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Assassini anche loro, ma rispettabili

di Domenico Quirico - 28/06/2006

 

Leader spietati, molti africani ma non solo, vengono abitualmente ricevuti nelle cancellerie del mondo

PARIGI. Foto ricordo del vertice franco-africano, il ventiduesimo. I proconsoli di quello che era (e resta) l’impero vengono a rapporto all’Eliseo, da Chirac. Il presidente è al centro, padrone di casa di socievole sussiego; gli altri ammassati dietro, a gruppone da gita scolastica, chi in grisaglia, chi indossando quelli che un tempo Le petit journal definiva «i pittoreschi costumi». Molti di loro hanno ascoltato Mitterrand (nel 1990!) quando li invitò con burbera energia a fare, suvvia, «uno sforzo democratico». Sono ancora lì; e purtroppo non sono cambiate le antiche usanze. Nessun lieto fine. Esempi.
Idriss Deby, Ciad: presente! Parigi ha appena spedito la Legione per puntellarne il potere minacciato da rivali più scorbutici del solito. Aveva militarmente varcato la soglia del suo Palazzo nel 1990, e già i suoi bravi ammansivano con il terrore la astiosa tribu degli zaghawas. Non ha mai smesso. È maestro nella criminalità politica ed economica. La Francia non lo rimprovera affatto, anzi scatena puntualmente la lobbyng per evitargli le sollecitudini della Commissione Onu dei diritti umani. Adesso che è ricco di petrolio è diventato ancor più presentabile.
Denis Sassou N’guesso, Congo Brazaville: presente. Della Mafiafrique, dei suoi governatori neri che hanno sostituito quelli bianchi, è stagionata presenza. La guardia presidenziale nel ‘99 nella zona portuale di Brazzaville ha massacrato 300 persone. Lui dice che sono esagerazioni giornalistiche. A Parigi gli credono.
Ahmed Sèkou Touré, Guinea: presente. Ha preso il potere con un golpe nel 1984. Nel 2003 lo hanno rieletto con il 95,6% dei voti ma l’avversario l’aveva insediato lui, la democrazia ridotta a turlupineide gli piace. Corrotto astuto feroce, non riescono a liberarsene neppure con l’attentato. Dopo uno di questi tentativi falliti alla radio ha detto: «Dio non ha ancora deciso che io muoia».
Cambiamo Africa. Il processo ad Hailé Mariam Menghistu dura da più di dieci anni, un record. Il capo d’accusa è pesante: aver assassinato quando era il negus rosso dell’Etiopia tra 50 mila e 350 mila persone. Voleva a tutti costi l’uomo nuovo, quello vecchio gli appariva irrecuperabile. La Norimberga che lo riguarda ha appena subito l’ennesimo grottesco rinvio. Vive indisturbato nello Zimbabwe, fa il signore di campagna in una tenuta comprata opportunamente ai tempi del potere.
Due suoi complici che firmavano le criminali decisioni della giunta marxistico-militare hanno perfino trovato rifugio nell’ambasciata italiana ad Addis Abeba. Non è un caso che ad ospitare la dorata pensione di questo boia che non si è neppure pentito sia Robert Mugabe. Anche lui in una comunità internazionale che applicasse davvero il principio del diritto avrebbe molte piaghe da giustificare. Vispo Ubu continua invece a farsi eleggere con elezioni truccate, bonificando l’opposizione con la pulizia etnica e l’intimidazione.
Il paese stramazza di fame, mancano medicine e carburante, l’agricoltura agonizza dopo essere stata la più florida dell’Africa. La comunità internazionale gli ha tenuto per un po’ il broncio. Ma il Fondo monetario lo ha riabilitato, il suo piano malthusiano per pagare i debiti a costo di uccidere per fame la popolazione lo ha trovato ottimo. E poi a un antico eroe terzomondista si perdonano molte cose. Signori, in fondo lo eleggono! Ad Arusha i giudici del tribunale internazionale per i crimini in Ruanda stancamente cercano di provare le colpe di manovali di quell’orribile carnaio di hutu. Paul Kagame, presidente del Ruanda ritornato in mano ai tutsi, figura tra gli accusatori implacabili. Le sue truppe occupano e saccheggiano abusivamente, insieme a quelle dell’alleato ugandese Museweni, ll pingue Congo; ma a Washington, dove Kagame ha studiato l’arte della guerra, lo adorano. Clinton lo ha aiutato a vincere la guerra, Bush lo riceve alla Casa Bianca, lo trova un africano così «moderno»! Non gli chiederà mai che fine hanno fatto decine di migliaia di vecchi, donne e bambini hutu inghiottiti nella spietata vendetta. Museweni per gli americani è la faccia presentabile della nuova Africa: peccato che i suoi soldati trattino intere regioni come terre conquistate. Il presidente sudanese Al Beschir, invece, ha passato brutti momenti con le Cancellerie, era all’indice: organizzatore di terrorismi islamici, amico di bin Laden, massacratore delle popolazioni del sud petrolifero e non musulmano. Poi la catarsi con riabilitazione. El Beschir non è cambiato, ma il petrolio ha smacchiato molte colpe. Eppure nel Darfur le squadre dei suoi diavoli a cavallo hanno condotto un metodico genocidio. L’etiopico Zenawi e l’eritreo Afeworki hanno scatenato una guerra criminale e insensata, riducendo i loro paesi già poverisimi ala soglia della carestia, le galere trabondano di oppositori. Sono colpe gravi, ma non provocano trasalimenti nella diplomazia internazionale compresa quella italiana.
Per due dittatori che sono comparsi davanti a un tribunale internazionale, Milosevic e Taylor, l’inventore liberiano dei bambini soldato, quanti frequentano indisturbati i vertici internazionali e fanno, senza far ribollire il sangue, le visite di stato? Come l’uzbeko Karimov e il turkmeno Niazov, spietati amministratori di immense riserve di gas e petrolio. E chi ha mai chiesto davvero conto alla Giunta del generale birmano Than Shwe della sua gabbia orwelliana?