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La vita nelle fogne dei bambini-topi di Addis Abeba

di Domenico Quirico - 13/06/2006



Gente che dice di essere felice se quando inizia la stagione delle piogge gli resta ancora un pugno di grano per mangiare. Anche questi villaggi sono fitti di bambini. Spetta loro un compito importante: andare a prendere l’acqua quando il sole non si è ancora levato, magari a grande distanza, con le brocche di argilla o di pietra. A qualcuno tocca un po' di modernità: una tanica di plastica che alleggerisce la fatica.


Ad Addis Abeba, la capitale, ci sono altri bambini che arrivano da queste zone, orfani o cacciati dalle famiglie troppo povere, che fuggono violenze o sognano la felicità di una grande città. Non sono solo i bambini di strada della planeraia geografia ingorgata di pezzenti, sono il popolo del suo sottosuolo. Sì, perchè vivono nei tunnel, guazzano nelle fogne, si accucciano nei canali di drenaggio, sotto le strade di Addis Abeba, capitale africana. La casa è un buco non più alto di un metro e lungo sei dove un tombino fa da uscita e da finestra, dove quando il livello dell'acqua sale bisogna cercare spazio tra l'immondizia e i rifiuti che galleggiano. Henok è sceso in questo utero della miseria quando aveva undici anni e i suoi genitori sono morti in un incidente stradale, si tiene chiotto nei suoi stracci che traducono l'infinito sbadiglio del digiuno, si vede che sa annusare il pericolo e scamparlo. E' un piccolo capo di questa tribù sotterranea di cui nessuno ha mai fatto un censimento. Che emerge con circospezione alla luce tra gli edifici della città per raccattare un po' di cibo e poi di nuovo sparire. Henok si considera fortunato; perchè ha trovato un cunicolo dismesso dove un tempo passavano i cavi telefonici. E' suo, ci ha lavorato con pazienza, foderandolo di blocchi regolari di pietra. Quando piove distende un foglio di plastica per mettersi al riparo. Al contrario dei loro coetanei rimasti al villaggio non hanno niente da fare, nessuno che li aspetti, il più delle volte li muove solo la fame. E la paura. Perchè il bambino è uno che vive in qualche modo, (ogni tanto) mangia in qualche modo, ha un riparo in qualche modo, trova in qualche modo lavoretti o trascina nel suo rifugio gli avanzi dei ristoranti. Allora non è più un bambino, è uno scomodo concorrente al cibo che già manca, al lavoro che non si trova. La provvisorietà non è paradossalmente la tana sotto terra, sono i poliziotti che danno loro la caccia, gli altri poveri che vogliono eliminarli, un giro di prostituzione che decide di aver bisogno di materiale più giovane.


Nell'altra città vivono anche bambine e adolescenti. Come Hana che ha 15 anni e viene da Ziway. E' fuggita perchè un giorno ha lasciato morire la mucca, il tesoro di casa. E' una colpa che nel mondo dei poveri non si può perdonare. Chissà, un giorno spera di ritornare. La sua filosofia di vita è semplice: «quando ho qualcosa da mangiare, sono felice; quando non ce l'ho passo il tempo dormendo o chiacchierando con gli amici». Se scovano qualche bir lei e i suoi compagni vanno al cinema.


Forse si può fare in fretta di fronte a tutto questo: ricordare le colpe immani del colonialismo che qui fu italiano, breve fascista e scalcinato. O dire che Henok, Hana, Dawit, gli altri centomila forse più bambini di strada dell'Etiopia, sono un prezzo, terribile, dei vuoti da colmare con la mondializzazione. Oppure bisogna pensare ai padroni dell'Africa. Qui si chiama Meles Zenawi, è un leader moderno, ha cacciato, tra il solleievo universale, il negus rosso Menghistu, un tipo losco che sognava l'uomo nuovo etiopico e affrettava l'operazione semplicemente strangolando fucilando facendo morire di fame quello vecchio. Organizza elezioni naturalmente democratiche, e le vince, sempre. Ha fatto la guerra, con l'Eritrea, che è povera quasi quanto l'Etiopia, per quattro sassi ma intrisi di patriottici ricordi. Non è stata un'altra Adua. Ma la gente ci ha creduto, era felice. Incombe sempre il rischio della carestia, un sole implacabile asciuga i raccolti e uccide la terra. Ma le organizzazioni umanitarie son lì per questo. eppure l'Etiopia ha un esercito modernissimo per cui spende somme enormi, gli arsenali rigurgitano, è in perenne mobilitazione alla frontiera. Non si può rinunciare a quei sassi sacrosanti. Forse un giorno, chissà, Zenawi troverà il tempo di pensare anche ai suoi sotterranei bambini: si può farne dei buoni soldati, in fondo.