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La sclerosi oggettivistica

di Giacomo Gabellini - 28/02/2012


Più di due secoli fa Immanuel Kant segnalava l’impossibilità umana di ricondurre tutto ciò che esiste sul piano “fenomenico” – quello, cioè, in cui la conoscenza umana è in grado di spiegare le dinamiche che determinano gli eventi – in virtù dell’esistenza di una intrinseca realtà “noumenica” inconoscibile, che sta all’origine di tali fenomeni e rispetto alla quale gli eventi che accadono concretamente costituiscono l’aspetto “tangibile”. I fatti, pertanto, non si verificano seguendo una precisa, intrinseca ed evidente logica di base preconfezionata di cui l’osservatore umano è semplicemente chiamato a “prendere atto”, ma richiedono invece di essere spiegati attraverso un processo gnoseologico di riorganizzazione dal caos originario mediante il quale si erano presentati.
Esistono discipline umane, come la matematica e la fisica, che sono in grado – con l’ausilio di particolari e consolidati metodi teorici ed operativi – di certificare che le modalità attraverso le quali si dispiegano certi eventi seguano “oggettivamente” leggi specifiche e ben definite. Ma questo approccio descrittivo impregnato di “oggettività” non è assolutamente applicabile alla realtà tout court, perché le dinamiche attraverso cui si dipanano gran parte degli eventi sono troppo cariche di incognite che inter-relazionano reciprocamente tra loro seguendo le più oscure e indecifrabili “regole” del caos; leggi che l’uomo non è in grado di dedurre. Per questa ragione nel momento in cui lo sguardo scientifico che mira a descrivere oggettivamente la realtà viene a posarsi su spinose e particolari questioni come, ad esempio, quelle che riguardano la politica, scaturiscono regolarmente risultati a dir poco grotteschi per la semplice ragione che i fatti “oggettivi” non esistono.
La realtà passa inevitabilmente per il filtro della mente di ogni singolo osservatore, addentrandosi in un percorso cognitivo dal quale scaturisce una singola, specifica e personale interpretazione dell’accaduto.
Cosa che mina le fondamenta stesse dell’incensatissimo giornalismo anglosassone, quello che pretende di presentare “i fatti separati dalle opinioni”, perché il racconto di un fatto contiene giocoforza l’opinione – desumibile dal rilievo, dalla scelta delle parole, dall’enfasi ecc. – di chi lo espone. E l’interpretazione dei fatti è un compito che espone l’osservatore a molti rischi, perché è regolarmente condizionato da una weltanshaung specifica maturata nel corso degli anni. E siccome questa weltanschaung personale molto raramente è frutto di una fenomenologia delle idee scevra da condizionamenti esterni, non è affatto improbabile né sporadico che gran parte delle narrazioni che vengono offerte dal comparto giornalistico siano infettate dall’ideologia dominante che rappresenta il reale, hegeliano spirito del tempo (zeitgeist).
Per cui l’ostentata oggettività si riduce a un vano tentativo di eludere i rischi connessi alla necessaria interpretazione dei fatti.
E al giorno d’oggi questa tendenza si dispiega nella maniera indicata da Aleksandr Solzenicyn, secondo il quale in Occidente è sufficiente sottrarre il microfono agli interlocutori sgraditi. Cosa che equivale a mostrare alcune immagini e non altre, a dedicare a un data notizia un titolo a caratteri cubitali in prima pagina degradandone un’altra, magari altrettanto rilevante, in un trafiletto a pagina 50. Oppure a riportare solo ed esclusivamente fedelmente le grottesche giustificazioni rese da Shimon Peres all’indomani dell’eccidio di Gaza di fine 2008 senza dar voce ad alcun palestinese, o a esporre pari pari le incredibili menzogne pronunciate dalle autorità statunitensi in merito all’11 settembre 2001, o a conceder spazio infinito alle teorie economiche di tecnocrati europeisti quali Monti, Draghi e Padoa Schioppa nel momento in cui l’euro è oggetto di fortissimi scetticismi e necessiterebbe quanto meno di una radicale riforma politica (prima che economica) capace di fare piazza pulita delle burocrazie di Bruxelles e Strasburgo restituendo una solida identità al Vecchio Continente.
Ma non c’è da stupirsi di tutto ciò, poiché i custodi del pensiero unico conoscono il mantra secondo cui “ripetizione” equivale a “dimostrazione” e non esitano, di conseguenza, a ribadire all’infinito che le opinioni – che sono il frutto più nobile della libertà di pensiero – sono pericolose ed è molto meglio delegare la facoltà di pensare agli specialisti che sanno distinguere cosa è bene e cosa è male. Questi specialisti non esitano ad esprimere rassicurazioni relative al fatto che le loro intenzioni sono rivolte al “bene comune”, ed amano farlo proprio interloquendo con questi osservatori oggettivi, che si limitano a prendere doviziosamente ed acriticamente nota fornendo loro implicita (ma non troppo) propaganda a basso (ma non troppo) costo.
Questi stessi specialisti non amano invece confrontarsi con quegli osservatori non oggettivi, che ritengono necessario sottolineare i contro di qualsiasi scelta politica poiché sono quasi sempre convinti che essa non potrà mai perseguire l’astratto e sempreverde “bene comune” ma finirà inesorabilmente per favorire taluni gruppi a scapito degli altri. In questo mare moto di interessi coloro che si richiamano all’oggettività avanzano la pretesa di porsi al di sopra delle parti, saturi di un malriposto senso di superiorità attraverso il quale presumono di descrivere la realtà “in sé”, laddove questa falsa rappresentazione finisce nella maggior parte dei casi per assecondare inconfessati ed inconfessabili interessi.