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L’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina spinge l’Europa a un passo dalla guerra

di Francesco Lamendola - 01/12/2011


http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d5/Bosnian_Crisis_1908.jpg

Il 2 luglio 1908  il ministro degli Esteri russo, A. P. Izvolskij, scrisse una lettera al suo omologo austriaco, Alois von Aehrenthal, comunicandogli, di sua iniziativa e senza consultarsi con Londra e Parigi, che, qualora l’Austria si fosse annessa la Bosnia-Erzegovina, la Russia non si sarebbe opposta, a patto che ricevesse a sua volta l’appoggio austriaco per la questione del passaggio attraverso gli Stretti delle proprie navi da guerra.
Pochi giorni dopo scoppiò la rivoluzione dei Giovani Turchi e l’armata di Salonicco marciò su Costantinopoli, per obbligare il Sultano a ripristinare la Costituzione: ciò rendeva indispensabile una pronta decisione austriaca circa la Bosnia-Erzegovina, perché un nuovo governo ottomano, dominato dal partito nazionalista, quasi certamente avrebbe rimesso in discussione il destino delle due ex province turche.
Così, il 16 settembre, Aehrenthal ed Izvolskij si incontrarono nel castello di Buchlau e formalizzarono la precedente proposta di accordo bilaterale; non fu redatto un unico verbale e le due versioni del documento non sono ugual;, comunque, nella sostanza, esso recepiva la proposta russa del 2 luglio, anche se, in seguito, Izvolskij sostenne di non aver inteso che l’azione austriaca fosse imminente.
Poi, per non assumersi la responsabilità della prima picconata alle decisioni del Congresso di Berlino del 1878, il 5 agosto Aehrenthal scrisse allo zar di Bulgaria, Ferdinando di Sassonia-Coburgo Gotha, sollecitandolo a rompere con la dipendenza formale dalla Turchia; ciò che il sovrano bulgaro fece due mesi dopo, il 5 ottobre, proclamando formalmente l’indipendenza. Il giorno dopo, 6 ottobre, l’imperatore austriaco proclamò ufficialmente l’annessione della Bosnia-Erzegovina, cogliendo alla sprovvista le varie cancellerie europee.
In Serbia venne proclamata la mobilitazione dell’esercito; a Costantinopoli scoppiarono degli incidenti a danno di cittadini austriaci; perfino a Praga vi furono gravi disordini, al grido di: «Viva Belgrado!»; le altre capitali accolsero gelidamente la mossa di Vienna. Il ministro degli Esteri italiano, Tittoni, ebbe un incontro con Aehrenthal e gli fece presente che, ai sensi dell’articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza, si aspettava “compensi” per il proprio Paese.
Izvolski cercò inutilmente di ottenere dalla Francia o dall’Inghilterra un impegno per il transito della flotta russa attraverso gli Stretti, per riequilibrare la posizione russa rispetto al rafforzamento austriaco. Nel febbraio del 1909 gli Imperi Centrali raggiunsero due importanti obiettivi: la Germania, riconoscendo la posizione francese in Marocco, ottenne la benevola neutralità di Parigi nella questione balcanica; e l’Austria, mediante il pagamento di due milioni e mezzo di lire turche, ebbe il benestare ottomano per l’annessione.
La Serbia, però, non disarmava; la sua opinione pubblica parlava apertamente di muovere guerra all’Austria e il governo russo continuava a spalleggiare quello di Belgrado. Il 14 marzo il cancelliere von Bülow comunicò all’ambasciatore russo a Berlino che, se il suo governo non si fosse adoperato per trattenere la Serbia, la Germania non avrebbe fatto nulla per fermare l’Austria e la Russia ne avrebbe portato la responsabilità; istruzioni analoghe venero date, il 21 marzo, anche all’ambasciatore tedesco a San Pietroburgo, che le trasmise al governo russo.
La minaccia era trasparente ed Izvolskij, rendendosi conto che Parigi e Londra non lo avrebbero sostenuto, dovette cedere, dichiarando, il 24 marzo, che accettava senza riserve l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina. Tre giorni dopo l’Austria proclamava la mobilitazione del proprio esercito verso la frontiera della Serbia e del Montenegro (piano di guerra B, come Balcani) e il 31 il governo di Belgrado, su pressione delle grandi potenze, dichiarava a sua volta di accettare l’annessine austriaca e di voler ristabilire con Vienna relazioni di buon vicinato.
