando i nostri titoli di stato (da ora: Btp) hanno toccato uno scarto di rendimento rispetto a quelli tedeschi (Bund) di oltre 20 punti. In altre parole: l’indice di interesse riscuotibile per i nostri Btp era così elevato che i possessori hanno cominciato a venderli.

Il meccanismo è semplice e devastante: più gli interessi crescono, più le quotazioni dei titoli scendono, consentendo agli speculatori realizzare  profitti. E va ricordato che i titoli di Stato italiani sono il mercato obbligazionario più vasto dell’intera eurozona.

Non basta. L’Italia deve ancora emettere più della metà dei suoi Btp nel 2011, con l’incasso dei quali rifinanziare 900 miliardi di euro di debito sovrano che matureranno nei prossimi cinque anni. Basterebbe che qualche asta dei titoli di stato italiani andasse deserta per mandare il paese in default.

E la possibilità che ciò accada è altissima, dal momento che le banche ne posseggono talmente tanti che l’unica soluzione per accattivare il compratore è – appunto –  rialzare i tassi di premio da interesse. Esattamente come è accaduto alla Grecia [per maggiori dettagli al rigurdo, si legga l'articolo di Angelo Spaziano su questo stesso numero de Il Fondo]. Stessa identica dinamica: rialzo degli interessi, titoli esigiti, asta deserta, rialzo degli interessi, bancarotta. Con gli esiti sociali che sappiamo: conti correnti bloccati, stipendi, salari e pensioni decurtati, blocco della produzione, disoccupazione, etc…

Con un’aggravante: il grosso dei Btp è, sì, in possesso delle banche ma, in controtendenza anche europea, le famiglie e i piccoli risparmiatori italiani ne possiedono molti di più degli ellenici. Il che vuol dire che l’esposizione a rischio della base sociale è ancora più forte.

Tutto ciò era prevedibile. Bastava vedere come sulle aste dei Btp negli ultimi anni ci fosse una incredibile corsa all’acquisto. Talmente forte che la richiesta superava di un buon triplo l’offerta. Non era difficile immaginare che, presto o tardi, gli accaparratori sarebbero passati all’incasso. E il momento è arrivato. E’ bastato lo scricchiolio di una manovra finanziaria che tutto è tranne che seria; della minaccia di alcune agenzie di monitoraggio finanziario (tipo la Mody’s Corporatin) che alludevano a un nostro declassamento dalla fascia di debitori solvibili; che il nostro Governo dimostrasse tutte le sue contraddizioni in materia di bilancio, per far scattare il piano degli speculatori.

Tardiva, se non del tutto inutile, è la manovra di difesa messa in atto dalla Consob in queste ore di lunedì: rendere trasparenti le transazioni delle “vendite allo scoperto”, vere responsabili dell’aumento degli interessi dei nostri titoli.

Perché bisogna sapere che i giocolieri di borsa non agiscono solo sui titoli di stato realmente emessi ma anche con quelli che si hanno in prestito dalle banche. Anche in questo caso, il meccanismo è semplice: mi faccio prestare i titoli da una banca che li possiede. Diciamo che il titolo costa 100, lo rivendo allo stesso prezzo, aspetto (scommettendo, è ovvio..) che scenda a 90, lo ricompro e lo restituisco alla banca che me lo aveva prestato. Con un semplice passamano, ho guadagnato 10 che pure detratte le spese del servizio di prestito bancario mi fa ricco. Sì, ma ho pure fatto alzare il tasso d’interesse del titolo con il risultato che quelli veri, anziché tenerli come bene rifugio, conviene venderli. Ed è esattamente quello che sta accadendo.

Sono le gioie del capitalismo, bellezza!!!