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Socrate, Marx, Preve e il valore veritativo della filosofia

di Carlo Gambescia - 13/06/2006

 

Scrivere e pubblicare oggi un libro su Marx non è facile. In primo luogo, perché non è semplice riuscire a dire qualcosa di originale, su un pensatore dalla bibliografia critica, pressoché sterminata. In secondo luogo, perché Marx, piaccia o meno, dal punto di vista editoriale è passato di moda. Oggi vanno per la maggiore i pensatori "deboli", dai filosofi "analitici" ai "decostruzionisti", fino ai post-strutturalisti, eccetera.

Evidentemente perché meno pericolosi o addirittura inoffensivi.

Ecco perché il libro di Preve che ho tra le mani (Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Euro 19,00 ) ha qualcosa di miracoloso. Uno, perché è molto originale. Due, perché è pubblicato da una importante casa editrice torinese. Il merito dell'originalità è tutto di Preve, mentre quello di averlo pubblicato è di Alfredo Salsano, mio buon conoscente e capacissimo operatore culturale ed editoriale, che purtroppo è mancato qualche mese fa.

Perché il libro di Preve è importante? Prima di rispondere devo fare una premessa. Non sono un "marxologo", e quindi non padroneggio bene la materia come Preve. Ma forse proprio per questo ne posso fare un'analisi esterna, oggettiva, e comunque da studioso di scienze sociali, che ha sempre giudicato inarrivabile la ricostruzione sociologica marxiana delle origini e del primo sviluppo ottocentesco del capitalismo.

Ma vengo al libro. Un primo elemento di rilievo, almeno per me, lo ripeto, che non sono "marxologo" ma neanche marxista, è la tesi di Preve sulla rinuncia di Marx a qualsiasi fondazione filosofica del suo discorso. E che per giunta (secondo Preve) è un errore. Che però gli ha permesso (sto sempre seguendo il suo ragionamento) di ricostruire in termini storici ed economici la genesi del capitalismo.

E quindi è anche un merito (seguo sempre Preve). Che però viene meno quando si passa dalla ricostruzione statica a quella dinamica del capitalismo (i termini sono miei), dove invece serve una filosofia, o antropologia, aperta.E non una pericolosa sintesi (conclude Preve) tra riduzionismo economicista, evoluzionismo stadiale storicista e utopismo prescrittivo, che conduce inevitabilmente al falso universalismo prescrittivo e al comunitarismo coatto, come mostra l'esperienza sovietica.

Un secondo elemento di rilievo è l'interpretazione del pensiero di Marx alla luce della filosofia come sapere veritativo (o razionalità dialogica di tipo socratico). A parere di Preve, nonostante la scelta non filosofica (ma non antifilosofica) di Marx, è possibile rinvenire nel suo pensiero, in termini di antropologia filosofica, sia una teoria della natura umana, sia una teoria dell'individualità.Insomma, due formidabili punti di partenza per stabilire un canale di comunicazione con quella visione veritativa del mondo che ha caratterizzato secondo Preve la tradizione filosofica che si riconosce in Atene e non in Gerusalemme.

E dalla quale giungerà la nostra salvezza: fondata sul dialogo, sulla democrazia, e sul rifiuto di ogni visione deterministica, secolare o meno. E in tale disegno si recupera anche Marx e la sua concezione della natura umana come Gattungswesen, cioè, scrive Preve, "come caratteristica dell'uomo come ente naturale generico(.....) che costituisce l'uomo come essere inscindibilmente naturale e sociale" e che gli permette "la storicità, che non è soltanto l'infinita produzione di configurazioni storiche e sociologiche diverse, ma è anche il luogo della perdita e del ritrovamento di se stesso" (p. 160).

Il Marx di Preve è un Marx dialogico, che ascolta. E questo è un bene. Un Socrate, che se ha commesso errori (storicismo, economicismo, utopismo) è disposto a riconoscerli, ma non a ritrattare, fino al punto di preferire la morte: nel Marx di Preve tutto si tiene, il buono e il cattivo, il vecchio e il nuovo, le intuizioni fulminanti e i rigidi determinismi. E Marx, come Socrate, e come in fondo lo stesso Preve, è profondamente impolitico. E questo è male. So benissimo che può apparire paradossale, ma è così. Perché se si reputa Marx un determinista (come riconosce in parte Preve), la politica finisce per avere un ruolo residuale (il comunismo è nelle cose), se lo si considera un antideterminista (come preferisce Preve), la politica si trasforma in sola discussione pubblica (il comunismo come frutto della persuasione). In entrambi i casi il politico come momento della decisione e della tristemente ma necessaria designazione di un nemico scompare. Certo, oggi, c'è l'imperialismo e la necessità di opporvisi. Ma l'idea di democrazia greca, pur nobilissima, come confronto e discussione, avanzata da Preve, quale espressione politica di una forma veritativa di filosofia, fa pensare ai padri della Chiesa che discutono di complessi problemi teologici mentre i barbari sono alle porte. Certo, i Greci sconfissero i Persiani. Ma noi veniamo dopo il capitalismo, che i Greci non hanno mai conosciuto, e soprattutto dopo quattro o cinque secoli di sensismo e materialismo che hanno piegato lo spirito e il corpo dei popoli discesi da Atene.

Si dovrebbe perciò tentare di conciliare una versione veritativa della realtà, come autonomia di giudizio sulle cose, con una visione forte del politico. Una specie di quadratura del cerchio. Dal momento che il momento veritativo, implica il riconoscimento dell'altro e quello politico il disconoscimento e il conflitto. Se rifiutiamo l'approccio politico, sarà comunque il nemico a designarci. Se rifiutiamo quello veritativo rischiamo di trasformarci in macchine da guerra. Chiudo con una domanda che non è assolutamente provocatoria, ma piuttosto dettata da sincera preoccupazione: quanto può aiutarci in questa scelta l'ottimismo antropologico di Marx e dello stesso Preve?