La crisi ebbe termine in aprile, con l’adesione del Montenegro al riconoscimento della nuova situazione e con la soppressione, da parte delle potenze, dell’articolo 25 del Trattato di Berlino, che stabiliva la semplice occupazione e non l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria. La Serbia, da parte sua, poté annettersi il Sangiaccato di Novi Pazar, che l’Austria aveva occupato, anch’esso, nel 1878, ma che ora aveva deciso di sgomberare.
Fu una vicenda spinosa e molto pericolosa, che portò l’Europa più vicina alla guerra di qualunque altro evento, compresa la crisi marocchina del 1905; una vicenda che, proprio perché anticipatrice delle dinamiche che, pochi anni dopo, avrebbero condotto allo scoppio del primo conflitto mondiale,  è stata oggetto di lunghe discussioni da parte degli storici, i quali ne hanno interpretato in vario modo le responsabilità.
Questo è il bilancio che lo storico liberale Luigi Salvatorelli traccia della crisi bosniaca e delle sue conseguenze nella sua ormai celebre «Storia del Novecento» (Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1957, poi 1981, vol. 1, pp. 505-06):

«Sempre con la dovuta riserva, o anzi negazione, rispetto alla fatalità degli avvenimenti storici, bisogna pur dire che con la crisi bosniaca, o più precisamente con il modo con cui si condussero gli imperi centrali per essa, un passo decisivo, per non dire addirittura il decisivo, fu fatto verso la guerra del 1914: e fu fatto in stretta congiunzione e con uguale responsabilità dai due governi, e anzi dai due uomini, Aehrenthal e Bülow, contro i quali non potrà mai essere abbastanza severo il verdetto della storia. Pura volontà di sopraffazione fu quella di Aehrenthal, di non volere una conferenza che ratificasse l’annessione. La Russia in condizioni analoghe (più favorevoli a lei) l’aveva accettata nel 1870-71; la Francia anch’essa (in condizioni più favorevoli) l’aveva accettata nel 1905-06. Nessun rischio - assolutamente nessuno - correva l’Austria-Ungheria andandosi a sedere al tavolo della conferenza. Fu da parte di Aehrenthal (della cui sanità mentale, almeno in questo momento, si può dubitare tanto e più di quella di Delcassé) una pura e semplice affermazione di potenza, cioè di prepotenza: un “quos ego” bruitale e stupido. “C’est puire qu’un délit: c’est une erreur”, avrebbe ripetuto Talleyrand. Bülow non trattenne il collega sulla via dell’errore: si potrebbe dire che ve lo spinse aggiungendo di suo, ancora più grave, la carta bianca data all’Austria contro la Serbia e contro la Russia. Come, dopo ciò, egli possa aver avuto il “toupet” di condannare e schernire Bethmann-Hollweg per la sua condotta strettamente analoga (meno faziosa e fatua, occorre aggiungere) nel luglio 1914, è un caso di incoscienza tipico. E qui più che mai egli fu non solo consenziente, ma promovente: e suo fu l’atto finale, l’ultimatum alla Russia del 22 marzo. Con spirito leguleio si è sostenuto da taluni, e forse ancora si sostiene, che di ultimatum non si possa parlare. Si può, e anzi di deve, precisando che fu un ultimatum indiretto, una bomba a scoppio ritardato. Dicendo in tono oracolare, che, se fosse mancato il “sì” esplicito richiesto al governo russo, quello tedesco avrebbe lasciato che le cose avessero il loro corso (“den Dingen ihren Lauf lassen”), Bülow - o Holstein? In quel tempo l’ex-consigliere faceva visite notturne regolari al cancelliere - intimava alla Russia che, in quel caso, la Germania avrebbe lasciato che l’Austria-Ungheria attaccasse la Serbia, e ne facesse quel che credeva meglio; e se la Russia fosse intervenuta, avrebbe trovato contro sé la Germania, con tutta la forza delle sue armi. La Russia cedette; ma da quel momento nel popolo e nel governo si radicò, insieme con l’umiliazione profonda, un rancore che attese il momento della sua soddisfazione.
Fu anche, la conclusione della crisi bosniaca, un consolidamento e un restringimento capitale della Triplice Intesa, che le dette il valore politico e morale di una vera alleanza. Questa seconda conseguenza erra meno “fatale”, meno irreparabile della precedente: e ci furono occasioni per la Germania di allentare l’uno e l’altro nodo che legava le due potenze occidentali alla orientale, per l’”Einkreisung”. La Germania si fece un dovere di sciupare le occasioni. Noi tedeschi non temiamo nessuno al mondo” aveva detto un giorno Bismarck l’infallibile.»

