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Bellissima

di Francesco Lamendola - 27/12/2011





Il tuo sorriso dolce t’illumina come fosse primavera e lo sguardo è ancora vivo, caldo, innamorato della vita.
Sei più vicina ai settanta che ai sessanta, eppure non lo si direbbe; hai un fascino senza età e potresti insegnare molte cose, in fatto di stile, alle ragazze di venti.
La vita ti ha scavato le rughe sul volto, ad una ad una, ma senza offuscare la tua bellezza: l’ha resa soltanto più intensa, più struggente, come un magnifico albero la cui chioma, in autunno, si tinge dei colori caldi che precedono la caduta.
Nei movimenti appena un po’ appesantiti, nella sfumatura di malinconia che indugia, talvolta, agli angoli delle labbra, o che si posa per un istante sul tuo sguardo, come una nuvola di primavera che copre il sole e poi si allontana, ci sono una grazia che commuove, una consapevolezza dignitosa del tramonto, senza commiserazione e senza patetica sfrontatezza.
Non giochi a fare la ragazzina, come certe tue coetanee; non vuoi nemmeno arrenderti inerte alla vecchiaia e lasciarti andare; curata nel vestire, ma senza eccessiva ricercatezza, con appena un po’ di trucco e i capelli biondi naturali, mostri di accettare il presente così come viene, di accogliere senza rancore quest’ultima stagione della vita.
È una grande lezione di saggezza, di buon gusto, di misurata eleganza, nel senso più ampio e immateriale della parola.
Sarebbe bello che tutte le donne e tutti gli uomini arrivassero così, con il tuo modo di essere, oltre la soglia della vecchiaia; certo, la tua fortuna è di non avere grossi problemi di salute: ma non è solo una fortuna, è anche una conquista, perché hai sempre condotto una vita sana, senza eccessi nel mangiare, praticando un giusto movimento e anche un po’ di palestra, quanto basta per ritardare l’intorpidimento e l’irrigidimento delle membra.
Per questo ti muovi ancora con grazia ammirevole, pur se non con assoluta scioltezza, anzi talvolta con un certo visibile sforzo.
Riesci a stare in ammirevole equilibrio fra due mondi, come se il tempo si fosse fermato: quello della salute, dell’autonomia, del dinamismo, e quello della progressiva debolezza, fragilità, dipendenza.
Quando inforchi gli occhiali per leggere un libro o il giornale, lo fai con tanta semplicità che quel gesto non ha nulla di senile; oppure te li porti al sommo della testa, come fanno le ragazze giovani, unica concessione alla civetteria femminile: perché, per il resto, non ti concedi che un leggerissimo filo di trucco e gli abiti sono di taglio classico, di colori poco appariscenti, così come le collane o i braccialetti che ami indossare.
Dalla parrucchiera vai non più di una o due volte al mese e non ti fai tingere i capelli, porti con fierezza i tuoi capelli biondi; e la dentiera, che per altri anziani rappresenta un motivo di complessi non indifferente, per te è diventata un’abitudine che non ti pesa affatto.
Ci scherzi sopra, qualche volta: con i tuoi adorati nipotini, per esempio; e questo saper scherzare di una cosa come la dentiera mostra il tuo garbo, il tuo stile, la tua capacità di autoironia: grandissima risorsa di chi non può modificare la realtà.
Intanto ti mantieni vitale scrivendo, qualche volta, in quel tuo quaderno con la copertina di tela a fiori, che custodisci gelosamente nel cassetto del comò; nessuno lo ha mai letto, ma io sospetto che si tratti di poesie, di brevissimi racconti, di pensieri e riflessioni, tratti dall’esperienza quotidiana e passati al vaglio della tua profonda sensibilità.
So che dipingi, anche; acquerelli di paesaggi, di nature morte: li ho visti incorniciati alle pareti, tinte fresche come il bianco e l‘azzurro; poche pennellate sicure, ma dal tocco leggero, quasi solo accennate, di modo che siano l’occhio e la fantasia dell’osservatore a completare il quadro.
Insomma, sei ancora piena d’interessi, ma senza esagerare, senza voler strafare: le tue giornate scorrono tranquille, senza affanno; ogni tanto prendi su la macchina e sparisci per qualche ora, non si sa bene dove vai, magari semplicemente  fuori città, per fare quattro passi in campagna, a riempirti la vista dei fiori e a respirare l’odore buono della terra bagnata di pioggia.
La tua casa è arredata con gusto, ma anche con semplicità; non sei ricca, ma nemmeno povera: in ogni caso, sai come valorizzare ogni singolo oggetto, le tende alle finestre, i tappeti, le piante in vaso disseminate un po’ dovunque,.
