Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'Autorità (Anti-)Palestinese

L'Autorità (Anti-)Palestinese

di Joseph Massad - 28/06/2006

Fonte: tlaxcala


Una delle misure più importanti che gli architetti
israeliani e palestinesi degli accordi di Oslo presero
allo scopo di garantire la sopravvivenza strutturale
di ciò che è noto come il «processo di pace» di Oslo
fu la creazione di strutture, istituzioni e classi,
che fossero direttamente connesse con questo processo,
e potessero sopravvivere al collasso degli accordi di
Oslo mantenendo in piedi il «processo» generato dagli
accordi. Questa garanzia fu fissata dalle leggi e
tenuta in vita dai fondi internazionali basati sulla
continuazione del «processo di Oslo», fintantoché
questo processo continuava a servire gli interessi
israeliani e Americani come pure quelli della corrotta
elite palestinese che in quel processo si lasciò
coinvolgere.

Le cinque principali classi create dagli architetti di
Oslo per assicurare la continuazione del processo
sono:

Una classe politica, divisa tra coloro che sono stati
eletti per servire il «processo di Oslo»,
all’assemblea legislativa o nel ramo esecutivo (cioè
essenzialmente la posizione del presidente
dell’Autorità Palestinese), e coloro che sono scelti
per servire chi è stato eletto, cioè i rappresentanti
dei ministeri o dell’Ufficio del presidente.

Una classe di funzionari di polizia, consistente in
decine di migliaia di persone, la cui funzione è
quella di difendere il processo di Oslo contro quei
palestinesi che cercano minarlo. Questa classe è
divisa in un certo numero di articolazioni di
sicurezza e di intelligence, tutte in competizione le
une con le altre, tutte in competizione per dimostrare
che sono quanto di più efficiente ci sia nel
neutralizzare qualsiasi minaccia al processo di Oslo.
Sotto l’autorità di Arafat, alcuni membri di questa
classe inaugurarono il loro servizio sparando e
uccidendo 14 palestinesi ritenuti nemici del
«processo» a Gaza, nel 1994 – un risultato che fece
loro guadagnare il rispetto iniziale degli americani e
degli israeliani, i quali insistevano che quella
classe di poliziotti doveva usare più repressione di
quanto aveva fatto prima per essere più efficace.

Una classe di burocrati legata ai politici con la
funzione di articolazione amministrativa. Un ceto di
decine di migliaia di funzionari incaricati di
eseguire gli ordini dell’assemblea legislativa e del
ramo esecutivo, cioè degli incaricati di servire il
«processo».

Una classe di aderenti alle ONG: un altro ceto
burocratico e tecnico il cui finanziamento dipende
completamente dal modo in cui servono il processo di
Oslo e ne assicurano il successo attraverso la
pianificazione e i servizi.

Una classe di uomini di affari, palestinesi della
diaspora e del paese – inclusi tra questi, in
particolare, ci sono, membri della classe politica,
dei funzionari di polizia e burocrati – i cui guadagni
vengono dagli investimenti finanziari fatti nel
processo di Oslo e da accordi di profitto che
l’Autorità Palestinese (A. P.) rende possibili.

Mentre la classe legata alle ONG, per lo più, non
riceve denaro dall’A. P., dato che beneficia di
donazioni governative e non governative che sono
strutturalmente legate al processo di Oslo, le classi
di politici, di funzionari di polizia e burocrati
ricevono tutte le loro entrate, legittime e
illegittime, direttamente dall’A. P. facendo in modo
che lo stipendio di decine di migliaia di palestinesi
dipendesse direttamente dal processo di Oslo, gli
architetti degli accordi avevano puntato grosso a
favore della sopravvivenza del processo stesso, anche
se, e soprattutto se, questo processo avrebbe finito
per non produrre nessun risultato politico. Per
l’elite palestinese che si prese l’incarico di
dirigere l’A. P., il compito principale, per tutto il
tempo dagli accordi ad oggi, è stato di fare in modo
che il processo continuasse (con o senza risultati) e
che essa stessa restasse a guardia di tutte le
istituzioni che garantiscono la sopravvivenza del
«processo». Ciò che questa elite non ha saputo
prevedere è che prima o poi essa poteva perdere il
potere a favore di Hamas, che ha apertamente sempre
avversato il processo di Oslo e che nel 1994, come era
logico, boicottò le elezioni manipolate e controllate
da Fatah. Le elezioni del 2006, che Fatah era sicura
di vincere, hanno costituito un terremoto politico che
mette in pericolo tutte le garanzie strutturali e con
esse lo stesso «processo» la cui protezione dovevano
assicurare.

