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Puntiamo sulla decrescita

di Alessandro Bedini - 10/07/2006

 

 

Dal momento che le società della crescita, quelle occidentali in specie, hanno fallito i loro principali obiettivi, occorre puntare a una società della decrescita”. In questa affermazione, apparentemente semplice e oggettiva, fatta da Serge Latouche, uno dei massimi teorici della decroissance, si racchiude una sfida epocale che implica una enorme quantità di conseguenze. Che cosa significa decrescita, quale modello sociale presuppone, in che modo è possibile muoversi in questa direzione e soprattutto: che tipo di democrazia sottintende una società della decrescita?

Occorre innanzitutto fare riferimento agli indirizzi di fondo che si rifanno a questa vera e propria visione del mondo: una società fondata sulla qualità anziché sulla quantità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione, sulla giustizia sociale invece che sull’accumulo di ricchezze, sulla solidarietà di contro all’ossessione del successo.

Il concetto di limite, ossia la convinzione secondo la quale una crescita all’infinito non esiste né è mai esistita nella storia del pensiero, tranne negli ultimi duecento anni, è il fondamento psico-immaginativo che sottintende l’idea secondo cui è assolutamente urgente e inderogabile porre fine a un modello di sviluppo sempre più insostenibile. La società della crescita è dominata da un’economia di crescita che è progressivamente diventato l’unico vero scopo della vita. Una simile società configge con le capacità della biosfera in quanto “consuma” ogni risorsa senza aspettare che queste, almeno in parte, si riproducano.

Alcuni esperti ritengono di poter conciliare lo sviluppo con il rispetto dell’ambiente attraverso l’escamotage della cosiddetta ecoefficienza. Si tratterebbe di ridurre progressivamente l’impatto ecologico e l’intensità con la quale ci si approvvigiona delle risorse naturali, portandosi a un livello compatibile con la riconosciuta capacità di sostenibilità del pianeta. Niente di più utopico. La crescita forsennata delle economie capitaliste, un capitolo della quale sono le attuali guerre del petrolio, non permettono alcuna pausa di ricreazione che lasci alla natura la possibilità di riprodurre le sue risorse.

Tutto ciò, oltre a distruggere la biosfera, produce una gravissima ineguaglianza tra le diverse aree del mondo: da una parte i paesi ad economia forte, come si usa chiamarli secondo una definizione piuttosto soft, dall’altra l’ottanta per cento della popolazione del pianeta che consuma meno del venti per cento del totale delle risorse disponibili sulla terra.

Questa situazione esplosiva rischia di portarci in un vicolo cieco. Mai come oggi è attuale la frase di Ivan Illich: “vivere altrimenti per vivere meglio”, che significa che la società della crescita crea un mondo malato della propria ricchezza, puramente illusoria quanto immateriale.

Occorre insomma decolonizzare l’immaginario, recuperare il senso del limite, cominciare a pensare localmente ciò che finora è stato pensato solo globalmente, per parafrasare Alain De Benoist. Il capitalismo distrugge il pianeta così come ha distrutto la società.

Ma l’alternativa non è l’omologazione d’altro segno prospettata dal marxismo, bensì una civiltà delle differenze, che si contrappone al pensiero unico, base di lancio dell’ideologia liberale planetaria, puntando su quella che Latouche ha definito “democrazia ecologica locale”. La polis deve essere ancorata ai propri valori di riferimento, alle rispettive identità, deve essere di piccole dimensioni, quindi marcatamente locale, e innervata da una visione pluriversalista anziché universalista. Una democrazia delle culture e delle diversità, in cui la partecipazione sia davvero tale, in grado di valorizzare gli usi civici e ridefinire il concetto stesso di cittadinanza. Un antidoto all’idea nefasta di governo mondiale.

Una rivoluzione mentale non violenta è alla base della società della decrescita: la cultura del dono e della convivialità, l’altruismo che prevale sull’egoismo, lo svago sull’ossessione del lavoro. Convivialità vuol dire anche recuperare l’aspetto metafisico dell’esistenza, non semplicemente schiacciata sull’economicismo e sulla tirannia del prodotto interno lordo quale unico parametro di benessere possibile.

La decrescita non è il tocco di bacchetta magica in grado di far miracoli, ma è l’unica prospettiva realista che permetta di pensare veramente al futuro.