Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Afferrare tutta la propria vita in un solo tuffo a volo d’uccello

Afferrare tutta la propria vita in un solo tuffo a volo d’uccello

di Francesco Lamendola - 08/03/2012





C’è una sola maniera di vivere, insegnava Kierkegaard ne «La ripresa», quella di procedere ricordando; perché, aggiungeva, chi vuol solo sperare è un vile, chi vuol solo ricordare è un voluttuoso; e chi non ha compreso che la bellezza della vita è la ripresa, ossia il procedere ricordando, non merita altro destino che quello che lo attende: perire.

Ma che cosa vuol dire: procedere ricordando?

Non significa che bisogna avanzare portandosi dietro il fardello dei ricordi, come un peso; non significa che il passato deve gravare sul presente, deve schiacciarlo, deve condizionarlo; significa, al contrario, che il passato deve costituire un trampolino di lancio verso l’avvenire.

La nostra vita è come un arco proteso fra l’ieri e il domani: il presente è il nostro qui ed ora, il nostro dire: «ecco, io ci sono, sto vivendo»; ma non facciamo in tempo a pensarlo, che già non stiamo più vivendo quel momento, quel momento è passato e noi non siano più noi, siamo altro, quell’io che diceva «sto vivendo» non c’è più, appartiene a qualcun altro, non a noi, non è più nostro, non è più qui.

D’altra parte, non si può nemmeno vivere pensando sempre e solo all’avvenire: così facendo, noi saremmo perennemente fuori di noi stessi, perennemente un passo oltre noi stessi, perennemente all’inseguimento di quel che ancora non siamo, che saremo domani, se avremo un domani - cosa che non è affatto certa, non come lo è il fatto che abbiamo avuto un ieri: il passato è certo, anche se più non ci appartiene, mentre il futuro è incerto, potrebbe arrivare oppure no; la nostra vita potrebbe finire domani, fra un’ora, fra un istante.

Siamo perciò sospesi fra il cadavere del nostro passato e lo spauracchio di un avvenire che forse ci sarà concesso e forse ci sarà negato: per questo dobbiamo dare il giusto peso all’uno e all’altro, non più e non meno di quanto sia opportuno per trovare un sano equilibrio con noi stessi, qui e ora, sulla corda tesa fra due capi che non dipendono da noi, che non sono in nostro possesso: uno perché non più, l’altro perché non ancora.

Il passato rappresenta le nostre radici, ciò che siamo diventati e ciò che stiamo continuando a diventare: noi siamo quello che siamo, perché siamo stati quello che eravamo e non altro; perché, fra le innumerevoli strade che ci si aprivano davanti, noi ne abbiamo percorsa una ed una sola, sia pure, forse, con molte incertezze e giravolte, sia pure sbagliando e ritornando più volte sui nostri passi già percorsi.

Il futuro rappresenta quel che speriamo o temiamo di diventare, quel che diventeremo in base a ciò che siamo ora, a partire dal materiale da costruzione che stiamo fabbricando adesso: saremo quel che saremo, perché ora siamo quel che siamo. Camminando incontro al nostro futuro, noi ci arrampichiamo su noi stessi, scopriamo nuovi orizzonti salendo sulle nostre stesse spalle, proiettandoci oltre ciò che siamo adesso.

Ora, mano a mano che procediamo sulla via, mano a mano che la nostra coscienza si apre alla consapevolezza, e s’inebria nel respiro dell’armonia universale, sempre più ci rendiamo conto che la nostra vita non è, né potrebbe essere, un vagare a caso, di qua e di là, senza meta e senza scopo; che tutto ha un senso, tutto ha un significato, tutto è parte di un disegno mirabilmente ricco e prezioso, che siamo chiamati a tessere su un ordito più antico di noi e più antico del mondo stesso. Anche gli errori, anche le cadute, anche le colpe hanno un senso ed uno scopo: anch’essi, anzi, essi forse più di ogni altra cosa, concorrono a darci la direzione, a indicarci la meta, a sostenerci nel viaggio.

Nulla, della nostra vita, merita di essere gettato via, dimenticato, cancellato; nulla è senza significato, nulla è neutro o indifferente; tutto, dalla cosa più piccola alla più grande, ha contribuito a fare di noi quello che siamo: e se, per caso, stiamo incominciando a sviluppare una intima consapevolezza, ciò è stato reso possibile da ogni singolo attimo, da ogni singola esperienza, compresi gi errori, le cadute, le colpe.

