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La geopolitica dell'oro e le riserve di divise

di Alfredo Jalife Rahme - 05/07/2006

 
“La grande crisi delle divise è iniziata, come c'era da aspettarsi?”
Il giornale “San Diego” del 10 maggio 2006 analizza la fuga dei
possessori di banconote verdi verso l'oro - che ha già raggiunto i 730
dollari l'oncia - il bene rifugio di ogni tempo, già millenni prima che
esistesse il monetarismo degradato: in linea con l'inflazione l'oro non
raggiunge ancora il valore massimo di 873 dollari, che ha toccato per
breve tempo nel gennaio 1980. Tuttavia, il suo recente slancio verso le
alte vette, con un incremento del 40% da novembre a questa parte, ha
sorpreso molti analisti (sic) di Wall Street, i quali da vari mesi
speravano che la domanda diminuisse.
Si dà il caso che non abbiano considerato l'approccio multidimensionale
di “Bajo la Lupa”, che li avrebbe resi edotti a proposito del binario
geopolitico su cui si sono incamminate le divise e le materie prime. La
setta dei tecnici neoliberisti - cresciuta in un fanatico
ultrariduzionismo mentale, nella sua visione deformata, orientata verso
il finanziario - manca della cultura storica, della visione d'insieme e
della capacità geopolitica per rendersi conto che il mondo si trova
all'alba di un nuovo paradigma multipolare, che segna la decadenza
irreversibile dell'unilateralismo degli Stati Uniti e del loro modello
dollarocentrico, come pure la fine dell'era del petrolio a buon mercato.

In fin dei conti gli esseri umani vivono di ipotesi e di percezioni,
però incontestabilmente reale è il fatto che l'oro abbia superato la
soglia psicologica dei 700 dollari l'oncia, cosa di cui non si
stupiranno i cari lettori di “Bajo la Lupa”.
Non si salva nessun angolo del pianeta, e perfino il mercato dell'oro al
minuto nello straordinario bazar di Bangkok ha raggiunto prezzi mai
visti da 100 anni a questa parte. Gli analisti di “The Bangkok Post”
(11/5/06) osservano che “i metalli preziosi servono da protezione di
fronte alle tensioni globali, generate ad esempio dalle ambizioni
nucleari iraniane, dall'aumento dei prezzi energetici e dall'incertezza
sul futuro del dollaro”. Nientemeno! Uno solo dei tre fattori citati
sarebbe stato sufficiente per rifugiarsi nell'oro (e nell'argento) e per
buttare nell'immondizia l'inservibile dollaro.

Continuiamo a sfruttare le tre curve di previsione del marzo 2004.
Quando le quotazioni dell'oro e del petrolio iniziarono
contemporaneamente la loro irresistibile ascesa, mentre il dollaro
iniziava il suo crollo, quando ci si rese conto che la coppia
anglosassone Stati Uniti-Gran Bretagna non poteva controllare il
petrolio sciita di Bassora né quello curdo di Kirkuk, un anno dopo
l'invasione illegale dell'Iraq. Semplice, no?

Le tendenze rilevabili nelle quotazioni del marzo 2003 si sono
accentuate due anni dopo, e le cure magiche degli sciamani monetaristi
sono cadute nel più totale discredito, dato che hanno lasciato la coppia
anglosassone in balia della miseria finanziaria. Non faremo legna da
ardere degli alberi caduti delle banche centrali: lo sfortunato mago
Alan Greenspan e il suo disgraziato successore Ben “Elicottero”
Bernanke. Basta leggere la disperazione dei columnists britannici, molto
più lucidi di quelli statunitensi, i quali, una volta arroccati nella
puerile risorsa della negazione, caratteristica di menti immature che
non osano affrontare la triste realtà, non si smuovono dal loro stupore
paralizzante. Gli USA sono ancora allo stadio della negazione della
realtà: la prima fase della sindrome da stress post-traumatico.

Darryl Thomson sul Financial Times, (12/5/06), dà la colpa ad un
“complesso cocktail” di fattori: “domanda fisica, interesse dei fondi
speculativi, preoccupazioni geopolitiche e inflazionarie a causa degli
elevati prezzi del petrolio e della debolezza del dollaro”. Sarà forse
effetto della rugiada notturna, ma la Cina e la Russia hanno iniziato a
ribellarsi agli affronti della coppia anglosassone (secondo Stratfor si
tratta di “insulti strategici”), questa volta sui mercati (il tasto più
dolente).
Durante la riunione della Banca Asiatica di sviluppo, tenutasi a
Hyderabad (India), è stato sufficiente che il viceministro delle finanze
cinese, Yong Li, insinuasse le voci che il dollaro USA si sarebbe
svalutato del 25%', e che le conseguenze sarebbero state catastrofiche
per stravolgere le condizioni della moneta statunitense. La riunione di
Hyderabad, in cui si sono affrontati gli addetti alle finanze di USA e
Cina, ha fornito molta materia di discussione, e Martin Wolf, incaricato
della sezione finanziaria del Financial Times, ha rivelato la collisione
tra cinesi e statunitensi senza la collusione dei giapponesi (“Lasciar
cadere il dollaro o correre il rischio di un disordine globale,
9/5/2006”). Yong Li era stato infastidito dalle impertinenti pressioni
di Timothy Adams, sottosegretario al Tesoro statunitense per rivalutare
il remimbi (la moneta cinese, NdR).

