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Khmer Rossi. Un processo difficile

di Raffaele Morani - 29/08/2011

Iniziato a fine giugno dopo tanti rinvii il processo ai quattro leaders superstiti dei Khmer Rossi si è fermato in quanto i giudici hanno richiesto una perizia psichiatrica per l’imputata Ieng Thirit (79 anni), ministro degli affari sociali nel governo dei khmer rossi, l’organizzazione comunista che in nome del maoismo, dell’odio verso tutto quanto era occidentale o estraneo alle tradizioni khmer, sotto la guida di Pol Pot (il fratello numero 1 – nella foto) prese il potere in Cambogia e si rese responsabile di uno dei più grandi genocidi del ventesimo secolo (tra un milione e settecentomila e due milioni le vittime stimate in quasi 4 anni, dal 1975 al 1979).

Gli altri coimputati sono Ieng Sary (85 anni), marito della Thirit ed ex ministro degli esteri, Nuon Chea (85 anni), ideologo dell’organizzazione ed ex presidente dell’Assemblea della Kampuchea Democratica (così si chiamava il regime Khmer), Khieu Samphan (80 anni), ex capo dello stato della Kampuchea. Gli altri componenti del comitato centrale dei Khmer Rossi, come Pol Pot, Ta Mok, Son Sen, per ricordare i più noti, sono tutti morti prima che si arrivasse al processo, che è sotto l’egida dell’Onu, e vista l’età degli imputati e alcune circostanze non è detto che giunga ad una conclusione o a delle condanne.

Innanzitutto frenano l’azione dei giudici i ritardi e le previste lungaggini procedurali, dovute alle varie eccezioni avanzate dalla difesa degli imputati, ma anche all’enorme complessità degli atti (oltre 450.000 pagine), agli alti costi (più di un decimo del bilancio della Cambogia, un paese dove quasi il 50 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà), agli interventi dell’attuale premier cambogiano Hun Sen, ex khmer rosso sopravvissuto ad una delle tante purghe interne del regime. Unitosi ai vietnamiti quando nel 1979 invasero la Cambogia rivelando al mondo gli orrori della Kampuchea democratica e da allora uomo forte del Paese, vuole limitare l’azione del tribunale solo a questo processo, evitando accuratamente l’apertura di nuovi processi ad altri esponenti minori dell’organizzazione (ad esempio e alcuni dei suoi ministri!). Né vanno dimenticati gli imbarazzi di Usa e Cina, che nonostante le azioni di Pol Pot e compagni fossero divenute di dominio pubblico in funzione antivietnamita e antisovietica appoggiarono la resistenza dei khmer rossi e del principe Sihanuk al regime filosovietico di Hun Sen dal 1979 fino all’inizio degli anni novanta, e hanno quindi tutto l’interesse a far dimenticare di aver appoggiato e sostenuto economicamente per molti anni i capi di  un’organizzazione che aveva commesso numerosi crimini contro l’umanità.

In nome della piena attuazione dell’utopia comunista, il regime dei khmer rossi collettivizzò tutto, si isolò completamente dal mondo, abolì il denaro, svuotò le città (“luoghi di corruzione “) e ne spedì gli abitanti a lavorare nelle campagne in condizioni durissime, giustiziò oppositori veri e presunti, fino a provocare con scelte economiche improvvide una terribile carestia, col risultato finale di eliminare quasi un quarto della popolazione cambogiana.

La repubblica della Kampuchea Democratica era isolata dal mondo, alleata della Cina maoista, e prima della sua caduta vantava anche significative simpatie in molti ambienti della sinistra di tutto il mondo, come ricostruisce il bellissimo libro dello scrittore svedese Peter Froberg Idling, Il sorriso di Pol Pot, uscito l’anno scorso per la casa editrice Iperborea. Idling, raccogliendo le testimonianze di molti sopravvissuti al genocidio, ma anche di alcuni carnefici, e tantissimi documenti visivi e sonori, racconta la formazione ideologica e umana di Pol Pot, Khieu Samphan e compagni.

Particolarmente significativa è soprattutto la storia di una delegazione di intellettuali della sinistra svedese che nel 1978 si recarono a Phnom Penh su invito dei khmer rossi e visitarono il paese per molte settimane, trovandosi nel pieno dello sterminio ma senza accorgersi di nulla, continuando anzi, una volta tornati in Europa, a decantare i grandi progressi raggiunti dalla rivoluzione dei khmer rossi e i loro sforzi sovrumani e ammirevoli per fare uscire la Cambogia dal medioevo.

La domanda di fondo del libro è proprio questa,  come è stato possibile che non si accorgessero di nulla? Forse la risposta sta nella figura stessa di Pol Pot che, come molti dei suoi compagni, conosceva bene l’Occidente avendo studiato in Francia, e manteneva un profilo molto basso, rifiutando il culto della personalità e spersonalizzando il suo potere, mostrandosi sempre molto cordiale e sorridente coi suoi interlocutori, un sorriso seducente ma come scrive Idling «dietro quel sorriso c’era il più incapace e brutale regime del ventesimo secolo».

I crimini e i bombardamenti degli americani sulla Cambogia prima della vittoria dei Khmer Rossi erano stati notevoli. Basti pensare che gli Usa sganciarono sul paese 2.756.941 tonnellate di bombe, più di quanto sia stato sganciato nell’intera seconda guerra mondiale, comprese anche le atomiche di Hiroshima e Nagasaki, c’era la guerra fredda, l’imperialismo e le politiche di neo-colonialismo dei paesi capitalisti nei confronti del Terzo Mondo erano un fatto reale, come anche la considerazione comune a sinistra che denunciare mancanze o errori della propria parte ideologica e politica fosse un favore fatto al nemico. Ma tutto ciò può giustificare le omissioni e i ritardi di allora? O anche odierni, visto che dopo più di trent’anni il capodelegazione svedese Jan Myrdal dichiara al giornalista Idling che non ha nulla da aggiungere a ciò che scrisse allora e che Pol Pot non poteva sapere tutto quello che succedeva in Kampuchea.

La banalità del male non ha confini né tempo, come anche l’ignoranza “voluta” del male nel momento in cui in nome di un ideale si finisce per considerare assolutamente normale e necessario quello che invece è un crimine, e che ritorna ad essere tale se a commetterlo è l’altra parte. Un punto fermo che dovrebbe valere a sinistra e a destra, ma che troppo spesso viene oggi dimenticato dai difensori del libero mercato e dell’occidente, coloro che in nome dello “scontro di civiltà” sono pronti a rinnegare concretamente quegli ideali di libertà e  giustizia e quei diritti umani che a sentir loro sono l’essenza della civiltà occidentale e che quindi non dovrebbero essere mai messi in discussione.