Non possiamo barare su questo: possiamo tentare di ingannare gli altri, ma non la nostra coscienza; ecco perché dobbiamo ringraziare la vita, la nostra vita, con tutto il bene e con tutto il male che in essa vi sono stati e tuttora vi sono.

Allo stesso modo, il saggio contadino accoglie ugualmente il sole e la pioggia, il freddo e il caldo, il vento e l’immobilità dell’aria; anche se, a volte, il sole o la pioggia o il caldo o il freddo, sono più o meno di quanto egli vorrebbe per la terra: ma egli sa che non si può litigare con il Cielo, che bisogna dire di sì a quanto arriva, anche se non coincide con le sue attese o con le sue speranze; ciò che egli può fare, è lavorare sodo per mettere a frutto i doni della natura ed, eventualmente, per porre riparo ai danni ed agli inconvenienti.

Quello che conta, è che noi impariamo qualcosa dalle lezioni della vita stessa, che non ripetiamo sempre gli stessi errori; che permettiamo alle nostre esperienze di migliorarci, di renderci più maturi, di sviluppare la nostra vista interiore, in modo da imparare a riconoscere le cose importanti e da distinguerle dalle cose che importanti non sono, anche se i più corrono dietro proprio a queste ultime, e magari trascurano le prime.

Se noi incominciamo a fare questo, se accogliamo ogni nuovo giorno con lo stupore e con la gratitudine di chi saluta una nuova occasione di perfezionamento e di illuminazione spirituale, allora potremo dire di aver compreso come si fa buon uso della vita; allora potremo andare fieri di essa, pur consapevoli di quanta strada ci resta ancora da fare, pur coscienti di tutte le nostre debolezze, le nostre insufficienze, le nostre grandi e piccole viltà e infedeltà alla missione cui siamo stati chiamati.

Coloro che si vergognano di ciò che sono stati, che si vergognano delle loro sconfitte, sono come dei bambini che non hanno compreso il senso e la bellezza della vita: che non è quello di vincere sempre, non è quello di trionfare di ogni ostacolo, ma avere la coscienza limpida di chi ha fatto quel che poteva, meglio che poteva, con umiltà e con fedeltà alla propria chiamata; e se quel che poteva e che sapeva non è stato sufficiente a vincere, non importa, perché è meglio soccombere con onore, che trionfare con espedienti disdicevoli.

Tutto è importante, tutto è utile, tutto è occasione di crescita, per il saggio: non vi sono cose umili che non possano nobilitare, non vi sono cose basse che non possano innalzare, non vi sono cose tristi o dolorose che non possano recare serenità e pace: perché le cose che, nella vita, ci vengono incontro, corrispondono al nostro livello di consapevolezza, né più, né meno.

Se ci accade di incontrare delle cose che non siamo in grado di apprezzare, perché troppo superiori al nostro livello di consapevolezza, semplicemente non le vediamo, così come la formica non vede affatto la montagna che ha davanti, ma solo il sassolino sul quale si sta faticosamente arrampicando; se, viceversa, incontriamo delle cose che sono al di sotto del nostro livello di consapevolezza, noi le guardiamo con un sorriso di comprensione, ma passiamo oltre, perché da esse non avremmo nulla da imparare, così come un laureando si annoierebbe a dover ritornare sui banchi della scuola elementare.

Questo vale non solo per le cose, ma per le situazioni e, ovviamente, per le persone, ossia per gli incontri che facciamo nel cammino della nostra vita. Quasi tutti i contrasti, quasi tutte le delusioni, quasi tutte le sofferenze, nascono dal fatto di non aver valutato i differenti livelli di consapevolezza: perché lo zoppo non può tenere il passo del maratoneta, e quest’ultimo non ce la fa a camminare piano quanto lo zoppo.

Le incomprensioni, le recriminazioni che sorgono fra amici o fra amanti delusi, hanno qui la loro radice: per quanto ci si possa sforzare di camminare più in fretta o di camminare più piano, alla fine la propria natura prende il sopravvento e risponde alla voce della chiamata, che ci spinge avanti, sempre avanti, e non vuole che sacrifichiamo le nostre potenzialità di crescita.

