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Il pensiero della decrescita (intervista ad Alain de Benoist )

di Alessandro Sansoni* - 16/06/2006

Fonte: Alessandro Sansoni

 

Monsieur de Benoist cosa si intende quando si parla di decrescita?

La decrescita è un’idea che si basa sulla constatazione assai semplice da farsi che lo sviluppo produttivo non può essere eterno.

Essa individua due problematiche fondamentali: la prima riguarda lo stato di salute del pianeta ed in particolare il surriscaldamento dell’atmosfera, lo scioglimento delle calotte polari che ne consegue, con le annesse catastrofi naturali sempre più gravi e frequenti. Il secondo grande problema è il progressivo esaurimento delle materie prime presenti sul nostro pianeta, soggetto all’intenso sfruttamento di due secoli di industrializzazione, e, soprattutto, della principale risorsa energetica disponibile, il petrolio.

E’ risaputo che le riserve di petrolio disponibili sono tutt’altro che infinite e che la sua estrazione non solo non è costante, ma che, una volta raggiunto il suo punto ottimale tende a divenire sempre più difficile ed onerosa. La necessità di accaparrarsi gli ultimi giacimenti disponibili ha delle pesanti conseguenze geopolitiche, come dimostra l’attuale atteggiamento degli USA, la cui politica estera mira a porre sotto controllo i paesi dell’Asia centrale ex-sovietica, dove sono collocate importanti riserve ancora non sfruttate.

Non bisogna dimenticare, tra l’altro, che il petrolio non è utilizzato soltanto come combustibile per i mezzi di trasporto, ma che esso è indispensabile alla fabbricazione di materiali plastici, dei prodotti impiegati nell’agricoltura intensiva ecc. Esso è una risorsa energetica praticamente insostituibile.

Pertanto quello della decrescita è un pensiero che si pone in termini critici di fronte alla modernità ed al paradigma dello sviluppo ad ogni costo, laddove spesso non se ne riconoscono i limiti e le conseguenze altamente negative che ne possono derivare.

Occorre però precisare che la decrescita non è la “crescita negativa”, né una sorta di ritorno al passato, un invito a privarsi di quanto l’evoluzione tecnologica ha messo a disposizione dell’umanità. Serge Latouche, che ne è lo specialista, la presenta molto bene allorché sostiene che si tratta di un problema di mentalità: egli ha coniato un’espressione molto efficace, che spiega come il suo fine sia “decolonizzare l’immaginario occidentale”, uscendo dal dogma ideologico dello sviluppo sempre e comunque.

Dunque il problema che abbiamo di fronte non è solo di tipo economico, ma anche psicologico…

Direi quasi antropologico… La critica al mondo attuale che pone il pensiero della decrescita, non riguarda soltanto i suoi aspetti concreti e “fattuali”, come quelli ecologici ed economici da me messi in evidenza prima. Riguarda invece anche l’impianto ideologico della civiltà occidentale nella misura in cui si invitano le persone ad uscire dal ciclo infernale della produzione e del profitto a qualunque prezzo… ad uscire insomma dal mondo della razionalità mercantile.

Quali sono allora i fondamenti filosofici di questo pensiero?

Il punto di partenza è la rimessa in discussione di quella che io chiamo “l’antropologia dell’illuminismo”, che intende l’uomo innanzitutto come individuo, dissociato dalle sue appartenenze, dalla sua comunità, dalla sua eredità spirituale ed identitaria. L’individuo viene così immaginato come rivolto interamente all’appagamento dei suoi istinti egoistici. Viene identificato come quell’ente che mira a possedere sempre di più. Ora, avere di più è l’esatto opposto dell’essere qualcosa di più: stiamo parlando insomma della classica opposizione tra essere e avere. Questa mentalità si è diffusa in modo sempre più veloce in Occidente prima con la rivoluzione industriale e poi con l’avvento della società consumista. Il “demone” della mentalità economicista fa sì che niente abbia più valore in sé e che tutto ciò che non è valutabile e calcolabile sotto il profilo contabile e monetario non abbia importanza o, semplicemente, non esista.