In questa pagina di prosa sono concentrati alcuni aspetti tipici della storiografia liberale italiana contemporanea e poiché essi, specialmente dopo il 1945 e dopo che i suoi esponenti son venuti a trovarsi, per così dire, dalla parte “giusta” della barricata, hanno finito per acquisire lo status di verità ultime e definitive, non sarà male evidenziare, invece, quanto in essi è obiettivamente accettabile e quanto, invece, risente di una impostazione ideologica che tende a sforzare i fatti per dimostrare una tesi precostituita.
Che la crisi bosniaca e il modo in cui fu condotta dagli statisti austriaci e tedeschi abbiano effettivamente contribuito ad aggravare la tensione internazionale e compiuto un ulteriore passo verso la guerra del 1914, su questo non c’è ombra di dubbio; del resto, c’è mai stato qualcuno che lo abbia posto seriamente in discussione?
Resta da vedere se l’azione degli Imperi Centrali fu realmente così sconsiderata e gratuita come Salvatorelli vorrebbe far credere; e, inoltre, se le potenze del campo avverso possano vantare, in quel frangente, una maggior moderazione e saggezza politica; per non parlare del ruolo ambiguo e velleitario svolto dagli statisti italiani.
Ma facciamo un passo alla volta.
Da un punto di vista metodologico generale, Salvatorelli parla, da un lato, hegelianamente, della “fatalità” degli avvenimenti storici; poi, saltando all’estremo opposto, tende ad attribuire alla “pazzia” di Aehrenthal, e magari alla omosessualità di Bülow (le scandalose visite notturne di Holstein!) la responsabilità di aver giocato col fuoco e di aver spinto l’Europa sull’orlo di una conflagrazione generale.
Invece bisognerebbe decidersi: gli eventi della storia sono “fatali”, nel senso di predeterminati, oppure sono minacciosamente appesi all’esile filo della sanità mentale e della probità sessuale di qualche statista in giro per il mondo?
Nel primo caso, tanto varrebbe che gli storici, invece di affaticarsi sui documenti, si fornissero di una sfera di cristallo e passassero le notti a scrutare il cielo e fare pronostici, come Nostradamus; nel secondo, dovrebbero vestire il camice bianco dello psicanalista o, magari, intrufolarsi nel confessionale di una chiesa cattolica, per carpire i vergognosi e inconfessabili segreti privati che muovono le ruote della grande diplomazia internazionale.
Quanto, poi, a chi la pensa diversamente da lui, Salvatorelli non esita ad accusarlo di “spirito leguleio”, riferendosi esplicitamente a quanti negarono che la comunicazione del governo tedesco a quello russo del 21 marzo avesse il carattere tecnico di un “ultimatum”.
Non sono precisamente il linguaggio e il modo di argomentare propri di uno storico sereno ed imparziale; ma Salvatorelli non è affatto nuovo a simili uscite: se ne potrebbero fare, anzi, numerosissimi esempi, tanto da riempire un libro.
Ci limitiamo ad uno fra tutti, sempre tratto dalla «Storia del Novecento»: riferendosi a quegli anti-dreyfusardi francesi che continuarono, anche dopo la riabilitazione del capitano ebreo, a sostenerne la colpevolezza, egli, riferendosi specificamente a Maurras e Daudet, scrive che continuarono con la loro propaganda colpevolista «fino a che la morte spense loro la calcolata menzogna sul labbro» (vol. 1, p. 332): una espressione letteraria di sapere dannunziano che può piacere o non piacere sul piano estetico, ma che la dice lunga sul grado di obiettività verso quei personaggi e quegli eventi della storia che non incontrano le simpatie politiche dell’autore.
E adesso entriamo nel merito delle sue affermazioni.
Non è affatto vero che l’accettazione di una conferenza internazionale, da parte dell’Austria, non presentasse alcun rischio e che il rifiutarla fu un atto di pura e semplice prepotenza: nella conferenza di Algeciras (gennaio-aprile 1906) la Germania si era trovata diplomaticamente isolata e scaricata perfino dall’alleata Italia nella questione marocchina; per cui aveva dovuto cedere e far buon viso alla penetrazione francese nel Marocco, sul quale aveva essa stessa delle mire, non essendo ancora pronta ad affrontare un conflitto generale contro le forze riunite della Francia, della Russia e della Gran Bretagna.
Era possibile che, adesso, una simile sorte toccasse proprio al’Austria, la cui posizione era certamente meno forte di quanto lo fosse stata quella tedesca tre anni prima; a meno che la Germania facesse capire di essere pronta a dare la parola alle armi: ma, in tal caso, era preferibile farlo capire direttamente alla Russia e non in una conferenza internazionale, che avrebbe fatto da cassa di risonanza ai contrasti e, probabilmente, reso inevitabile un conflitto.