È una casa un po’ vecchiotta, una villetta degli anni Sessanta, con un minuscolo giardino attorno, dove i nipotini hanno giocato tanto e, prima di loro, i tuoi figli; c’è pure l’altalena in un angolo, sistemata tra il fico e la betulla, che si dondola nel vento.
I mobili non li hai mai cambiati, sono quelli di mezzo secolo fa, o poco meno: e perché avresti dovuto? Tenuti a lucido, fanno sempre la loro figura; e poi non ami le cose troppo moderne, anche la cucina è di quelle di una volta, senza lavastoviglie, tanto più che ti piace lavare i piatti a mano, uno per uno, con il detersivo e l’olio di gomito.
Il momento che preferisci è dopo pranzo, quando hai finito di sparecchiare e rigovernare la cucina, quando ti siedi in poltrona, gli occhiali sulla punta del naso, e t’immergi mezz’oretta nella lettura del giornale; perché ti piace essere informata e non ti accontenti della televisione. In quella mezz’ora ti piace stare sola e tranquilla, senza nessuno attorno, e goderti in santa pace il silenzio della casa, sottolineato piuttosto che interrotto dal cucù dell’orologio e dal tramestio del pappagallino nella gabbia, appesa là sul trespolo, vicino ala finestra.
Pure, anche se l’immagine che dai agli altri è quella di una calma riposante e di una benevola disponibilità, io so che i tuoi pensieri non sono sempre lieti e, talvolta, un’ombra di tristezza scende sui tuoi occhi, che loro non vedono o, se la vedono, non vi fanno caso.
Non è solo quando siedi a sfogliare i vecchi album delle fotografie, e ti commuovi al pensiero del tempo che passa inesorabilmente e che ti allontana sempre più dal centro della vita, spingendoti verso la fine, un giorno dopo l’altro.
È qualcosa di più profondo, e di più personale: ha a che fare con la tua vita, con il tuo passato, con un marito che non ti ha compresa o che non ha saputo darti quell’affetto, quel sostegno e quel calore che avresti meritato.
Ti capita spesso di ripensare alle vicende della tua famiglia, e sempre ti vedi indaffarata per gli altri, per dare amore e gioia agli altri; ma raramente vedi che essi ne abbiano data a te, sono pochi i ricordi in cui ciò sia avvenuto.
Hai dato e non hai ricevuto: questo è il tuo rammarico, la tua segreta spina nel cuore; hai seminato, ma non hai potuto raccogliere.
Forse è per questo che, d’improvviso, magari mentre stai sfogliando il giornale, seduta in poltrona, ti scende quell’ombra cupa sullo sguardo e offusca la luce dei tuoi occhi nocciola; forse è per questo che, mentre prepari la caffettiera per la colazione del mattino, le tue mani esitano e si fermano per un attimo, rimani come sospesa in un’altra dimensione, sia pure per un paio di secondi appena, prima di riscuoterti e riprendere il gesto interrotto.
Senti un gran vuoto nell’anima: hai la triste consapevolezza che l’amore non ricevuto, il calore che non ti ha scaldato il cuore, ormai non potranno venire più, in alcun modo; che il tempo per riceverli è scaduto, trascorso per sempre; che quel vuoto ti accompagnerà inesorabile, come la tua ombra, fino all’ultimo passo della vita.
E tu, tu ti senti ancora piena di vita; non ti senti vecchia, non ti senti finita: hai ancora tanti interessi, tanta voglia di entusiasmarti per qualcosa, tanta ricchezza interiore da donare e… uno struggente desiderio di riceverla.
Ma come fare?
Ti senti come presa in trappola, sei entrata in un vicolo cieco: ti ripugna l’idea di consumarti così, nel rimpianto delle cose che non ci sono state, della tenerezza che noi ha vissuto; ma ti sgomenta anche l’idea di ribellarti a questa sorte e di cercare, ormai fuori tempo massimo, ciò di cui hai tanta nostalgia.
Temi di renderti ridicola e temi di perdere le tue sicurezze, di compromettere quell’equilibrio sofferto, faticoso, che ti sei costruita, nel corso degli anni, con tanta pazienza e con tanta buona volontà.
Non è ipocrisia; non è il pensiero del giudizio della gente, di smentire l’immagine della nonna serena e tranquilla, sempre accogliente, che gli altri si sono costruita di te; anche se ti amareggia l’idea che nessuno di loro, ma proprio nessuno, nemmeno i tuoi figli ormai grandi, per i quali tanto ti sei prodigata, abbia mai sospettato qualcosa, intuito qualcosa, compreso qualcosa.
