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Kenya, gulag inglesi. Chi li ha dimenticati?

di Chiara Zappa - 27/06/2006

Una pagina oscura della colonizzazione britannica: la repressione colpì oltre un milione di persone. Parla la storica Elkins

 

Campi di prigionia e di lavoro, villaggi segregati col filo spinato. Così fu repressa la rivolta Mau Mau negli anni 50. Ma a lungo la vicenda fu ignorata: «Anche l’impero del Regno Unito si è retto su violenza e sfruttamento»

Campi di prigionia e lavoro, interi villaggi circondati da filo spinato, veri e propri gulag in cui, nel corso della repressione britannica della rivolta Mau Mau in Kenya, negli anni '50, fu imprigionata l'intera popolazione Kikuyu (circa un milione e mezzo di persone) e persero la vita molti più ribelli degli undicimila di cui parla la storiografia ufficiale. È la scioccante tesi di Imperial Reckoning: the untold story of Britain's Gulag in Kenya («Il conto imperiale: la storia mai raccontata del gulag britannico in Kenya»), il saggio di Caroline Elkins che è valso alla storica, 36enne docente di Harvard, il premio Pulitzer 2006 per la categoria Saggistica. Un libro forte (pubblicato negli Usa da Henry Holt), nato da un decennio di ricerche condotte tra Londra, Nairobi e la campagna kenyana, dove la Elkins ha realizzato centinaia di interviste a sopravvissuti ai campi britannici e a molti dei loro carcerieri, inglesi o africani fedeli alla Corona. Interviste che - così come i documenti coloniali che la storica statunitense è riuscita a recuperare - parlano di violenze sessuali, torture, lavori forzati, sottrazione di proprietà, decessi per malnutrizione, omicidi. Una incredibile serie di atrocità compiute dall'impero britannico al fine di piegare la ribellione dei Kikuyu che, sebbene sedata alla fine degli anni '50, aprì di fatto la strada all'indipendenza del Kenya: solo pochissimi anni più tardi, nel 1963, Jomo Kenyatta diventava il primo presidente del Paese.
Ma se il potere - prevedibilmente - fu lasciato nelle mani di coloro che si erano dimostrati fedeli all'impero coloniale, nessuno, fino ad oggi, ha mai riconosciuto ufficialmente l'enorme contributo, pagato con il sangue, che la popolazione Kikuyu offrì all'indipendenza nazionale. Nessuno - né il governo inglese né quello kenyano - è mai tornato su una pagina tanto dolorosa della storia coloniale, che ha lasciato non solo veterani di guerra in attesa di un risarcimento dal Regno Unito per le torture subit e, ma un intero Paese che non è mai passato attraverso un processo di riconciliazione nazionale. «Tutto questo potrà cambiare solo quando tutti sapranno quello che ci è successo», dice la signora Mary Mbote in una pagina del saggio di Elkins. Una convinzione condivisa, nella sostanza, dalla stessa storica.
Parlando della repressione della ribellione Mau Mau da parte dell'impero britannico, Bill Berkeley ha citato lo "scioccante cancellamento di quel crimine e l'inversione della memoria storica": questa memoria, oggi, può essere rimessa in discussione?
«È quello che spero. Rivedere la storia e modificare l'idea che le persone si sono fatte su un certo evento o periodo del passato è possibile. Questa, tuttavia, è un'operazione non solo molto difficile, soprattutto quando si ha a che fare con visioni fondamentaliste, ma anche delicata: è necessario stare attenti quando si mettono in discussione le certezze dell'opinione pubblica».
Lei però lo ha fatto… il suo obiettivo è riscrivere la storia?
«Sì, anche se so che ci vorrà molto tempo. In Gran Bretagna le mie tesi hanno sollevato un polverone, molti le hanno trovate scioccanti. Il punto è che c'è una credenza generale secondo cui il colonialismo britannico fu più "soft" rispetto a quello francese, o olandese, e leggere la parola "gulag" associata alle gesta coloniali del Regno Unito ha destabilizzato molti».
Perché l'ha utilizzata? Cercava la provocazione?
«L'ho utilizzata perché l'ho ritenuta calzante. I lettori, e l'opinione pubblica in generale, hanno bisogno di analogie per capire il senso di un discorso, e l'analogia tra i gulag sovietici e l'internamento sistematico degli oppositori politici all'iniziativa imperialista britannica in Kenya è fondata. C'è chi ha obiettato che nella colonia africana la resistenza, e quindi la repressione, ha riguardato un intero gruppo etnico e non una parte politica: è vero, questa differenza esiste, tuttavia il parallelismo regge».
Un'altra espressione che ha creato dibatti to è il "conto imperiale" di cui parla nel titolo: il suo saggio ha dei riferimenti all'attualità?
«Io parlo di ciò che è successo quando le potenze occidentali hanno deciso di andare in terre straniere per sfruttarne le risorse, e spiego come tutti gli imperi siano sempre basati sullo sfruttamento e sulla violenza, che sia solo culturale oppure fisica. Storicamente è sempre stato così e, se è questo che mi chiede, penso sia così anche oggi».
Non crede che in alcuni casi un impero sia necessario per garantire la pace?
«La pace? Assolutamente no. Può sembrare così solo a uno sguardo superficiale, ma se si va oltre l'apparenza, magari di stabilità, si scopre che dietro ci sono democrazie finte. Quando l'obiettivo di un intervento è lo sfruttamento, i suoi effetti non sono mai istituzioni democratiche durature».
Gli interessi stranieri in gioco in Africa sono tutt'altro che esauriti: un lavoro come il suo può rappresentare un modo per toccare certi argomenti?
«Prima di tutto vorrei chiarire che l'Africa ha molti problemi che io nel mio libro non sfioro nemmeno. Detto questo, sono convinta che non si possa comprendere il presente di questo Continente - con le sue enormi contraddizioni, la sua complessità, la violenza - senza conoscerne il passato. Questa, in realtà, è una regola che vale sempre, in Africa come nella nostra società americana. Prima di guardare avanti, bisogna avere una visione condivisa del passato. È per questo che un saggio su parecchi decenni fa può essere rivelatore - e creare scandalo - oggi».