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Nasce con la «Mosella» di Ausonio la moderna poesia del paesaggio

di Francesco Lamendola - 09/05/2012




Quando è accaduto, esattamente, che il paesaggio ha incominciato a diventare oggetto della poesia: non come sfondo all’azione degli uomini, non come elemento decorativo, ma come protagonista vero e proprio?

In altre parole: quando è avvenuto che i poeti hanno incominciato a “vederlo”, a vederlo in se stesso, per tutto ciò che è e che rappresenta, e hanno smesso semplicemente di “guardarlo”, con occhio più o meno distratto, più o meno frettoloso?

Quando è avvenuto che la coscienza del paesaggio è entrata a far parte del patrimonio spirituale degli uomini attraverso la poesia (e, naturalmente, attraverso la pittura: ma questa è un’altra domanda, alla quale cercheremo di rispondere un’altra volta)?

Ci sembra che vi siano pochi dubbi in proposito: né Teocrito, né Virgilio hanno veramente “scoperto” il paesaggio, il paesaggio in senso moderno, ossia come una realtà esistente per se stessa e avente in se stessa il proprio significato: il merito spetta a un poeta peraltro mediocre, nonché del tutto inconsapevole del dramma sociale e culturale che si stava producendo tutto intorno a lui: Decimo Magno Ausonio, nato a Burdigala (l’odierna Bordeaux) nel 310 e ivi morto verso il 395, retore e professore, nonché maestro dell’imperatore Graziano.

Ausonio ha scritto molti, moltissimi versi: tipico esempio di erudito grafomane e versificatore compulsivo; ogni circostanza era buona, per lui, per prendere lo stilo e buttar giù dei versi d’occasione: viaggi, cerimonie, arrivi, partenze, incontri, commemorazione di parenti defunti: aveva la vena facile e la schietta cordialità del patrizio aperto, colto e intelligente, ma anche la superficialità e la mancanza di spessore umano della sua classe sociale.

Non vi sono echi, nella sua vasta produzione, dei problemi politici e sociali che attanagliavano l’Impero e che, nel volgere di alcuni decenni dopo la sua morte, avrebbero condotto alla sua dissoluzione.

Le due grandi forze sociali che scardinarono e, al tempo steso, rinnovarono la vita del mondo tardo-antico, il cristianesimo e l’infiltrazione dei barbari, non suscitano in lui una autentica riflessione. La prima lo induce a una conversione così tiepida, così poco sofferta, che invano se ne cercherebbe una traccia significativa nel fiume di parole che pure ci ha lasciato. Della seconda, l’unica cosa che egli ci dice è quanto fosse bella la sua bionda e giovanissima schiavetta germanica, Bissula, ricevuta in dono dall’imperatore Valentiniano per averlo accompagnato nella campagna contro gli Alemanni, e quanto si deliziasse di quel fiore di grazia e di freschezza, riscaldando i suoi anni di vedovo più che maturo (qualche critico pudibondo ha voluto vedervi solo un omaggio platonico alla femminilità; ma i versi, a leggerli bene, sono chiarissimi: e la “voluptas” non è certo la qualità di una fanciulla che si ammiri da lontano).

Sono belle, le poche poesie dedicate a Bissula: vi si coglie, finalmente, un sentimento autentico, anche se non certo profondo; spiccano, comunque, nel grigiore della restante produzione, come un fiore delicato in mezzo ai cardi.

Ma l’opera che ha dato la fama ad Ausonio, e che fa di lui lo scopritore del paesaggio in letteratura, è un’altra: è il poemetto «Mosella», il grande fiume (545 km.) che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno a Coblenza, e sulle cui rive sorgeva la grande città di Treviri (Trier), che fu, al tempo di Ausonio, una delle quattro capitali dell’Impero. È grazie ad essa che il suo nome si è conquistato un posto non del tutto secondario fra gli autori della poesia latina.

