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Come un viandante al tramonto, nella neve

di Francesco Lamendola - 26/02/2012


 

 

Vi è un momento, un momento preciso delle sere d’inverno, che dura pochi istanti, nel quale sembra che il tempo indugi e si trattenga sul limite dell’orizzonte, prima di precipitare giù insieme alla sfera del sole; un momento in cui i riverberi di luce si spandono come scintille d’oro e le ombre si allungano a dismisura, prima di confondesi nel buio del crepuscolo.

Le sagome dei tronchi e dei rami si stagliano nettissime sulla neve, mentre  l’ultima luce del giorno, percorsa da bagliori di fiamma e d’arancio, si accende di un vivo contrasto con il blu cobalto e con il verde acquamarina degli strati atmosferici più alti, mente le prime stelle si accendono l’una dopo l’altra, come in un presepe.

È come se il mondo trattenesse il fiato, in attesa di qualcosa; la chiesetta, silenziosa e avvolta nelle ombre della sera, come un viandante al tramonto che si avvolge nel mantello, si staglia sul bianco paesaggio innevato, mentre un senso di pace pensosa, di sottile malinconia, si distende nell’anima davanti alla vastità della terra e del cielo.

E così siamo anche noi: viandanti sul ciglio della notte, intabarrati nel gelido venticello di febbraio che scende dai monti; figure incerte che si muovono con passi faticosi e paiono quasi ferme, tanto è lento e stentato il loro andare.

C’è come un mistero nella sera che scende, nell’orizzonte da cui balena l’ultima luce prima di spegnersi, nel bosco che tace in attesa degli uccelli notturni, nella croce sul tetto del piccolo campanile, che spicca contro l’azzurro sempre più cupo del cielo.

È il mistero della bellezza, che ti afferra al cuore con una consapevolezza quasi dolorosa, e ti fa groppo in gola per l’eccesso della sua intensità.

E, con il mistero della bellezza, il mistero della solitudine.

Davanti alla bellezza ogni uomo è solo, terribilmente solo: è solo come se fosse in un deserto infuocato, come se tutto intorno non vi fosse che un oceano di nebbia.

Davanti alla bellezza si vorrebbe avere qualcuno al fianco, si vorrebbe condividerlo con un’altra anima: perché, istintivamente, si avverte che il suo peso è così grande, che potrebbe trascinarci sino al fondo dell’universo, e si vorrebbe qualcuno che ci aiuti a portarlo, che ci aiuti a non crollare sotto di esso.

Ma è un errore, e lo si capisce solo quando si è attraversata la giovinezza e ci si è inoltrati decisamente lungo i sentieri della vita.

La verità è che se non s’impara a convivere con la propria solitudine, non si è degni di ricevere la rivelazione della bellezza; le sue albe rosate e i suoi fiammeggianti tramonti sono riservati solo a colui che li sa accogliere in reverente e mistico silenzio, nella più perfetta e rarefatta solitudine, come l’alpinista che si è spinto più alto di qualunque altro, come l’uccello che è salito fino a dove nessun altro uccello ha mai spiegato le ali.

Questa è la verità: la bellezza è come una fanciulla misteriosa che non si mostra a nessuno, fuor che al suo amante; e che è disposta a raggiungerlo solo nella torre più remota del castello, dove soffiano i venti traverso gli alti finestroni senza vetri: se egli ha paura del fischio del vento e del mugghiare della tempesta, allora è necessario che si dimentichi di lei, del suo passo leggero, della sua chioma fluente, dei suoi occhi brillanti come il cielo.

E non solo la bellezza: anche la verità, anche la bontà, sono simili a quella fanciulla appassionata, ma esigente; anch’esse non riconoscono alcun essere umano come degno di riceverle, se questi non sa attenderle in silenzio e in perfetta solitudine: una solitudine che può durare mesi, anni o anche tutta una vita.

Hai inteso bene, mio giovane amico?

Anche per tutta la vita!

Rifletti bene, uomo, prima di dichiararti un cercatore della verità, della bontà e della bellezza: questi beni preziosi fra tutti gli altri, questi gioielli d’incomparabile valore, non sono per chiunque, ma solo per chi è all’altezza di meritarseli.