Ti domandi fino a che punto possano arrivare la distrazione, la superficialità e, devi ammetterlo con tristezza, l’egoismo degli altri, i quali, tutti presi e assorbiti da se stessi, non hanno occhi per vedere la tua pena segreta, che tuttavia dovrebbe essere evidente.
Alle volte ti sorprendi a sognare ad occhi aperti, come una adolescente, quella pienezza, quella felicità che non hai conosciuto; a chiederti cosa si prova, come la si accoglie, come la si vive, quando essa batte gioiosamente alla porta del nostro cuore; e subito dopo te ne vergogni e arrossisci di te stessa, ti sembra di essere stata puerile, ti giudichi con severità per queste innocenti debolezze, del resto poco frequenti.
Così pure, certe volte ti capita di indugiare davanti allo specchio, in piedi, per osservare tutta la tua figura ancora orgogliosamente eretta, ma appesantita dagli anni; per valutare con occhio critico le rughe intorno alla bocca, le pieghe del collo, la prominenza del ventre; per indugiare nel ricordo di quando, giovane e snella, attiravi l’attenzione di tutti, pur non volendolo, anzi, pur detestando quella ammirazione, che ti rendeva fiera ma che, per un altro verso, ti imbarazzava a morte e ti faceva sentire come nuda, tu che sei sempre stata di carattere aperto, ma al tempo stesso riservato.
E poi ti chiedi che ci sia da guardare, ti allontani quasi bruscamente, come se qualcuno ti avesse sorpresa in quella posa di innocente contemplazione; hai sempre pensato che esiste un’età per ogni cosa  e che, alla tua età, non sta bene preoccuparsi ancora del proprio aspetto, fantasticando in quel senso; che bisogna stare con i piedi per terra, per non rendersi ridicoli.
Eppure, adesso che a quell’età ci sei arrivata, ti chiedi se quei pensieri fossero giusti o se non fossero i soliti pregiudizi dei giovani che non sanno, che non capiscono, che non immaginano la semplice verità: ossia che il cuore è sempre giovane, sempre, sempre; e che l’anima è sempre assetata di dolcezza, di tenerezza, di amore.
Sì, di amore: qualche rara volta trovi il coraggio di confessarlo almeno a te stessa, nella stanza più segreta dei tuoi pensieri; sì, di amore: perché il bisogno di amore, di dare e di ricevere amore, non ha età, checché ne pensino i giovani; e per chi ne ha dato tanto, ma ricevuto così poco, come è accaduto a te, quel desiderio, talvolta, si fa sentire in maniera bruciante, quasi imperiosa, e tanto più sofferta, quanto più ci si sforza di soffocarlo e di nasconderlo a tutti, perfino a se stessi.
Inopportuno? Ridicolo? Vergognoso? E perchè mai dovrebbe essere tale? Che cosa mai ci può essere, in quel desiderio, in quel bisogno, di inopportuno, o di ridicolo, o addirittura di vergognoso? Esso è perfettamente conforme a natura: questo lo sai, lo senti, con tutte le fibre del tuo corpo e della tua anima; e nondimeno te ne ritrai con imbarazzo, quasi umiliata.
È duro doversi accontentare di vivere di rimpianti; è duro anche a sessantotto anni, anzi  a quell’età è ancora più duro, perché non c’è più il tempo di fare qualcosa, di correre ai ripari. Se ci si accorge che la propria vita è vuota quando si hanno quaranta, cinquant’anni, qualche cosa si può ancora fare; ma poi? Ma dopo i sessanta? Ma dopo i settanta?
Tu sei ancora fisicamente sana, tutti ti danno molti meno anni di quelli che sono scritti sulla tua carta d’identità; non è orse naturale che la tua anima continui a protendersi verso quel nutrimento che non ha avuto, e senza il quale le sembra di vivere in uno stralunato deserto?
Certo: hai i tuoi libri; i tuoi pennelli; i tuoi fiori; le tue passeggiate, la tua palestra, le tue conferenze; il cinema, qualche volta; e le amiche. Hai anche la fede in Dio, il che non è poco. Dici allora a te stessa: «Dovrei rassegnarmi, fare buon viso alla vita, anche se in essa c’è un terribile vuoto, profondo come un abisso».
Già, lo dici: ma non ci credi. Perché quel vuoto, a tratti, ti morde alla gola, ti stringe lo stomaco, come il grido soffocato d’un piccolo bambino…