Certo, vi sono molta retorica, molta erudizione nell’elenco delle specie animali e vegetali, che ricorda la mania dei cataloghi, propria del suo tempo; ma vi sono anche molta vivacità, molta freschezza, molto stupore sincero nello sguardo con cui Ausonio contempla le acque limpidissime, le rive verdeggianti di vigneti, il profilo dolce delle colline, le belle ville sparse per la campagna, i pesci guizzanti fra le onde, il cielo azzurro e sereno.

Ha scritto il filologo classico Augusto Serafini nella sua pregevole «Storia della letteratura latina» (Torino, Società editrice Internazionale, 1961, 1988, pp.409-10):

 

«Fra le opere minori spicca “Bissula”, una raccolta di delicate poesie per una bimba germanica tanto cara al poeta. […]

Ma il capolavoro di Ausonio è il poemetto “Mosella”: che in circa 500 esametri celebra il paesaggio che si gode lungo il corso del fiume.  L’idea è originale, ché nessuno finora aveva pensato di rendere un fiume protagonista di una propria opra. Come mai Ausonio scelse la Mosella? Egli aveva trascorso molti anni, dopo il 364, nella città di Trèviri, che allora era una delle quattro capitali dell’Impero, splendidamente adorma di monumenti romani i cui resti, assai ben conservati, riempiono oggi di commozione (è la città tedesca di Trier, ai confini col Lussemburgo). A Treviri appunto egli fu precettore del figlio dell’imperatore Valentiniano; lì scorre bellissima e maestosa la Mosella, che fece divenire poeta Ausonio:


“Salve, amnis laudate agris, laudate colonis,

dignata imperio debent cui moenia Belgae,

amnis odorifero iuga vitea cónsite Baccho,

cónsite gramineas, amnis vividissime, ripas!”

(vv. 23-26).

 

(“Salve, o fiume cui dan lode i campi e gli abitanti, a cui i Belgi debbon le mura degne dell’impero [sono le mura e i monumenti di Treviri]; fiume con le colline coltivate di viti che danno il vino profumato; fiume tutto verdeggiante fra le rive erbose!”).

 

Questi pochi versi fanno già capire che il poemetto diviene il canto che dal cuore commosso del poeta si leva verso lo stupendo fiume, dentro il quale si riflettono, come in un miraggio, i colli e le ubertose campagne circostanti: “quando la glauca corrente rispecchia il colle e pare per l’acque frondeggino e che il fiume sia un campo piantato di tralci : il barcaiolo, ingannato, vi conta le verdi viti, mentre con la barca scorre sopra ‘acque calme” (vv. 189 sgg.).

E con quale partecipazione il poeta descrive scene di pesca, rivaleggiando con Marziale per freschezza e vivacità!

 

“Ille autem scopulis deiectas pronus in undas

inclinat lentae convexa cacumina virgae,

inductos escis iaciens letalibus hamos.

Quos ignara doli postquam vaga turba natantum

rictibus invasit, patulaeque per intima fauces

sera occultati senserunt vulnera ferri,

dum trepidant subit indicium, crispoque tremori

vibrantis setae nutans consentit arundo.

(vv. 247-54)

 

(“Ecco il pescatore che da uno scoglio si curva sull’onde scorrenti ai suoi piedi, e inclina la cima della lena flessibile, gettando ami muniti di esche mortali. La vagante fritta dei pesci, ignara dell0inganno, fa subito ressa attorno, con le bocche spalancate; ma quando in fondo alla gola avvertono troppo tardi le ferite inferte dal ferro nascostyo, subito si scuotono con tremiti: e allora il sughero, che dà il segnale, affonda, mentre le scosse del filo agitato si trasmettono alla canna che s’incurva”).

 

E poi il pesce che muore, tra sofferenze atroci: “Ormai un pigro sussulto trema nel debole corpo, e la coda intorpidita manda gli ultimi guizzi; e la bocca no si chiude più; il pesce con le fauci aperte inghiotte disperatamente l’aria, ma le branchie la respingono, esalando soffi di morte” (vv. 263 sgg.).