Attraverso la teoria della decrescita si può invece lanciare un appello a porre su basi diverse le ragioni della nostra esistenza, uscendo dalla smania di possedere sempre più cose, resa ancora più frenetica dall’obsolescenza calcolata dei prodotti in commercio che ne impone l’acquisto sempre di nuovi e dalla pubblicità che propone assurdi modelli di comportamento sociale.

Oggi siamo abituati a credere che lo stato normale della società sia quello di rincorrere uno sviluppo economico sempre maggiore. La storia, però, ci insegna in modo assai puntuale che tale modello ha una sua collocazione geografica e cronologica molto precisa.

E’ molto difficile però convincere le persone a modificare il proprio modo di pensare…

E’ vero. Latouche, ad esempio, vede la civiltà industriale e progressista come una “megamacchina” che funziona instancabilmente e va sempre avanti, senza conoscere la sua destinazione. Tutti noi, senza saperla controllare, siamo imbarcati su questa macchina, la cui potenza viene ingigantita dalla globalizzazione. La globalizzazione, infatti, non è soltanto il perfezionamento dei sistemi di comunicazione informatica o l’omologazione di tutte le culture che ne deriva; essa è soprattutto l’instaurazione a livello mondiale del regno del mercato. Essa mira tendenzialmente alla trasformazione del pianeta in un unico mercato e di conseguenza a sradicarne le identità particolari. Ma cosa si può fare?

Latouche fa leva sulla “pedagogia della catastrofe”, ovvero egli sostiene che l’imminente apocalisse cui ci conduce lo sviluppo dissennato ci imporrà un’inversione di rotta… Io trovo, tuttavia, che si tratti di un modo semplicistico di argomentare… Infatti nonostante l’attuale miseria affettiva - da cui derivano il diffondersi delle sindromi depressive e l’uso di droghe - la crisi di produzione, la crisi di socialità, la crisi della rappresentatività della politica, la crisi occupazionale, i disastri ambientali, sembra quasi impossibile far comprendere alla gente che si può sostituire l’attuale modello di civiltà basato sul sempre più.

Forse perché le argomentazioni di tipo utilitaristico sono troppo deboli, forse perché servono formule diverse, imperniate sui valori, magari sulla forza persuasiva della religione… Il Cattolicesimo può giocare un ruolo in questo senso?

Per secoli la religione ha fornito agli uomini risposte ai più fondamentali interrogativi relativi alla ragioni della nostra esistenza, ma credo purtroppo che oggi vi sia un usura di questo tipo di risposte.

E’ noto che nei paesi occidentali le strutture religiose sono affette dalla stessa crisi che colpisce i partiti, i sindacati e tutte quelle identità collettive intermedie che cementano il legame sociale. In Francia il numero dei praticanti cattolici è al di sotto del 5%. La separazione tra Stato e Chiesa, il diffondersi del laicismo, sono fenomeni a mio avviso irreversibili: ciò significa che gli stessi credenti, i più convinti, non sperano più in una società governata dalla Chiesa e dai suoi valori. Penso quindi che il ricorso alla religione non possa essere una soluzione collettiva. Può essere, beninteso, una soluzione individuale, ma non una proposta politica.

Io sono d’accordo col Papa quando parla contro la mercificazione, approvo l’idea di sussidiarietà e la Dottrina sociale della Chiesa, ciononostante non credo che essa sia in grado di fornire risposte politiche.

Ritengo si debbano trovare altre strade, valide per i credenti come per i non-credenti, in quanto anche questi ultimi sono sensibili al problema di trovare un senso alla loro presenza sulla terra.

Lei ha più volte citato Latouche, di cui è nota la formazione gauchiste, come il maitre à penser della decrescita. Ma la decrescita è di sinistra?