Il giornale tedesco Hadelsblatt(9/5/06) ha svelato i piani della Banca
Centrale Cinese per incrementare le proprie riserve auree, che sarebbero
passate dalle attuali 600 tonnellate a circa 2.500, mentre il Ministero
cinese della Terra e delle Risorse annunciava dal suo seggio (10/5/06)
la propensione a creare riserve strategiche per certi minerali chiave:
uranio, ferro, rame, alluminio, manganese, cromo e potassio. Le materie
prime sono risorte!

Frederick Kempe sul The Wall Street Journal del 9/5/2006, nel suo
articolo “Perché gli economisti si preoccupano di coloro che possiedono
riserve di divise” emette il canto del cigno del decadente impero
finanziario anglosassone: “L'idea che la Cina o un altro rivale degli
USA possa un giorno far valere i suoi ampi diritti nei confronti dei
debiti statunitensi come arma geopolitica, a prescindere dal danno che
ciò causerebbe anche all'economia dell'aggressore, sta conquistandosi
adepti presso alcuni circoli”. Il concetto della riserva di divise come
arma geopolitica è oltremodo interessante, sebbene non sia affatto una
novità (lo abbiamo affrontato già 10 anni fa nel nostro libro - esaurito
– “Guerre geofinanziarie e geoeconomiche: il petrolio dal Golfo Persico
al Golfo del Messico”). Frederick Kempe insiste nel puntualizzare che le
riserve di divise sono “nelle mani di Paesi in via di sviluppo, spesso
rivali tra loro e carenti di democrazia, e scontenti dell'eccessiva
influenza degli USA”. La Cina viene al primo posto nella lista di
Frederick Kempe, che cita dati del FMI: “nello scorso decennio, il mondo
in via di sviluppo ha quasi quadruplicato il suo possesso di riserve,
toccando i 2.9 milioni di milioni di dollari (trilioni in inglese),
mentre quelle del mondo industrializzato sono aumentate del 150%”.
Stando così le cose, il 70% delle riserve globali di divise nelle mani
dei Paesi in via di sviluppo rappresenta un “accumulo spropositato”,
secondo Lawrence Summers, precedente segretario del Tesoro e misogino
direttore di Harvard. La tesi nodale di Kempe è incentrata sul fatto che
le riserve di divise, di cui il 66.5% in dollari, sono raddoppiate nei
cinque anni passati e “si trovano concentrate in mani poco affidabili”.
Cosa significa affidabile? Che tipo di mani?

Da queste affermazioni unilaterali di Kempe si evince un elemento: tutto
ciò che gli Stati Uniti non controllano nelle loro mani non è
“affidabile” né “democratico”, come se il Paese torturatore delle
carceri di Abu Ghraib, nell’infelice epoca di Bush junior fosse una
garanzia (si pensi al possesso irresponsabile della propria moneta, alla
gestione dei deficit di conto corrente o al possesso di armi nucleari -
di sicuro, è l'unico paese che ha osato lanciarle su due popolazioni
civili) “questa svolta radicale fa crescere l'instabilità nel maggior
mercato del mondo per 2 milioni di milioni di dollari di divise, che
attualmente passano in altre mani, cosa che diminuisce l'influenza degli
USA”. Anche le tasse statunitensi sulle ipoteche e l'influenza globale
degli USA sono a rischio.

Chi semina vento raccoglie tempesta. Kempe si lamenta amaramente sotto
il travestimento “democratico”: che, come dovrebbe ricordare, fu un
invenzione dell'ateniese Clistene (508 anni prima di Cristo) e che gli
Stati Uniti praticano in forma anacronistica con il loro sistema
ottocentesco di elezione indiretta, da corte feudale che favorisce la
sua plutocrazia oligopolica e oligarchica. Cita ad esempio Brad Setter,
direttore delle ricerche di Roubini Global Economics: “La Cina, l'Arabia
Saudita e la Russia, - nessuna delle tre una democrazia - stanno
incrementando rapidamente le loro riserve e sono gli Stati che ora
acquistano debiti statunitensi in maggior quantità”. Lo stesso fanno il
Venezuela e l'Iran, che “cercano di minare gli USA”. Un caso di totale
paranoia globale!

Senza la minima compunzione o autocritica, Kempe e Setter non affrontano
le ragioni per le quali gli USA sono diventati un paria della comunità
universale, si tratti di democrazie o di tirannie, con o senza dollari.

Alfredo Jalife Rahme
La Jornada, Città del Messico, 15 maggio 2006
Traduzione di Cinzia Vidali
Fonte: Fonte: GRANELLO DI SABBIA (n°155)
Bollettino elettronico quindicinale di ATTAC
Venerdì 23 giugno 2006