Se quando il movimento palestinese era diretto
dall’Olp l’obiettivo per cui lottavano i palestinesi
era la «causa», con l’Autorità Palestinese,
l’obiettivo a cui dedicarsi diventò il «processo». E’
in questo contesto che i benefici finanziari che si
ottengono nel momento in cui si entra in una delle
suddette classi finiscono per assicurare che i
palestinesi rimangano impegnati a portare avanti il
processo. Il panico che di recente abbiamo visto
manifestare dalle classi dei politici, dei funzionari
di polizia e dei burocrati è direttamente collegato
alla loro percezione secondo la quale se non
capovolgono la situazione determinata dalla vittoria
di Hamas, finiranno per perdere i benefici che fin’ora
hanno conseguito. Si è visto in concreto che perfino
degli intellettuali e dei tecnici membri del ceto
delle NGO hanno cominciato a spiegare che la vittoria
di «Hamas» non è stata così travolgente come si
credeva; costoro si sono impegnati in analisi
meticolose su ogni distretto elettorale, e hanno
addirittura cominciato a fornire consigli e
suggerimenti ai membri delle classi legate all’A. P.
per aiutarli a indebolire Hamas. La classe degli
uomini d’affari palestinesi a sua volta ha tenuto una
riunione a Londra essenzialmente con lo scopo di far
pressione su Hamas perché appoggi il «processo».

E così, non appena Hamas ha vinto le elezioni, i
membri della classe politica hanno iniziato ad
incontrarsi apertamente e segretamente con funzionari
americani e israeliani per programmare insieme il
sabotaggio dei vincitori delle elezioni. Questi
programmi presto dovrebbero coinvolgere paesi arabi
confinanti, impegnati come l’A. P. a servire gli
interessi americani e israeliani. La classe politica
dell’A. P. non si preoccupa più se il suo gioco
diventa di pubblico dominio; questo spiega l’arresto
spettacolare di un funzionario di Hamas per essere
riuscito a portare a Gaza donazioni straniere, un
delitto per cui non sarebbe certo stato arrestato se
avesse seguito la corrotta tradizione dei dirigenti di
Fatah e dell’A. P. che regolarmente rubano fondi
pubblici palestinesi e li portano fuori da Gaza,
piuttosto che dentro! La classe dei funzionari di
polizia si è scatenata per re-imporre il suo potere,
dimostrando così di essere niente altro che una banda
di delinquenti pronti a reprimere, al servizio del
processo di Oslo, tutti i palestinesi .

La burocrazia si è rifiutata di cooperare con i
dirigenti di Hamas è ha cominciato a minacciarli
rifiutandosi addirittura di farli entrare negli stessi
uffici ministeriali che spettano loro di diritto.
L’ultimo assalto agli uffici del primo ministro e alla
sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah, e la loro
distruzione col fuoco, è una chiara dimostrazione che
queste tre classi create dall’A. P. faranno qualsiasi
cosa pur di non perdere i benefici finanziari di Oslo.

Tutte le storie di decine di migliaia di impiegati
palestinesi che non ricevono i loro stipendi per due
mesi sarebbero state più commoventi per una
popolazione palestinese se questa avesse avuto uno
stipendio regolare. Dal momento che la maggioranza dei
palestinesi, dall’inizio della seconda Intifada ad
oggi, ha avuto entrate minime, quando le ha avute, la
situazione degli impiegati dell’A. P. è stata vista,
giustamente, come non eccezionale o più tragica di
quella del resto della popolazione. In realtà è
proprio lo scendere sullo stesso piano della
maggioranza della popolazione palestinese (che con
Oslo ha perso) che sembra irritare le classi legate
all’A.P. che invece da Oslo hanno tratto beneficio.
Queste ultime sono quindi determinate ad impedire ad
ogni costo la perdita dei loro privilegi di classe.

La vittoria elettorale di Hamas sta quindi aiutando a
unificare Fatah, partito che prima delle elezioni era
lacerato da divisioni e lotte intestine, a tal punto
che solo nel gennaio scorso si parlava tra alcuni
elementi del partito che se Mahmoud Abbas avesse
rimandato le elezioni, lo avrebbero assassinato.
Abbas, che contrariamente ad Arafat, non ha molti
sostenitori tra la gente o nel partito stesso, si
ritrova con le mani più libere di assecondare i voleri
degli americani o degli israeliani se questi gli
assicurano la continuazione del «processo». Fatah ora
si sta unendo intorno ad Abbas, proprio come egli si
stringe a Fatah. Infatti Abbas ha di recente fatto
pace con ciò che è rimasto dell’OLP – che proprio lui,
come Arafat prima di lui, aveva contribuito a
smantellare – vale a dire ha ricucito il rapporto con
Farouq Qaddumi e Suha Arafat dopo mesi di rancori.
Rimane poco chiaro tuttavia se l’A.P. ricomincerà a
pagare a Suha e a sua figlia gli assegni
multimiliardari in dollari che pagava prima. Anche il
sedizioso Mohamed Dahlan, che vuole per sé tutta la
torta, sta correndo al soccorso di Abbas.