Insomma Ausonio ha creato con la “Mosella” un’opera fresca, piena di vita e di poesia, ed ha rivelato una nuova sensibilità del paesaggio.»

 

Leggendo questo mezzo migliaio di versi, che non annoiano mai, tale è la capacità dell’autore di variare le angolature da cui contempla l’unico soggetto, il fiume che scorre sereno in una atmosfera piena di vita, di luci, di suoni, di profumi, ci si sente veramente trasportati in una dimensione diversa da ogni altra. Nemmeno poeti molto più grandi di Ausonio, come Virgilio (che pure, continuando il discorso di Serafini sull’agonia dei pesci presi all’amo e realisticamente descritta, ha dedicato versi memorabili, nelle «Georgiche», al dolore degli animali), hanno saputo cogliere il paesaggio ed i suoi abitanti, piante e animali compresi, come un tutto vivente, come un soggetto degno di poesia in se stesso, e non come semplice elemento decorativo.

Ausonio, navigando lungo la Mosella alla volta della grande città, in mezzo alle campagne ubertose, si immerge con animo quasi fanciullesco nel mondo della natura, lo ammira con occhio incantato e commosso, se ne lascia trasportare rapito, non solo fisicamente ed esteticamente, ma anche psicologicamente e affettivamente.

Salvo che in alcuni brevi momenti, l’ispirazione lo sorregge felicemente dall’inizio alla fine: a dispetto della moda imperante dei “cataloghi”, infatti, Ausonio, anche quando elenca con piglio minuzioso le diverse specie di piante e di animali, non si lascia dominare dagli stilemi eruditi, ma si abbandona estasiato al flusso della corrente, in un viaggio materiale che diviene anche un viaggio della coscienza, un viaggio dell’anima.

Non si può non istituire un confronto istintivo con i versi di Rutilio Namaziano, anch’essi ispirati da un lento viaggio in barca (non su un fiume, ma lungo le coste dell’Etruria), effettuato solo pochi decenni più tardi, ma in un clima storico e culturale completamente diverso, e cioè subito dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico, nel 410 d. C. (cfr. il nostro articolo «Il “De Reditu” di Rutilio Namaziano è lo specchio di una classe dirigente ormai allo sbando», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 19/12/2011).

Tanto il poemetto di Ausonio é fresco, vivace, incantato, quanto quello di Rutilio è malinconico, stanco, quasi rassegnato. Eppure, si intuisce che solo le diverse circostanze storiche sono all’origine di tale diversità: l’atteggiamento di fondo dei due poeti è simile, come è simile la loro provenienza; entrambi, esponenti della ricca aristocrazia gallo-romana, non comprendono il presente e cercano l’evasione, uno nella serenità del paesaggio (e tra le braccia sensuali della bionda schiavetta), l’altro nella grandezza passata di Roma, cui leva un canto commosso e giustamente famoso («Urbem fecisti, quod prius orbis erat»).

È, insomma, un mondo crepuscolare, quello di Ausonio e quello di Rutilio: un mondo che corre verso la fine, nel primo caso senza rendersene conto, nel secondo con sofferta consapevolezza, ma senza la capacità di comprenderne le autentiche ragioni.

Ci resta, di Ausonio, l’incantevole freschezza del suo viaggio lungo la Mosella: un fiume che, pur realisticamente descritto, diventa quasi la metafora di tutti i fiumi maestosi, sereni, accoglienti, che scorrono verso il mare; la metafora di quei «viaggi felici» descritti da un altro poeta del paesaggio, cresciuto nella verde campagna veneta un millennio e mezzo più tardi: Giovanni Comisso.

Ma c’è, in Ausonio, un respiro più ampio, di più vasti orizzonti: la Mosella  non è il Sile, è un grande fiume dell’Europa centrale, che, per mezzo del Reno, si versa nel Mare del Nord: c’è qualcosa, nei suoi versi, del vento e del libero cielo dei fiumi descritti in certi romanzi di Simenon, con il procedere grave dei rimorchiatori e il fischio lontano delle sirene.