Non vi è nulla di crudele, nulla di egoista in questo: non stiamo dicendo che chi molto possiede, deve tenere ben stretto il proprio tesoro e non farne parte con gli altri: al contrario; stiamo dicendo che, se si decide di rallentare il passo per aiutare gli altri, non bisogna però aspettarsi da essi una corrispondenza piena e perfetta, poiché questa è possibile solo tra uguali; e che, se ci si sforza di allungare il passo per seguire chi è più forte e più veloce, non ci deve poi aspettare che questi possa dare altro che la sua benevolenza e la sua pazienza, per la stessa ragione.

Il simile chiama il simile, questa è la legge universale; ma la bellezza della vita, il suo stupore, la sua imprevedibilità, risiedono nel fatto che vi sono molti simili, i quali ignorano di esserlo, perché troppo spesso ci si ferma a giudicare secondo le apparenze. Vi sono molti simili che, all’apparenza, non hanno niente in comune; ma basta grattare un po’ sotto la superficie, per rendersi conto che essi si assomigliano come dei fratelli gemelli, anche se differiscono per età, per cultura, per formazione, per esperienze, per le ideologie professate.

Le ideologie, anzi, sono veramente la cosa meno importante di tutte: ciò che attira le persone le une verso le altre sono le comunanze profonde, la condivisione dei valori quali l’onestà, la rettitudine, la lealtà, la sincerità, il disinteresse, l’altruismo; il fatto, poi, di professare idee politiche, religiose o filosofiche diverse, e magari opposte, è del tutto secondario. Chi non ha compreso questo, si può dire che sia ancora al livello di un bambino di pochi anni.

Dunque: ogni nuova alba che si leva ad illuminare il mondo andrebbe accolta con profonda consapevolezza, cioè con gratitudine verso la vita, compresa la nostra vita passata, ossia ciò che siamo stati: dovremmo abbracciarla tutta ogni giorno, a volo d’uccello, con pienezza, con sguardo limpido, con animo sereno ed equanime.

Molte persone vivono immerse nell’amarezza, sprofondate nella rabbia, nella delusione, nel rancore, nel desiderio di rivalsa: esse dividono la loro vita in cose buone e cose cattive, vorrebbero tenere con sé solo le prime e disfarsi delle seconde; vorrebbero non dover mai più incontrare ostacoli, difficoltà, sofferenze: come un contadino che desiderasse soltanto il sole o soltanto la pioggia e che si arrabbiasse quando le cose non vanno nel modo da lui sperato.

L’edonismo oggi dominante ci sta abituando a fuggire la sofferenza, sempre e comunque, dimenticando che essa è la nostra grande maestra: non impareremmo niente di ciò che conta nella vita, senza la sua ruvida carezza, senza le sue laceranti artigliate; diverremmo dei damerini smidollati, dei bambocci viziati e gaudenti, incapaci di affrontare qualunque sacrificio e di portare a termine qualunque serio impegno.

Dobbiamo imparare a vincere la paura, così come l’uccello che, per la prima volta, affronta la prova del volo, deve gettarsi con decisione fuori dal nido, nel vuoto, e inserirsi nel libero gioco dei venti, guardando in faccia anche il pericolo di essere gettato contro gli scogli sulla riva del mare, o contro le rocce sul fianco della montagna.

Non possiamo rimanere per tutta la vita al riparo del nido; non possiamo consumare gli anni a contemplare quel vasto cielo azzurro che si spalanca sopra di noi, con il rimpianto di non aver mai osato spiccare il volo.

Ci sono state date le ali per volare: l’intelligenza, la volontà, un cuore capace di amare e di commuoversi, una sensibilità capace di scorgere la bellezza, di cercarla, di goderne: un’anima capace di accogliere tutto il mondo entro se stessa.

Che cos’altro potremmo ancora desiderare, che non ci sia stato dato?

Ci manca il coraggio? Dobbiamo imparare a chiederlo.

Ci manca la perseveranza? Dobbiamo costruirla giorno per giorno, con pazienza.

Ci manca la speranza? Dobbiamo imparare a guardare meglio: e allora scorgeremo, in mezzo alle nuvole gonfie e minacciose, lo splendore dell’arcobaleno che s’incurva come un arco, pegno di pace fra la Terra e il Cielo.

Ci manca l’amore? Proviamo a lasciar cadere la rigida corazza della paura, dell’egoismo, della superficialità: quello che rimarrà allo scoperto è l’essenziale; e lì troveremo anche l’amore.