E così, mentre da una parte egli consolida e accentra
l’autorità nelle sue mani dalla prima volta da quando
è al potere, dall’altra ha creato recentemente una
guardia pretoriana per rinforzare la sua sicurezza in
quanto supremo guardiano (o dobbiamo dire padrino?)
del «processo». Israele si è subito affrettato di
mandare armi nei territori occupati per attrezzare
questa nuova forza repressiva. Come risulta chiaro
dalle dichiarazioni pubbliche di Abbas, le uniche
volte che protesta contro gli israeliani è quando
Ariel Sharon e in seguito Ehud Olmert minacciano di
porre fine al «processo» con azioni unilaterali.
Altrimenti, Abbas si è mostrato molto disponibile per
qualsiasi proposta israeliana e americana.

Hamas, da parte sua, ha adottato una tattica che ci
ricorda Salvador Alliende. Come Alliende, Hamas
continua a insistere sulle regole democratiche, dal
momento che i suoi oppositori malavitosi e banditeschi
non pongono limiti alle loro azioni cospiratorie e
traditrici. E’ certamente vero che l’assalto agli
uffici di Ismail Haniyeh non hanno l’ampiezza
dell’attacco alla Moneda dell’11 settembre del 1973,
ma i delinquenti vogliono per ora dimostrare che sono
pronti a fare quello che fece Pinochet, per servire
gli interessi di Fatah e quelli di Israele. Malgrado
tutto ciò, Hamas sembra mostrare una strana reticenza.
Hamas potrebbe, per esempio, arrestare l’intera alta
dirigenza (e buona parte di quella intermedia) di
Fatah e dell’A.P. con l’accusa di corruzione e
tradimento nazionale, fatti dei quali ci sono ampie
prove documentarie, processandola in modo aperto e
onesto. Potrebbe mobilitare la popolazione contro
queste figure corrotte con dimostrazioni di piazza e
attraverso i Media. Il fatto che non abbia intrapreso
questa strada, sta a dimostrare che il suo impegno è
quello di preservare una parvenza di pace e di
rifiutarsi di rispondere alle provocazioni tese a
scatenare una guerra civile che l’ormai sconfitta
Autorità Palestinese vuole provocare come possibile
via per ripristinare il «processo».

Mentre l’Autorità Palestinese e le classi che ne hanno
tratto beneficio combattono una battaglia per tenere
in vita il «processo», gli israeliani hanno
abbondantemente dimostrato che per quanto li riguarda
il «processo» è finito da molto tempo. Per loro il
processo di Oslo è stato solo un passo necessario ma
storicamente limitato, finalizzato a cooptare la
dirigenza palestinese, rafforzare la presa di Israele
sulle terre rubate ai palestinesi ed infine
normalizzare lo status diplomatico del paese con i
paesi arabi e nel mondo in generale. Dal momento che
gli israeliani hanno raggiunto tutti questi obiettivi,
il processo non gli serve più. In questo momento, la
loro perdurante campagna di bombardamenti per
assassinare civili e politici sia favorevoli sia
contrari al «processo», nella Cisgiordania e a Gaza,
non mostra segni di voler diminuire di intensità. E’
ormai chiaro che dal momento che il processo di Oslo
non ha fatto altro che portare disgrazie su disgrazie
ai palestinesi, l’unica ragione per il suo
mantenimento è quello di tenere in vita le classi e
ceti sociali legati all’A.P. che ne sono i principali
e unici beneficiari.

Che nessuno si inganni, questa è la posta in gioco
della battaglia che si sta svolgendo a Gaza e in
Cisgiordania. Ciò che si sta decidendo è il destino di
nove milioni di palestinesi.


J. Massad è professore associato di politica araba e
storia del pensiero moderno alla Columbia University.
Il suo libro, The Persistence of the Palestinian
Question , è stato recentemente pubblicato da
Routledge.


Originale da 15 - 21 giugno 2006, numero 799

Tradotto dall'inglese da Manno Mauro, membro di
Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità
linguistica. Questa traduzione è in Copyleft.