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C’era una volta il Quarto Potere: le nuove sfide della comunicazione

di Pasquale Rotunno - 06/07/2006

 

La razionalizzazione dei processi produttivi sta modificando il senso stesso del fare informazione. Per il sociologo Niklas Luhmann, l’informazione veicolata dai mass media è un’informazione “manipolata”. Cioè confezionata allo scopo di tenere sveglia la società “irritandola” con un’alternanza di sorprese e di rassicurazioni. A giudizio di Luhmann, il sistema dei media è autoreferenziale. Decide da sé le novità, le sorprese e quindi i valori informativi: il “nuovo” prevale in ogni caso sul vero, sul giusto o sul moralmente condivisibile. In questo senso, i mass media sono indipendenti dalla verità e dalla morale. L’efficienza, non la giustizia o la verità, è il criterio guida dei media. Accertato come funziona il sistema dei media, dice Luhmann, ne conosciamo abbastanza per “non poterci fidare di questa fonte”. Ci difendiamo con “un sospetto di manipolazione, che non porta a conseguenze degne di nota, perché il sapere che viene dai mass media si chiude da sé in un complesso che si autorafforza”. È illusorio pretendere di far valere i propri criteri morali dentro un sistema massmediatico in cui ben altre sono le ragioni che contano: la tiratura, l’audience per far crescere gli introiti pubblicitari. Il sistema dei codici deontologici incontra qui il suo limite. In gioco non è più soltanto la morale del singolo giornalista, ma lo statuto del giornalismo d’informazione nel suo insieme.
L’informazione è stata fin dalle origini una sfida economica. I giornali erano di proprietà di chi scriveva. Stampatore e giornalista molto spesso erano la stessa persona; i mezzi a disposizione, la privata sostanza di poche persone private. Il giornalismo fu a lungo espressione di un gruppo sociale antagonista rispetto ai poteri stabiliti. La stessa definizione di “Quarto potere” fu coniata in Inghilterra per designare un ceto diverso dall’aristocrazia, che aveva fino a quel momento dominato le istituzioni. Con l’avvento del suffragio universale, che aveva fatto di ogni cittadino-lettore un cittadino elettore, detenere potere nei giornali significò, non solo per i partiti ma per le lobbies di ogni tipo, acquisire una possibilità di incidere nelle scelte della politica.
In molti paesi, i gruppi industriali più potenti assunsero il controllo di giornali di proprietà familiare. La proprietà dei mezzi di comunicazione passa a holdings che riuniscono attività economiche diversissime. In cui i mass media (intesi solo come merce, e come tali pensati, prodotti e commerciati) sono considerati un mero fattore di profitto. Oppure un modo come un altro per diversificare i rischi d’investimento. Dietro lo sviluppo del sistema dei mass media, premeva un cambiamento sociale più ampio: il generalizzarsi della società dei consumi. Le disponibilità economiche gonfiate dai proventi della pubblicità provocarono una vera e propria esplosione del numero dei vettori. Alla radio si moltiplicarono i canali; alla televisione le ore di trasmissione; nei giornali e nei periodici il numero delle pagine.
Tutti i media hanno beneficiato dell’aumento degli investimenti pubblicitari, ma ne sono divenuti a loro volta più dipendenti. I mass media sono un corpo enorme che però si regge su una base tutt’altro che consolidata o definitivamente acquisita. L’immagine biblica della statua dai piedi d’argilla non è più tanto remota dalla realtà. Negli Stati Uniti, la pubblicità procura ormai l’86% dei proventi dei giornali, le vendite solo il 14%. Nei giornali svizzeri, i tre quarti delle entrate dipendono dalla pubblicità: il 65% in Gran Bretagna, il 64% in Germania, il 58% in Italia, il 41% in Francia. Poiché i siti online sono tuttora ben lontani dall’essere redditizi, il deficit va a carico del bilancio pubblicitario dell’edizione cartacea, accentuando gli squilibri indotti dalle fluttuazioni e aggravando i fattori di dipendenza. Succede allora che le priorità editoriali debbano essere invertite e che le costrizioni economiche inducano a scelte negative sul piano della qualità dell’informazione.