Rifletti bene, prima di metterti in cammino per cercarli, mio povero viandante intirizzito: perché dovrai affrontare inverni crudi e lunghissimi, dovrai avanzare nella neve così alta, da sprofondare ad ogni passo e da poter procedere solo a prezzo di fatiche disumane: perché la notte, quando il cielo è coperto di nuvole basse, nemmeno una stella si leva a indicare la strada al viandante, nemmeno una lucerna viene accesa alla finestra per guidare i passi del pellegrino, sfinito dal sonno e dalla fame, che annaspa nella neve candida.

Eppure è così: se non procede da solo, aprendosi la via armato solo della sua fede e del suo coraggio, il pellegrino non si avvicinerà mai alla meta, ma seguiterà a girare in cerchio, come un cavallo o un asino ubriaco, fino a quando non perderà ogni speranza e deciderà di averne avuto abbastanza, e abbandonerà l’impresa.

Come dice il «Dhammapada»: se non trova un compagno simile a lui o migliore di lui, egli proceda solitario come il rinoceronte, incurante di ogni ostacolo.

E il «Suttanipâta»: avendo lasciato dietro a te il piacere ed il dolore, e anche l’antica gioia e la sofferenza; avendo acquistato equanimità, tranquillità e purezza, procedi solitario, come un rinoceronte.

Quante volte ti sentirai smarrito; quante volte ti sentirai esausto; quante volte ti sembrerà di non farcela più, di non poter più fare nemmeno un atro passo, e vorrai gettare lontano ogni illusione e tornare indietro, tristemente, con in bocca il gusto amaro della sconfitta.

Quante volte, non riuscendo a vedere nemmeno una luce davanti a te, per dirigervi i tuoi passi incerti, chinerai la testa sconsolato e scrollerai e spalle, dicendoti di non voler persistere in quella follia neanche per un altro attimo; e  di voler ritrovare la strada battuta, quella su cui passano tutti, sempre, giorno e notte, sicuri anche se inconsapevoli.

Quante volte ti dirai che è stato un errore, una ingenuità, un inganno, quello di volerti mettere alla ricerca di una verità più grande di te, più grande di quanto nessun essere umano potrebbe mai immaginare;  che è meglio rientrare nel mondo degli uomini, per scaldarsi al loro tepore, al tepore delle loro torpide certezze, come fanno le mucche nella stalla, nelle notti d’inverno.

Ma chi ha paura della solitudine, vuol dire che ha paura di se stesso; non osa mettersi alla prova, non osa vedere fin dove è capace di arrivare: non possiede la stoffa del viandante, le grandi distanze e le grandi altezze non son cose per lui.

Chi ha paura della solitudine dipenderà sempre dagli altri, dalla loro approvazione, dalla loro benevolenza; sarà sempre portato a ingraziarseli o, almeno, a non inimicarseli; non sarà mai capace di cantare fuori dal coro, di marciare fuori dal battaglione.

Chi ha paura della solitudine non ha la stoffa del viandante, ma può solo fare il mendicante, che è ben altra cosa: senza fierezza, senza onore, andrà a mendicare di porta in porta, chiedendo di potersi scaldare al fuoco altrui, di potersi asciugare i panni bagnati alla sua fiamma.

Il rinoceronte va diritto per la propria strada, incurante degli ostacoli; si apre il passaggio con il suo corno, calpesta gli arbusti spinosi con i suoi zoccoli; la sua pelle, benché robustamente corazzata, è tutta una trama di graffi e cicatrici: ma il suo sguardo è limpido.

Non teme gli altri, perché non teme se stesso; non ha paura di raccogliersi in se stesso, di ascoltare il silenzio abissale della propria anima.

Chi va solitario per la propria strada, come lui, ha già vinto la battaglia più importante, anche se dovesse perdere tutte le altre: quella contro se stesso; ed è un risvegliato, un liberato, che sa guardare le cose dritte in faccia, perché sa guardare dritto in faccia entro se stesso.

Sa che aver paura della solitudine significa essere già morti; sa che è come trascinare il proprio cadavere sulle strade del mondo, senza speranza, senza bellezza: perché la speranza splende per i coraggiosi e la bellezza non si rivela ai pavidi, che si stringono al gregge per sentirne il calore, ma solo ai forti che amano le altezze, là dove soffiano liberi i venti e dove l’anima rabbrividisce, sola con se stessa: non di sgomento, ma di pura estasi.

Questo devi sapere, prima di metterti sulla via, col bastone in mano e il mantello avvolto intorno al corpo; prima che il freddo ti indurisca le dita e prima che la neve ti penetri nelle scarpe, ghiacciandoti fino al centro del tuo essere.