Sia l’Austria che la Germania, ormai, si sentivano accerchiate; cresceva nei loro uomini di governo l’idea che quanto prima si sarebbe fatto un energico sforzo per rompere l’accerchiamento, tanto meglio sarebbe stato; e che se ciò avesse significato la guerra, ora le circostanze erano nettamente più favorevoli, sotto il profilo tecnico-militare, di quanto lo fossero state nel 1906.
Si andava delineando il quadro fatale che, nel 1914, provocò lo scoppio del conflitto: sia il ministro degli Esteri austriaco, Berchtold, che il cancelliere tedesco, Bethmann-Hollweg, avrebbero agito nel giugno-luglio del 1914 sulla falsariga di quanto avevano fatto i loro rispettivi predecessori, Aehrenthal e Bülow.
Se una conferenza internazionale fosse stata convocata nel 1908-09, non si vede come sarebbe stato possibile impedire che vi partecipassero anche i rappresentanti dell’Impero ottomano; né si vede come l’Austria, che nel 1878 aveva avuto l’autorizzazione ad occupare la Bosnia-Erzegovina, ma solo a titolo temporaneo e senza pregiudizio per la sovranità del Sultano, avrebbe potuto giustificare l’annessione.
D’altra parte, per l’Austria sarebbe stato impossibile riprendersi da uno smacco quale la richiesta di annullare l’annessione, proclamata solennemente da Francesco Giuseppe in persona; nel ginepraio balcanico avrebbe forse fatto meglio a non entrare: ma, una volta entratavi, non le restava altra strada percorribile se non quella scelta da Aehrenthal. Sottoporsi al giudizio delle potenze avrebbe ridato fiato al nazionalismo serbo e innescato un processo centrifugo inarrestabile al proprio interno, avente per motore la componente serbo-croata e, forse, anche quella slovena.
Perciò, contrariamente a quello che può sembrare, sia nel 1909 che nel 1914 la decisione austriaca di spingere la crisi internazionale, se necessario, fino alle estreme conseguenze, nasceva molto più dalla consapevolezza della propria debolezza che da un atto di sfida gratuita nei confronti delle altre potenze, particolarmente della Russia.
La Germania, a sua volta, era legata alla politica austriaca più di quanto quest’ultima fosse legata a lei: dopotutto, l’Austria era il solo alleato sicuro su cui poteva contare, in tutta Europa e in tutto il mondo; l’Italia non lo era di certo, visto come si era comportata ad Algeciras e come, di nuovo, si comportò nel 1908-09, aspettandosi assurdamente che l’Austria, dopo aver annesso la Bosnia, le avrebbe ceduto, a titolo di compenso, il Trentino.
Questo è quanto emerge da un esame spassionato dei fatti: il dilettantismo di Pietroburgo, il calcolato cinismo di Londra e Parigi, l’aggressività incontenibile di Belgrado, l’insipienza e la doppiezza di Roma: tutti questi elementi vanno tenuti presenti per farsi un’idea veritiera del quadro, e non solo l’avventurismo di Vienna e la tracotanza di Berlino.
Non si può continuare a fare la storia dell’Europa moderna, scaricando sempre tutte le colpe più gravi sul “militarismo” tedesco e sull’imperialismo degli Imperi Centrali: perché un militarismo non meno virulento e un imperialismo altrettanto sconsiderato dominavano anche, in varia misura, presso gli altri protagonisti della scena politica internazionale. E non si può continuare a fare dei sistemi politici scarsamente liberali e poco o nulla democratici, come lo erano quelli austriaco e tedesco, ma anche il russo ed il serbo, il capro espiatorio di ogni catastrofe, come piacerebbe agli storici di formazione liberale.
Essi hanno l’obbligo di essere imparziali, anche quando devono valutare l’impatto che ebbero le decisioni politiche di governi i quali non si ispiravano ai principi ideologici in cui fermamente credono; e liberarsi dal pregiudizio secondo il quale solo il liberalismo e la democrazia possono condurre alla giustizia e alla pace, mentre l’assolutismo porterebbe inevitabilmente all’ingiustizia e alla guerra. Quanto, poi, al fatto che, nell’età del liberalismo, vi fossero ancora degli Stati che si reggevano ispirandosi al principio di autorità, meglio farebbe lo storico a prenderne atto e studiarne le ragioni, anziché deprecare una tale “deviazione” da ciò che egli, per sé, ritiene nobile e giusto…