“Siamo dunque di fronte a una professione che cambia, a cominciare dalle parole”. All’estero, “non si parla più di giornalisti ma di news management”, afferma Lorenzo Del Boca, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. “Quasi come se al posto del giornalista, del professionista, vi fosse un dirigente aziendale che gestisce gli input in arrivo per amalgamarli in modo utile e piacevole”. Il giornalismo, sempre più “tivucentrico”, continua Del Boca, “rischia di diventare una fiction e la professione si incammina pericolosamente a essere guidata dalla casualità”. È importante quindi difendere la professionalità del giornalista, oggi più di ieri. Anzitutto curando la formazione del giornalista, che “deve tornare a essere un operatore dell’informazione consapevole di dover compiere quotidianamente una importante e difficile missione”, avverte Del Boca nella prefazione al volume di Carlo Guglielmo Izzo e Fabio Ranucci, “Giornalista si diventa” (Iris 4 Edizioni, 123 pagine, 17,50 euro).
L’accesso alla professione va gradualmente svincolandosi dalla logica della cooptazione. Sono sempre più numerosi i corsi di laurea riconosciuti dall’Ordine dei giornalisti che consentono l’accesso all’esame di Stato. L’elevazione del titolo di studio consentirà, si spera, di avere un’informazione qualitativamente migliore. Per questo c’è bisogno di validi strumenti di studio, aggiornati e precisi, che diano in una mole ragionevole di pagine un quadro completo degli argomenti da conoscere. Il libro di Carlo Guglielmo Izzo, avvocato con un passato in magistratura, e Fabio Ranucci, giornalista e scrittore, risponde a tali requisiti. È strutturato in quattrocento domande e risposte frutto dell’esperienza che gli autori hanno fatto come commissari negli esami di accesso all’Ordine. Sono approfonditi temi che vanno dalla composizione dello Stato al governo e le sue funzioni, dal referendum al potere giudiziario, dalle leggi che regolano il sistema dell’informazione alla libertà di stampa, da come funziona il processo penale a come deve comportarsi un giornalista con i propri informatori. La conoscenza di norme, procedure, codici deontologici, consente al giornalista di salvaguardare meglio la propria autonomia, insidiata da più parti.
Fusioni e concentrazioni di testate si susseguono. L’intento è quello di ridurre la concorrenza; acquisire i lettori/utenti del concorrente eliminato; abbassare le spese di confezione della prima copia ripartendo i costi fissi di produzione su un maggior numero di acquirenti. Raramente la manovra si conclude con un aumento delle copie in circolazione. Cresce invece la pressione del marketing sulla redazione. Le scelte che per tradizione appartenevano all’editore – di fronte alle quali si poneva la cultura “autonoma” e in qualche modo antagonista dei giornalisti – sono ora assunte dal direttore-manager. E imposte alla redazione come una nuova disciplina di gruppo. Ciò toglie legittimazione all’etica individuale caratteristica dei codici del giornalismo e pone in termini nuovi il problema della responsabilità dentro i mass media.
Il marketing è uno strumento utile per accertare con maggior precisione il rapporto tra mass media e fruitori. Chiara dovrebbe essere però la consapevolezza che la conciliazione è problematica. Occorre capacità di approfondire gli aspetti positivi e negativi delle situazioni. Bisognerà forzare il guscio dell’autoreferenzialità e acquisire ragioni pubbliche a sostegno dell’assunzione di difficili responsabilità, se l’informazione è un bene pubblico che come tale (e dunque non solo come prodotto) deve essere valutata.
È in gioco l’indipendenza dei giornalisti e dei media. I disinformatori contano sulla pigrizia, sull’ignoranza, sulla fretta dei giornalisti. Anche il rapporto tra politica e informazione ha un’ambiguità alla base. L’uomo politico è oggetto e fonte, contemporaneamente, dell’informazione: criticandolo come titolare del potere, il giornalista parrebbe volerlo distruggere, corteggiandolo come fonte di informazione lo deve invece piuttosto risparmiare. La corporazione delle Pubbliche Relazioni diventa sempre più scaltra e potente, quella dei giornalisti rischia di trovarsi sempre meno attrezzata. Molti lavori sono appaltati fuori redazione, spesso a condizioni peggiori. All’informazione “precotta” delle Pubbliche relazioni, il giornalista è tanto più esposto, quanto più diminuisce il suo contatto diretto con la realtà. Chi sta nelle redazioni, oggi, passa molte più ore davanti al terminale del computer che incontrando persone. La conoscenza che i giornalisti hanno della realtà diviene, a poco a poco, mediata (se non filtrata) da agenzie tanto più utilizzate quanto più efficienti. Questo gli addetti alle Pr lo sanno, e ne approfittano. Il libro di Izzo e Ranucci è utile perciò non solo a quanti si accingono a sostenere l’esame dell’Ordine, ma a tutti coloro che affrontano ogni giorno il difficile mestiere dell’informazione.