Se hai paura, non partire: restatene al calduccio accanto al fuoco, nell’aria chiusa della stanza sovraffollata, barattando parole con i tuoi simili, ripetendo i loro motti e fingendo di divertirti ai loro scherzi ed alle loro celie.

Fuori, soffia un vento gelido che ti taglia il viso e porta via le parole: anche se non c’è bisogno di parole, quando ci si mette soli per la via; c’è una vastità che sgomenta, come se il mondo si allungasse mano a mano che il tuo piede avanza, con fatica.

Di tanto in tanto, ti accadrà di vedere un’ombra nella neve: un altro viandante solitario come te, che procede intabarrato e stanco, ma con lo sguardo limpido e con sicura fronte, sulla quale si riflette la luce delle stelle.

Grande sarà la tua gioia nel poterti accompagnare a lui per un tratto di strada, nel poterti riposare al calore della sua anima schietta; grande sarà il conforto di sapere che sei ancora sulla strada giusta, che non hai smarrito la direzione nella notte.

Tuttavia, sta’in guardia: egli deve essere simile a te o, se possibile,  migliore di te; solo così la sua compagnia ti potrà essere d’aiuto; altrimenti, non farà che aggravare il tuo cammino e ritardare la tua marcia, gravandoti l’anima di sconfinata amarezza.

Se è peggiore di te, allora aiutalo, se te ne senti la forza; incoraggialo, indicagli la strada; prenditi anche il suo fardello sule spalle, per un poco, se ti bastano le forze: ma ricorda che non ti sarà mai compagno, ma pietra d’inciampo; non potrai far conto su di lui, non potrai nemmeno aspettarti gratitudine, anzi, tutto quel che farai per lui potrebbe essere frainteso e, forse, non ne ricaverai altro che parole di rabbia o di scherno.

Egli sarà invidioso di te, non ti perdonerà il tuo passo sicuro, la tua fiducia di giungere alla meta senza elemosinare aiuto; divorato dalla gelosia e dalla malevolenza, cercherà di farti lo sgambetto; o, nel migliore dei casi, ti chiamerà “pazzo” e si allontanerà offeso, accompagnandosi ad altri simili a lui, per ridere di te insieme a loro.

Tu scuoti le sue parole dal mantello, come fossero polvere, e prosegui senza concedergli più la minima attenzione; fa’ come se neanche lo avessi incontrato; ma non pentirti d’aver cercato di aiutarlo: questo è un ricordo che dovrà far arrossire lui, non te.

Se troverai un viandante simile a te, allora potrete accompagnarvi per un tratto, scambiarvi consigli ed esperienze, incoraggiarvi con parole adatte: e un dolce tepore scenderà nella tua anima, specialmente se quel viandante sarà una donna eletta, con la quale potrai condividere l’abbandono totale e lasciare ch’ella ti scruti sino in fondo al cuore.

Ma due viandanti simili non possono aiutarsi a progredire veramente; essi marciano sullo sesso piano, nessuno dei due vede più lontano dell’altro. Se, nel buio, capiteranno davanti ad un fosso, vi cadranno entrambi; se uno affonderà nel pantano, anche all’altro accadrà lo stesso.

Per progredire veramente, è necessario che tu incontri un viandante migliore di te; e, naturalmente, occorre che tu lo sappia riconoscere, così come è necessario che egli riconosca te: e né l’una cosa, né l’altra, avvengono per caso, ma sono scritte da sempre nel libro della vita.

Trovare un compagno migliore di te significa aver trovato un maestro: non c’è cosa più preziosa di questa, ricordatelo sempre.

Da lui potrai apprendere cose che, da solo, impiegheresti anni per comprendere; e una fiducia nuova, una dolcezza nuova, scenderanno a riscaldarti nel profondo.

Tuttavia, non dimenticare mai che la voce del maestro è già dentro di te, fin da prima che tu nascessi: è la voce del Maestro interiore, la voce dell’Essere, che parla in te e che ti guida verso la sua dimora, dalla quale eri partito quando ancora non sapevi nulla.

E adesso, se sei ancora deciso a metterti in cammino: buon viaggio, fratello.

Ti guideranno le stelle, finché il cielo sarà limpido; poi ti guiderà l’istinto, anche se dovesse accaderti di sbagliare strada e di dover tornare indietro, più e più volte.

C’è tempo: perché la meta non è fuori di te, ma nell’intimo della tua stessa anima.