La decrescita è un’idea che oggi è sostenuta soprattutto a sinistra, ma certo non all’unanimità. Anche tra gli ambientalisti e gli alter-mondialisti i più sostengono, in particolar modo in relazione al Terzo Mondo, che per risolverne i problemi occorre più crescita, più sviluppo, accanto ad una migliore redistribuzione della ricchezza, secondo i dettami della dottrina marxista classica. Lo stesso vale a maggior ragione per la sinistra istituzionale, che ormai ha abbracciato in pieno i principi dell’economia di mercato.

Il punto è che la decrescita critica il fondamento principale della modernità, ossia l’ideologia del progresso e l’ideologia del progresso è storicamente alla base del progetto politico della sinistra. Insomma la sinistra che reclama la decrescita è già qualcosa di totalmente differente dalla sua matrice politica d’origine ed è un sintomo evidente della rimessa in discussione delle vecchie etichette destra-sinistra.

A proposito di destra, l'ex ministro all'Agricoltura, Giovanni Alemanno, tra i più sensibili di tale parte politica in merito, ha di recente più volte fatto riferimento alla necessità di cercare “modelli di sviluppo differenziato”. Ritiene possa considerarsi una formula politicamente credibile e in grado di rendere politicamente spendibile il messaggio della decrescita?

Penso si tratti di una buona formula…un modo per uscire dal modello unico… Occorre però darle concretezza. Mi chiedo se un’azione in questa direzione sia efficacemente perseguibile da un uomo politico che partecipa ad una coalizione fondata sui principi del liberalismo classico. Io stimo molto il ministro Alemanno, ma credo che la sua non sia una posizione facile.

Oggi, purtroppo, in Europa il politico liberale è percepito come il politico di destra per antonomasia. Ma storicamente noi sappiamo che il liberalismo è nato a sinistra e che i suoi postulati ideologici – utilitarismo, individualismo – sono stati in passato rigettati dalla destra. Bisogna dunque ricordare che la destra liberale non è tutta la destra, anche se essa è oggi maggioritaria.

Tra i critici della decrescita vi sono molti fautori dell’Europa-potenza i quali ritengono che una simile opzione ideologica indebolirebbe l’Europa nel confronto con gli Stati Uniti. Lei è da sempre sensibile al problema della libertà del nostro continente dall’egemonia americana, cosa risponde loro?

Conosco molto bene questo ragionamento, ma non lo condivido. Personalmente sono un fautore tanto dell’Europa-potenza che della decrescita. Quest’ultima viene spesso intesa in termini caricaturali, come un improponibile ritorno al passato. Secondo me è invece un progetto a lungo termine ed un problema di mentalità. Coloro che vedono le due cose in contraddizione sbagliano a mio avviso nel considerare il concetto di potenza seguendo il modello USA.

Potenza non significa soltanto produrre di più o avere un esercito più forte; è anche una questione di identità, di definizione del ruolo dell’Europa, di sapere se essa vuole essere un modello alternativo di civiltà ed un polo di regolamentazione della globalizzazione. Occorre quindi non vedere la decrescita in modo caricaturale, né la potenza secondo un modello univoco.

Quando si verificheranno i grandi disastri ambientali, quando il sistema monetario attuale entrerà in crisi, quando il petrolio si esaurirà, i paesi realmente “potenti” saranno quelli che avranno introdotto un po’ di moderazione e di frugalità nel loro modo di vivere. Quelli che invece si saranno ostinati a conservare un sistema drogato e insostenibile mostreranno tutta la loro fragilità. 

 

 

*Invitato a Napoli il 23 febbraio dall’editore Guida e dal Prof. Agostino Carrino, rispettivamente editore e curatore del suo nuovo libro Identità e comunità, abbiamo approfittato dell’occasione per intervistare Alain de Benoist e fare assieme a lui il punto sul dibattito relativo al pensiero della decrescita.